Pericle principe di Tiro/Atto secondo

Atto secondo

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William Shakespeare - Pericle principe di Tiro (1608)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto secondo
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ATTO SECONDO


Entra Gower.

Gow. Voi vedeste un re potente colpevole di scellerato incesto, fatto persecutore di un buon principe, delizia dei suoi popoli. Non vi sgomentate per anche, e attendete al fine degli eventi. Io debbo ancora mostrarvi grandi cose, che rettificheranno i vostri giudicii sulle cose di questo mondo. Pericle è per ora a Tarso, dove gli vengono decretate statue di riconoscenza, e incomincia a godere di un po’ di pace, ma la pace è breve e lunghe son le tempeste, onde guardate adesso quello che accade.

Pantomima.

Entra da una parte Pericle che parla con Cleone; han seco tutto il loro seguito. Da un’altra parte vien un gentiluomo con una lettera per Pericle; Pericle la legge, poi la mostra a Cleone, e dà quindi una ricompensa al messaggere, a cui eoticede anche gli ordini cavallereschi, Escono quindi tutti da diverse parti.

Gow. Il buon Elicano, rimasto a Tiro, non vi ha spese le ore profittando dell’assenza del suo principe: egli ha divinato il disegno del reo Taliardo, e ha scritto a Pericle ammonendolo che non era più sicuro per lui il fermarsi in Tarso. Venuto in cognizione di ciò il povero principe, torna ad imbarcarsi e a scorrere gli infidi mari che tosto si corrucciano e rispondono all’ira che regna nel firmamento. La tempesta frange il vascello; fra i folgori e la bufera, Pericle, avendo tutto perduto, è balzato di spiaggia in spiaggia; egli solo sopravvive ancora al naufragio suo, ma pare che debba essere per poco; senonchè la fortuna alfine, placata alquanto, lo getta benignamente sopra una sponda. Quel che ne segua, il dramma ve lo dirà: perdonate per ora al vecchio Gower. (esce)

SCENA I.

Pentapoli. — Una landa in vicinanza del mare.

Entra Pericle tutto bagnato.

Per. Calmate una volta i vostri crucci, sdegnose stelle! Venti, uragani, folgori, pensate che l’uomo non è che una sostanza [p. 206 modifica]terrena che convien ceda a voi, ed io come tale a voi mi sottometto. — Oimè! il mare mi gettò di sponda in sponda, mi fe’ approdare sopra sterili roccie, dove una cruda morte poteva soltanto aspettarmi. Basti all’irata fortuna l’aver privato un principe del suo trono, l’avergli tolto ogni agiatezza di vivere, e sia concesso ad un misero di morire pacificamente sa questa riva, dove per ventura è stato alfine cacciato. (entrano tre pescatori)

Pesc. Olà, Pilche!

Pesc. Olà, vieni e porta le reti!

Pesc. In fede ch’io penso ancora a quella povera gente.

Pesc. Infelici, com’erano trabalzati dall’onde!

Pesc. Come si raccomandavano, come imploravano pietà da noi allorchè, sciagurati, avevam pena a salvare noi stessi.

Pesc. Io credo che un solo non sarà scampato a quel naufiragio.

Per. Chi son costoro? Poniamo a partito la loro bontà. — Salvete, onesta gente!

Pesc. Onestà? che vuol dir ciò? Se è per voi un dì fosco, cancellatelo dal calendario, e niuno ve ne farà carico.

Per. Il mare mi ha gettato sopra queste rive...

Pesc. Doveva esser ben ubriaco il furfante, recendovi così.

Per. Un uomo che lo acque e i venti han fatto lor giuoco vi supplica di pietà; egli mendica da voi; egli, che mai non fu uso a stondore la mano.

Pesc. Non v’è alcun male, bel giovine: sonvi in Grecia molti che guadagnano più mendicando, che non facciamo noi col lavorare.

Pesc. Saprai tu pescare?

Per. Non fui mai avvezzo a tal mestiere.

Pesc. Allora certo affamerai; perocchè non otterrai nulla» a meno che nol tel sappi prendere.

Per. Quello ch’io fui, l’ho dimenticato, ma quello che sono, la mia miseria mel tien presente: io sono abbattuto dal freddo: il sangue mi scorre gelido por le vene, e ho appena la vita, che occorre a chiedervi soccorso: se siete insensibili ai miei mali sepellitemi almeno, avvegnachè sono uomo, allorchè mi vedrete morto.

