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nebre della morte. Strenua inertia, diceva Orazio, in altro significato; ma potrebbe dirsi anche in questo; dacchè ella è pure una grandissima possessione il riposarsi nel posseduto. Voglio conchiudere per questo che i maggiori filosofi siano i poltroni? Al contrario sostengo, che più e più gagliardamente opererà chi si studia di coltivare per quel meglio che sa il campo che gli fu dato, di chi perde il tempo a misurare l’altrui, e dove potrebbe gustare le frutta del primo, bada a nutrirsi della vista dell’altro.

Non si veggono dunque persone spostate a questo mondo? Siamo anzi, come diceva a principio, tutti spostati: ma che farne? Forse che ci porremo tutti a luogo col roderci inconsolabilmente la vita? E crediamo che sapremmo nemmeno assegnare agli altri, e specialmente a noi stessi, il luogo che ci sarebbe meglio appropriato? Avevano un bel dire i pastori a quel dabben uomoi cui versi furono pagati tant’oro: tu sei poeta per eccellenza. Il dabben uomo faceva l’incredulo ed il sordo. Era egli poi veramente poeta? Che serve questo? Dico che non si dava affanno, e non montava in galloria per quelle zolfe de suoi colleghi che gl’intronavano l’orecchie. Egli è questo che fa al nostro caso. Avessi tu avuto un più lungo avviamento di studii! Il grand’uomo che saresti diventato! Verissimo; ma dacchè il campo che mi fu assegnato non è che di quei tanti palmi, metterò nell’allevare bene i miei fi-