Pericle principe di Tiro/Atto primo

Atto primo

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PERICLE

PRINCIPE DI TIRO



ATTO PRIMO


Entra Gower1.

Dinanzi al palazzo di Antiochia.

Per narrare una storia che già anticamente fu detta, il vecchio Gower è risorto dalle ceneri, assumendo tutte le infermità umane; così possa egli rallegrarvi. Questa storia venne cantata nelle Corti dei principi dinanzi alle più belle dame, che trovaronla graziosa, piacevole e interessante. — Se voi, nati in tempi più tardi e in cui gl’ingegni son più maturi, volete udir le mie rime, e potete trovar piacere nell’intendere i canti di un vecchio, desidero che la vita mi sorrida di nuovo, affinchè io possa ricrearvi. — Questa città è Antiochia, la grande, il capoluogo, e il più bel paese (vi ripeto quello che dicono i miei autori) di tutta la Siria; il re, che qui domina, ebbe una moglie2 che morì lasciandogli una figlia così bella, amabile e piena di modi, che detta l’avreste emanata direttamente dal Cielo: di sì vaga creatura il padre prima d’ogni altro innamorò, e trarre la volle alle sue voglie incestuose: scellerato padre! che corruppe così il proprio sangue, egli che ne doveva essere il primo difensore. L’abito rese poscia il peccato famigliare fra di loro. La bellezza però di questa colpevole donna fece sì ch’ella fosse richiesta da molti principi in moglie, a svanire la qual dimanda, egli fece una [p. 196 modifica]legge (onde continuar così a possedersela, o per tener gli uomini in terrore) che chiunque la voleva per sposa doveva spiegare prima certo enigma, o non riescendovi, soggettarsi a perdere la vita: così per lei molti morirono, come i vostri sguardi contristati ne potran far fede3; e come poi tutto ciò finisse, ora vedrete, se la pazienza vi reggerà per assistere fino al termine di questo lavoro. (esce)

SCENA I.

Antiochia. — Una stanza nel palazzo.

Entrano Antioco, Pericle e seguito.

Ant. Giovine principe di Tiro, voi vi siete pienamente conformato alle pericolose condizioni congiunte al carico che imprendete.

Per. Sì, Antioco, e con anima infiammata dal più puro amore sfiderò impavidamente la morte. (si ode musica)

Ant. Fate venire nostra figlia, abbigliata come una vergine, degna dei supremi amplessi dell’Altitonante; nostra figlia, al di cui nascere sorrisero le stelle, e che la natura si compiacque di abbellire d’ogni perfezione. (entra la figlia di Antioco)

Per. Eccola che giunge fresca come la primavera e com’essa diffonde intorno una soave fragranza. Quel suo bel volto è un libro che non contiene che amabili parole, e da cui ogni tristizia è sbandita. Oh! voi sommi Dei, che mi accendeste d’amore pel frutto di quell’albero divino, talchè son deciso o di gustarlo, o di morire, voi soccorretemi pietosi, mentre io m’abbandono alla vampa che mi accendeste nel cuore, e fatemi giungere al possesso di sì indicibile felicità!

Ant. Principe Pericle...

Per. Così potessi esser figlio del grande Antioco!

Ant. Dinanzi a te sta questa vaga Esperide, col suo aureo pomo custodito dai fiammanti draghi. Il suo volto, simile al cielo, non parla che di gloria; ma la morte, la crudel morte, si nasconde dietro a quel velo. Molti principi famosi al par di te, invaghiti della sua bellezza, vollero tentare la tremenda prova, e gli scarni loro teschi, e il biancheggiare delle loro ossa insepolte, possono dirti qual fosse l’esito della loro impresa [p. 197 modifica]avventurosa: essi ti ammoniscono di sotterra di ritirarti da questo cimento, finchè lo puoi; ascolta, Pericle, il loro consiglio.

Per. Antioco, ti ringrazio del tuo ammonimento e degli esempi che mi poni innanzi di nostra fragilità, che sempre più mi fan chiaro come la vita non sia che un soffio, e come il confidare in essa proceda da stoltizia; ma io sono fermo nel mio proposito. A simiglianza dei moribondi, che cogli occhi fissi nel cielo hanno obbliate tutte le gioie terrestri, io fo il mio testamento, e lascio le mie ricchezze alla terra da cui mi vennero, auguro pace a voi, e in voi trasfondo (alla figlia di Ant.) tutta quella piena di amore che m’inonda. Così parato alla vita o alla morte chieggo, Antioco, la prova, sprezzando ogni consiglio.

Ant. Leggete questa scritta dunque, e se non la spiegate, assoggettatevi al destino che colpì tanti altri prima di voi.