Pesc. Il Ciel nol voglia! Eccovi una veste; indossatela; riscaldatevi. Davvero siete un bell’uomo. Venite, venite con noi a casa, e avrete carne nei dì di festa, pesce nei dì di digiuno, pasticci e polli, e sarete il bengiunto.

Per. Vi ringrazio, amico. [p. 207 modifica]

Pesc. Udite: diceste ch’eravate insolito al mendicare?

Per. So però chiedere.

Pesc. Solo chiedere? Diverrò allora io pure un chiedente, e mi sottrarrò alle sferzate.

Per. Son forse sferzati tutti i mendichi qui?

Pesc. Oh! non tutti, amico, non tutti, perchè se lo fossero tutti, non desidererei miglior ufficio di quello di carnefice. Ma è ora che voi ve n’andiate a stendere le reti. (escono due dei pesc.)

Per. Quanto bene quest’onesta allegria si addice alle loro fatiche!

Pesc. Udite, messere! Sapete voi dove siete?

Per. Non bene.

Pesc. Allora io vel dirò: questa si chiama Pentapoli, e il nostro re è il buon Simonide.

Per. Il buon re Simonide è qui?

Pesc. Sì, e tal nome merita per il suo pacifico regno e pel suo previde governo.

Per. È un re fortunato, dappoichè ottiene da’ suoi sudditi il nome di buono. Quanto è lontana di qui la sua Corte?

Pesc. Un mezzo dì di cammino; e vi dirò che ha una bella figlia, di cui domani corre l’anniversario: sonvi principi e cavalieri venuti da tutte le parti del mondo a giostrare per amore di lei.

Per. Se le mie fortune fossero pari ai miei desiderii, io pure vorrei entrare in lizza.

Pesc. Oh amico! veggo che divenite d’un umore veramente piacevole. (rientrano i due pescatori con una rete)

Pesc. Soccorso, amici, soccorso; v’è un pesce accalappiato nella rete, come i diritti d’un pover uomo nella legge; non lo si può trar fuori. Ah potenze del Cielo! esso viene alfine, ed è invece un’armatura rugginosa.

Per. Un’armatura, amici! Lasciate che io la vegga. Grazie, fortuna, che dopo tante mie perdite mi dai agio di ripararle. Quest’armatura era mia, e mio padre la lasciò a me diceudomi: conservala, Pericle, essa salvò me da morte, e te pure salverà; conservala sempre. Io ben la tenni, e con amore la conservai, finchè gl’irati flutti me la rapirono: essi ora me la restituiscono: ne sian grazie al Ciclo! Non sento più il peso di tutte le mie disavventure, dappoichè torno in possesso di questo dono prezioso.

Pesc. Che cosa v’iuiendcte voi di dire?

Per. Io voglio chiedervi, onesti amici, quest’armatura che fu [p. 208 modifica]di mio padre, per amore di cui vi supplico: vuo’ chiedervi ancora che mi conduciate alla Corte del vostro sovrano, dove, rivestito d’essa, potrò mostrarmi gentiluomo. Se mai le mie fortune muteranno in meglio, io vi ricompenserò delle vostre bontà: infino a quel momento resterò vostro debitore.

Sign. Volete voi viaggiare per quella donzella?

Per. Vuo’ mostrare la virtù che ho acquistata nelle armi.

Pesc. Andate dunque, e gli Dei vi siano propizii.

Pesc. Udite però prima una parola, amico; fummo noi che pescammo questo bell’ornamento: se la fortuna vi seconda, non ci dimenticate.

Per. Vivete certi della mia riconoscenza. Eccomi, mercè vostra, cavaliere di nuovo; eccomi di nuovo sulla via che conduce alle grandezze. Additatemi la via, anelo di giungere alla Corte di cui m’avete parlato.

Pesc. Io vi guiderò fin là.

Per. L’onore è la meta a cui i miei passi son vòlti, e in questo dì io risorgerò, o cadrò per sempre. (escono)

SCENA II.

La stessa. — Una strada pubblica o piattaforma che conduce alla lizza. - Un padiglione da una parte per dar ricetto al Re, alla Principessa, ai Signori, ecc.