Figlia. In tutto, fuorchè in ciò, possa tu essere fortunato!

Per. Io entro da valente campione nella lizza, e non chieggo soccorso che alla mia passione e al mio coraggio. (legge l’enigma)

Non sono una vipera, e nondimeno mi alimento della carne della madre che mi generò; cercai un marito, e non trovai che un padre. Egli è padre, figlio e dolce consorte; io figlia, madre e sposa avventurata; come ciò essere possa toccherà a voi a spiegarlo, se vi cale di respirare anche un poco le aure del dì. — Astruso è il concetto, ma voi, potenze del Cielo, che stenebrate talvolta gli occhi dei mortali, perchè non li lasciate perpetuamente ciechi, se questa è la luce che dove ad essi sfolgorare? La lettura di queste parole mi fe’ impallidire. Oh vaga forma! (prendendo una mano della principessa), io potei amarti, e ancora ti amerei se, quanto bella, tu fossi stata virtuosa. Ma debbo dirvi... ah no! i miei pensieri si ribellano... pure non è uomo chi, lasciandosi vincere dai sensi, pone in non cale la virtù. Voi siete un amabile strumento, che ben toccato, avrebbe renduta una musica da intenerire i cieli; ma suonato da mano profana, l’inferno solo potrebbe ora udirne gli accordi. Di voi più non mi curo.

Ant. Principe Pericle, lascia quella mano, se ti è cara la vita, perchè questo è ancora un articolo del nostro patto pericoloso come il resto. — Il vostro tempo è passato; o spiegate l’enigma, assoggettatevi alla vostra sentenza.

Per. Gran re, pochi amano udirsi rinfacciar quelle colpe che loro piace di commettere; le mie parole potrebbero offendervi. Chi tiene a registro tutte le azioni dei sovrani, adoprerà con più prudenza lasciando chiuso il libro, che aprendolo per leggervi. [p. 198 modifica]I re son gli Dei della terra: e i falli loro van rispettati. Se Giove pecca, chi oserà accusar Giove? Ciò basti; prudenza è il celare quello che, palesato, ingenererebbe sdegno. Tutti amano le viscere da cui riceverono la vita... ma lasciate che io taccia, per amore della mia testa.

Ant. (a parte) Cielo, potessi io averla quella testa! Egli ha divinato il mio segreto, onde mi valga il dissimulare. — Giovine principe di Tiro, sebbene a tenore dei nostri decreti, fallendo voi alla prova, potessimo farvi subire la morte immantinente, nondimeno per un riguardo alla vostra giovinezza, ci mostreremo miti con voi, e vi accorderemo quaranta giorni per ispiegare l’enigma che leggeste, nel qual tempo se riescirete a ben illustrarlo, acconsentiremo con gioia a chiamarvi nostro figlio: fino a che tal intervallo sia trascorso, voi avrete riguardo, lo speriamo, al nostro onore e alla vostra dignità. (esce con sua figlia e il seguito)

Per. Come la gentilezza si sforza per ammantare la colpa. Come vile diventa il delitto, allorchè gli si è squarciata la benda! Oh, così mi fossi ingannato! Così vero non fosse! Ma come dubitarne?... Fanciulla, non ti sovvenisti tu ch’egli era tuo padre! Padre, non rammentasti ch’ella era figlia tua! Ora eccoti diventato padre e figliuolo; ecco lei divenuta figliuola e sposa; eccola contaminatrice del letto di sua madre, ed eccovi entrambi come serpi, che sebben si pascano di dolci fiori, diffondono pur sempre un veleno pestifero. Antioco, addio! Le tue colpe sono più nere della notte, e più non ne arrossirò, nè in luce vorrò porle. Il delitto ama di star celato, e col delitto sovente si assecura; un peccato ne provoca un altro; e l’omicidio segue tanto dappresso l’incesto, quanto il calore la fiamma. Il veleno e il tradimento sono le mani della colpa e i mezzi di cui essa si vale per coprir la sua vergogna; quindi, perchè la mia vita non vi dia sospetto, io penserò a metterla in salvo colla fuga. (esce; rientra Antioco)

Ant. Egli ha sciolto l’enigma, per cui noi vogliamo avere la sua testa. Non debbe vivere, per andare a divulgar dovunque il nostro disonore, e dir al mondo che Antioco si rese colpevole di sì nefando peccato. Immantinente convien ch’egli muoia, onde resti assicurata la mia pace. — V’è nissuno costà? (entra Taliardo)

Tal. Chiama, Vostra Altezza?