Entrano Simonide, Taisa, Signori e seguito.

Sim. Son pronti i cavalieri ad incominciar la giostra?

Sign. Lo sono, signore, e non aspettano che un vostro comando per presentarsi.

Sim. Fate che vengano; e voi Taisa, in onore di cui si combatterà, assidetevi qui al mio fianco, come la figlia prediletta della bellezza. (esce un Sig.)

Tais. Voi vi piacete, padre, ad esaltare i miei meriti che sono assai scarsi.

Sim. Di voi, parlo il vero, nè esagero le vostre lodi, credendovi, come tutti i principi sono, un’immagine del Cielo sulla terra: in quella guisa poi che i gioielli perdono il loro lustro dove sian negletti, così s’oscura l’onore dei principi, se non viene encomiato. Osservate ora attentamente, figlia, gli emblemi di tutti i cavalieri che s’avanzano.

Tais. Così farò, poichè lo richiede il mio onore. (entra un cavaliere; egli passa sul ponte, e il suo scudiero presenta il di lui scudo alla principessa) [p. 209 modifica]

Sim. Chi è questo primo che ne è venuto dinanzi?

Tais. Un cavaliere di Sparta, mio illustre genitore, la cui divisa è un nero Etiope, che tende le mani al sole, col motto: lux tua, vita mihi!

Sim. Molto v’amerà chi crede aver vita da voi. (passa un altro cavaliere) Chi è questo secondo?

Tais. Un principe di Macedonia, mio real padre, che ha per istemma un cavaliere armato, che si lascia vincere da una donzella. La sua divisa è in ispagnuolo: più per dulçura que per fuerça. (passa un terzo cavaliere)

Sim. E quest’altro chi è?

Tais. Uno d’Antiochia, con una ghirlanda, intorno a cui stanno scritte queste parole: Me pompæ provexit apex. (passa il quarto cavaliere)

Sim. Il quarto che ha?

Tais. Una torcia ardente capovolta col detto: Quod me alit, me extinguit.

Sim. Lo che dichiara che la bellezza ha su di lui potere bastante per infiammarlo e per farlo morire. (passa il quinto cavaliere)

Tais. Il quinto è cinto di nubi e ha un pomo d’oro assoggettato al tocco d’una calamita: il suo motto è: sic spectanda fides. (passa il sesto cavaliere)

Sim. E qual’è quest’ultimo che mostra con tanta cortesia il suo scudo?

Tais. Sembra uno straniero, ed ha una fronda verde con queste sole parole: in hac spe vivo.

Sim. Detto assai conveniente allo stato di sconforto in cui sembra. Ei spera di rifiorire le sue fortune col mezzo vostro.

Sign. Gli occorrerebbe più valore che il suo esterno non ne dimostra, perchè da quel che se ne vede, sembra aver trattato più spesso la frusta che la lancia.

Sign. Dev’essere certo uno straniero, poichè viene abbigliato stranamente a questa giostra.

Sign. Ma fors’ei lasciò arrugginire di proposito le sue armi, affidando ai colpi di questo dì la cura di rendergliele terse di nuovo.

Sim. Le induzioni son folli, temerarii i giudizii che dall’esteriore d’un uomo vogliono farci argomentarne l’interno. Ma ora che tutti i cavalieri son giunti, noi andremo ad assistere allo spettacolo. (escono; dopo un po’ di tempo s’odono alte grida, acclamano vincitore il sesto cavaliere) [p. 210 modifica]

SCENA III.

La stessa. — La sala d’un palazzo in cui è preparato un banchetto.

Entrano Simonide, Taisa, Pericle; Signori, Cavalieri e seguito..

Sim. Cavalieri, il dirvi che siete i benvenuti, sarebbe superfluo, come il voler porre in luce le opere vostre che da se stesse si manifestano. Apparecchiatevi ad esser lieti, poichè l’allegria si addice a così fatte adunanze. Voi siete miei ospiti.

Tais. E a voi, mio ospite e cavaliere, a voi io do questa ghirlanda d’alloro, che vi fa re in questo giorno felice.

Per. L’ottengo più per fortuna, che per merito.

Sim. Dite ciò che volete, la giornata è vostra; e nessuno tì sarà, spero, che invidii i vostri trionfi. Molti furono i valorosi, ma niuno che spiegasse tanta virtù. Venite, regina della festa, (che tale o figlia voi siete) assidetevi al vostro posto, e additate ad ognuno il seggio che gli spetta.

I Cavalieri. Molto siamo onorati dal buon Simonide.

Sim. La vostra presenza m’allieta, noi amiamo l’onore, perocchè chi odia l’onore, odia gli Dei. Ponetevi voi costà.

Per. Fate che vi si assida un più degno.

Cav. Non disputate, signore, perchè noi siamo gentiluomini, che nè invidiamo i grandi, nè abbiamo gl’infimi in disprezzo.

Per. Voi siete gentili, cavalieri.

Sim. Sedete, sedete, signore.

Per. Per Giove, ch’è il re dei pensieri, io stupisco che queste vivande mi sembrano così scipite!

Tais. Per Giuno, ch’è regina del matrimonio, tutto quello ch’io mangio, mi pare amaro, e desidererei di cibarmi soltanto di lui, certo egli è un pro’ gentiluomo.

Sim. È un gentiluomo di campagna che non ha fatto più di quello che han fatto gli altri cavalieri, romper cioè una lancia: non pensate più a lui.

Tais. A me egli sembra come un diamante in mezzo a vetri.

Per. (a parte) Codesto re rassomiglia a mio padre, se il ritratto ch’io ebbi non mentisce. In tal gloria egli pure era un dì, e principi aveva intorno al suo trono, che pendevano da un suo cenno. Ognuno s’inchinava a lui, ognuno lo poneva alle stelle, e la sua pompa nondimeno è tutta offuscata nel figliuol suo. Da [p. 211 modifica]questo io argomento, che il tempo è il sovrano degli uomini, e che nulla vi è di durevole, derivante dai mortali.

Sim. Voi siete lieti, cavalieri.

Cav. Potremmo essere altrimenti alla vostra regia presenza?

Sim. In questa coppa, piena fino all’orlo, noi beviamo alla vostra salute, e a quella delle vostre amanti.

I Cavalieri. Grazie ne siano a Vostra Altezza.

Sim. Aspettate un momento. Quel cavaliere là in fondo sta troppo malinconico, come se non vi fosse nella nostra Corte di che rallegrarlo. Non ve ne accorgete, Taisa?

Tais. Che deve calerne a me, padre?

Sim. Oh figlia! i principi debbono essere come gli Dei, che si prendono cura degli affanni d’ogni uomo che gli onora: se tali non fossero, stolto sarebbe l’omaggio che loro si porge. Perciò, per isviarlo da’ suoi pensieri, ditegli che beviamo per lui questa coppa di vino.

Tais. Oimè! padre, non mi si addice tanta audacia con uno straniero: egli potrebbe adontarsi della mia baldanza, e avermi, quale impudente, in mal conto.

Sim. Come! Fate quel ch’io vi dico, o andrò in collera.

Tais. (a parte) Oh buoni Dei! non vogliate ch’ei se ne offenda.

Sim. E di più ditegli che desideriamo di sapere di dove viene, qual è il suo nome e il suo parentado.

Tais. Il re, mio padre, signore, ha bevuto alla vostra salute.

Per. Lo ringrazio.

Tais. Desiderando che quel vino sia altrettanto sangue, che valga rinfrancare la vostra vita.

Per. Di nuovo lo ringrazio, e ringrazio voi pure.

Tais. Egli desidererebbe sapere di dove venite, e qual è il vostro nome?

Per. Sono un gentiluomo di Tiro, chiamato Pericle, educato nelle arti e nell’armi; cerco avventure pel mondo; fui dal mare gettato su questa spiaggia, dopo un naufragio dei più orrendi.

Tais. (a Sim.) Egli vi ringrazia, e dice che si chiama Pericle, gentiluomo di Tiro, che solo per disavventura fu gettato, dopo un naufragio, su queste sponde.

Sim. Per gli Dei! io commisero i suoi mali, e lo distorrò dalla sua tristezza. Su, gentiluomini, c’intrattenemmo anche troppo: di cose frivole, sperdendo un tempo che dovevamo occupare in migliori diporti. Sebbene voi siate ancora vestiti delle armi, non potrete rifiutarvi a intessere una danza. Voi, cavaliere, che siete di Tiro, vi mostrerete anche in questo campo superiore agli [p. 212 modifica]altri, perchè i figli di Tiro han fama d’essere i primi danzatori.