Ant. Taliardo, tu sei dei nostri più intimi, e dividi tutti i nostri segreti con fedeltà; sapremo ricompensarti del tuo amore. [p. 199 modifica]Intanto mira qui, Taliardo, quest’è veleno, e questo è oro: noi odiamo il principe di Tiro, e tu devi ucciderlo. Non si addice a te il dimandare la ragione di tal ordine, ma solo il compierlo. Che dici Taliardo?

Tal. Signore, obbedirò.

Ant. Ciò basta. — (entra un messaggiere) Che vuoi? Sii breve. (al mess.) Non abbiam molto tempo per udirti.

Mess. Signore, il principe di Tiro è fuggito. (esce)

Ant. Se ami di vivere, corrigli dietro; e come una quadrella lanciata da esperto arciero, attingi il tuo bersaglio, e non ritornare a me, a meno che tu non venga per dirmi che Pericle è morto.

Tal. Signore, s’io potrò farmegli vicino solo un istante, ei cesserà di respirare le aure vitali. Addio, mio re.

Ant. Taliardo, addio! (Tal. esce) Finchè quel principe non sia estinto, i miei pensieri non avran più ordine, nè il mio cuore più calma. (esce)

SCENA II.

Tiro. — Una stanza nel palazzo.

Entrano Pericle, Elicano e signori.

Per. Fate che nessuno qui venga... Oh! perchè sono io sì mesto? La tristezza che ha preso albergo nel mio seno (tomba in cui il dolore dovrebbe dormire), non mi lascia tranquillo un’ora del dì nè della notte. Mille piaceri si offrono ai miei occhi, che i miei occhi rifiutano, e sebbene i pericoli che mi teneano agitato siano rimasti ad Antiochia, troppo lunge di qui perchè ora mi possano infastidire, pure una tempesta continua provo nel cuore, che disperde da me ogni sentimento più lieto. Ah! pur troppo è così: le agitazioni della mente che furono ingenerate dal timore vengono alimentate da mille cose da nulla, e quel primo terrore che, non secondato, poteva svanire, si radica poi tanto, che si fa tiranno d’ogni pensiero. — Codesto è avvenuto a me. — Il grande Antioco (contro di cui io son troppo piccolo per lottare, e che può convertire in atto ogni sua volontà) crederà ch’io divulghi il segreto, sebbene giurassi di mantenerlo; nè gioverebbe che io gli dicessi che lo stimo, dappoichè ei crede ch’io non lo stimi, e sapendo conosciuto quello che può farlo arrossire, vorrà chiuder la bocca all’indiscreto conoscitore. — Con eserciti feroci perciò si apparecchierà ad invadere questa terra, e la mostra della sua forza colpirà così gli animi di terrore che i nostri soldati resteran [p. 200 modifica]vinti prima di aver combattuto, e uomini che mai non l’offesero verran puniti. La compassione che provo per questi miei sudditi più che il timore di me (che non son che la cima frondosa dell’albero che ne adombra le radici e le protegge) fa languire il mio corpo e gemere l’anima mia.

Sign. Gioia e salute a voi, mio principe.

Sign. La pace e i conforti rallegrino il vostro spirito.

El. Tacete, tacete, signori; è un ingannare i re l’adularli, perchè l’adulazione è il mantice che soffia ogni peccato: la cosa adulata divien come una scintilla, che quel vento converte di subito in fiamma; mentre le verità dette con moderazione fanno onore a chi le proferisce e a chi le ascolta. Allorchè questi signori vi fanno augurii essi fingono di non avvedersi del vostro stato: ma io mio principe... perdonatemi o punitemi se volete... io non posso dissimularvi il malcontento che traspare da voi.

Per. Ogni altro di voi ci lasci, e sia vostra cura d’andare al porto per vedere quali vascelli sono approdati, e venircene poscia ad informare. — (escono i Sign.) Elicano, io credo a te: or che vedi tu ne’ miei sguardi.

El. Una gran tempesta, mio temuto signore.

Per. E se ciò è, come ardisci tu esporviti, e invece non te ne allontani?

El. Come ardiscono le piante riguardare al cielo da cui traggono il loro alimento?

Per. Tu sai ch’io potrei toglierti la vita?

El. (inginocchiandosi) Eccovela, toglietemela, se volete.

Per. Alzati, te ne prego, alzati, ed assiditi al mio fianco; tu non sei un adulatore, te ne ringrazio, e non voglia il Cielo che i re chiudano ai loro falli le orecchie! Degno consigliere e servo di un principe, a cui per la tua saviezza dovresti imperare, che debbo fare io?

El. Sopportare con pazienza quei dolori che vi stan sopra.