Per. Havvene infatti fra di loro molti che sono eccellenti in tale esercizio.

Sim. E voi ne sosterrete l’onore: allentatevi i cinti e danzate. (i cavalieri e le dame ballano) Grazie, grazie, signori; tutti si sono ben comportati: ma voi, (a Per.) meglio d’ogni altro. — Paggi, conducete questi signori alle loro diverse stanze: a voi ne abbiamo destinato una vicino alle nostre.

Per. Mi conformo al piacere di Vostra Altezza.

Sim. Principi, è troppo tardi per favellar d’amore, perocchè veggo bene che quest’è il tema di cui trattate: ognuno s’accinga dunque ad andare al riposo, e a spendere il dì di dimani in nuove feste. (escono)

SCENA IV.

Tiro. — Una stanza nella casa del Governatore

Entrano Elicano ed Escano.

El. No, no, mio Escano, sappilo pure da me; Antioco era un incestuoso, ed è la colpa per cui gli Dei, non rattenendo di più la vendetta che aveano da gran lunga in serbo, in mezzo alla sua gloria l’abbatterono, e con un fulmine lo precipitarono insieme a sua figlia da quell’aureo carro, in cui entrambi si assidevano superbamente. I loro cadaveri ne restarono talmente mutilati, che quelli che prima gli adoravano, sdegnano ora di dar loro sepolcro.

Esc. Maraviglioso evento!

El. Maraviglioso, ma giusto; perocchè sebbene quel re fosse grande, la sua grandezza non poteva arrestare quella quadrella del cielo, che la sua colpa gli aveva meritata.

Esc. Dite il vero. (entrano tre Signori)

Sign. Se siete determinati davvero, seguitemi.

Sign. Peste a chi s’arretra.

Sign. Non io sarò quello.

Sign. Venite dunque: Elicano, udite una parola.

El. Buon giorno, signori, qual cura vi spinge?

Sign. Sappiate che i nostri oltraggi son giunti al colmo, e che essi non possono più star racchiusi nei nostri cuori.

El. I vostri oltraggi? quali? non offendete il principe che amate.

Sign. Non offendete dunque voi stesso, nobile Elicano. Se [p. 213 modifica]il nostro prìncipe vive, ditecelo, e additateci qual terra è fatta felice dalla sua presenza: se ei vive nel mondo, noi lo troveremo: se rìposa nella tomba, lo troveremo pure: noi siamo contenti, se vive, che ne governi; o se è spento, vogliamo piangerlo con splendidi funerali. Ma in quest’ultimo evento ci sia permesso di venire ad una nuova e libera elezione.

Sign. La sua morte, a nostro avviso, è cosa da non porsi in dubbio: ora conoscendo noi che questo regno senza capo (come le belle fabbriche senza tetto) presto rovinerebbe, a voi, a cui son note tutte le arti del governare, ci sommettiamo, acclamandovi nostro principe.

Tutti. Viva il nobile Elicano!

El. Indugiate, se è vero che amiate il principe Pericle. Dov’io mi arrendessi al vostro desiderio, sarei degno d’ogni pena. Anche per un anno aspettate a fare la vostra scelta, e se in questo tempo non torna il nostro re, io porterò pazientemente il giogo che mi volete imporre. Intanto ite in traccia di lui, e spendete la vita per ritrovarlo: egli saprà ricompensarvi degnamente di tale zelo.

Sign. Pazzo è colui che non vuole arrendersi ai consigli della saviezza: il giusto Elicano ne suggerisce una cosa retta, e dobbiamo fare quello che ei dice.

El. Così uniti d’amore noi ci sosterremo sempre, e il nostro regno non crollerà. (escono)

SCENA V.

Pentapoli. — Una stanza nel palazzo.

Entra Simonide leggendo una lettera: alcuni cavalieri
gli vanno incontro.

Cav. Buon giorno al buon Simonide.

Sim. Cavalierì, per ufficio di mia figlia vi significo, che per quest’anno ella non si mariterà: le ragioni che ha di ciò sono conosciute a lei sola. Io non potei indurla a dirmele.

Cav. Non possiamo aver accesso da lei, signore?

Sim. No, ella ha dati per ciò gli ordini più recisi. Anche per dodici lune ella vuol portare le insegne di Diana: di questo ha fatto voto, per l’occhio di Cinzia, nè infrangerà il suo onore verginale.

Cav. Sebbene con rincrescimento, noi ci prendiamo dunque congedo da voi. (escono)

Sim. Eccomi sbrigato di costoro: mia figlia nella sua lettera [p. 214 modifica]mi dice, che vuole sposare quel cavaliere giunto da poco, o non veder più nè dì, nè luce. Donzella, bene sta; la vostra scelta talenta a me pure, sebbene aveste potuto farmela conoscere con un po’ più di sommessione. Ma chi viene? Il cavaliere appunto. Bisogna ch’io dissimuli. (entra Pericle)

Per. Ogni fortuna al buon Simonide!

Sim. Ed anche a voi, signore! Vi sono grato della dolce musica che mi faceste udire la scorsa notte; le mie orecchie, lo giuro, non intesero mai armonie più soavi.

Per. È la bontà di Vostra Grazia, non il mio merito, che vi fa dire ciò.

Sim. Siete davvero maestro.

Per. Sono l’infimo degli scolari, mio buon signore.

Sim. Permettete che vi chiegga una cosa. Qual vi sembra mia figlia?

Per. Una delle più virtuose principesse.

Sim. Ed anche bella, non è vero?

Per. Come un bel dì d’estate; meravigliosamente bella.

Sim. Mia figlia, signore, pensa egualmente bene di voi, tanto bene, che bisogna che le diveniate precettore.

Per. Io sono indegno di tale onore.

Sim. Ella non crede così; leggete questo scritto?

Per. Che è esso? (a parte) Una lettera in cui dichiara il suo amore al cavaliere di Tiro? Quest’è un’astuzia del re, per togliermi la vita. — Oh! non cercate di tirar nel laccio, mio grazioso signore, uno straniero, un infelice gentiluomo, che non mirò mai a mèta sì alta, qual è l’amore di vostra figlia, e volle solo onorarla con ogni sua prova.

Sim. Tu hai affascinata mia figlia, e sei uno scellerato.

Per. No, per gli Dei, signore: non mai io l’offesi, nè mai con alcun atto volli captivarmi il suo affetto, o meritai la vostra collera.

Sim. Traditore, tu menti.

Per. Traditore!

Sim. Sì, traditore.

Per. Mente per la gola (a meno che non sia il re) chiunque mi chiama traditore!

Sim. (a parte) Per gli Dei! lodo il suo coraggio.

Per. Le mie opere son nobili, come i miei pensieri, che di niuna viltà si risentono. Io venni alla vostra Corte per una causa onorata, e non per commettervi tradimenti. A ognuno, che stimi di me il contrario, questa spada proverà ch’egli è un uomo falso. [p. 215 modifica]

Sim. Viene mìa figlia, che potrà divenire giudice della nostra contesa. (entra Taisa)

Per. Voi che siete virtuosa, quanto bella, spegnete la collera di vostro padre, che crede ch’io v’abbia sollecitata d’amore.

Tais. E dove fosse, potrebbe egli sdegnarsene, se da ciò dipende la mia felicità?

Sim. Così rispondete? — Sono lieto di questa passione. — Io vi domerò, vi rimetterò in soggezione. Vorrete voi, senza il mio consenso, darvi ad uno straniero? che, per quanto io ne so, (a parte) dev’essere di sangue nobile come il mio. — Udite, donzella; conformate alla mia la vostra volontà; e voi anche, signore, ascoltatemi. Lasciatevi entrambi guidare da me; o io vi farò... marito e moglie. Venite, le vostre mani e le vostre labbra suggellino il contratto, e congiuntesi, io distruggerò le vostre speranze, dicendo: Dio vi conceda ogni gioia! Siete contenti entrambi?

Tais. Sì, se voi lo siete, signore.

Per. Contento, quanto un cuore lo può essere in terra.

Sim. Siete bene d’accordo?

Entrambi. Sì, così piaccia a Vostra Maestà.

Sim. Son lieto al pari di voi di queste nozze, che tosto togliam si festeggino con ogni onore. (escono)