Per. Tu parli come un medico, Elicano, che amministra all’infermo una pozione ch’egli tremerebbe d’inghiottire. Ascoltami. — Io andai ad Antiochia, dove sai che, sfidando la morte, volli venire in possesso di quella egregia bellezza, da cui sperava una gloriosa posterità colla gioia de’ miei popoli. Il di lei volto superava ai miei occhi ogni maraviglia, ma il resto... (odilo all’orecchio)... era incestuoso e infame. Questa scoperta ch’io feci, e che lasciai travedere a metà, mi attirò però dal suo reo padre adulazioni, non isdegni; ma tu sai che quando i tiranni accarezzano è allora appunto che meditano di ucciderti. Il qual timore fatto [p. 201 modifica]in me prepotente, m’indusse a fuggire sotto la salvaguardia di una oscura notte che benignamente si stese, e qui venni memore del passato e trepido dell’avvenire. Io so ch’egli è un tiranno, e i timori dei tiranni non decrescono, ma aumentano col trascorrer dei giorni. E se dubitasse (come certo dubiterà) ch’io palesar possa pure all’aere di quanti valorosi principi egli sparse il sangue per continuare nel godimento del suo amore scellerato, ad un tal dubbio egli certo assalirebbe questa terra, e valendosi di qualche pretesto, spargerebbe le stragi fra i miei sudditi, non risparmiando nè il sesso, nè l’innocenza. L’amore che io porto al mio popolo (di cui tu sei uno dei più degni rappresentanti, e che tanto meriti il mio affetto...)

El. Oimè, signore!

Per. Mi toglie il sonno dagli occhi, il sangue dalle guancie, la saviezza dalla mente, e mi suscita mille incertezze intorno al modo di allontanare questo flagello.

El. Bene, signore, dappoichè voi mi deste licenza di parlare liberamente, io favellerò. Voi temete con ragione di Antioco che, o con pubblica guerra, o con privata tradigione, vorrà rapirvi la vita. Quindi, signore, io vi consiglio di andar a viaggiare, finchè la sua rabbia sia passata, o i destini abbiano recisi i fili della sua vita. Intanto confidate a qualcuno i vostri poteri, e se prescegliete me, il dì non sarà più fedele alla luce, ch’io a voi non sia.

Per. Non dubito della tua fede, ma se egli dovesse prevalersi della mia assenza per.....

El. Mescoleremo insieme il nostro sangue sulla terra, da cui ricevemmo l’essere e la vita.

Per. Tiro, io mi accomiato dunque da te, e drizzerò i miei passi a Tarso. Là tu mi spedirai tue novelle, e dalle tue lettere prenderò governo. Io rimetto a te le cure che ebbi sempre pel bene dei miei sudditi, a te che per saviezza non puoi venire meno a tal carico. La tua parola mi risponde della tua fede, nè ti chieggo sacramenti: chi può mancare all’una, può mancare agli altri. Colla nostra separazione noi mostreremo al mondo che le avverse circostanze sono inette a mutare il cuore di un suddito leale, o di un buon principe. (escono)

SCENA III.

Tiro. — Un’anticamera nel palazzo.

Entra Taliardo.

Tal. Eccomi alfine nella Corte di Tiro. Qui debbo io uccidere il re Pericle, o se nol fo, trovar la morte riedendo in patria. [p. 202 modifica]Pericolosa impresa! — Ben savio fu quegli che, richiesto da un re di quello che meglio desiderasse, rispose della grazia di non conoscer mai niuno dei suoi segreti. Adesso m’avveggo quanto discreto fosse: perocchè se un re comanda ad un suo fido un’opera scellerata, egli è tenuto a compierla pel suo giuramento. — Ma ecco i magnati di Tiro. (entrano Elicano, Escano ed altri signori)

El. Voi non dovete più oltre dubitare, miei colleghi, della partenza del re; il suo suggello, lasciato in mie mani, vi dice abbastanza che è ito a viaggiare.

Tal. (a parte) Il re è partito!

El. E se vi desta stupore così improvvisa risoluzione, vi dirò che essendo egli in Antiochia...

Tal. (a parte) Udiamo.

El. Il re di quella terra, ignoro per qual motivo, concepì un segreto astio contro di lui, almeno egli così credè, e dubitando che il dimostrarsi pentito di quel fallo ch’egli avesse potuto commettere valesse a rendergli l’amicizia di quel monarca, corse ad affrontare le fatiche del marinaio, a cui ogni istante può recar il termine della vita.

Tal. (a parte) Codesta partenza mi salva, e dappoichè se n’è ito, troverà in mare quella morte che non ha potuto trovare in terra. Ma è tempo che mi presenti. — Pace ai signori di Tiro!

El. Taliardo d’Antiochia, siate il bengiunto.

Tal. Antioco mi manda con un messaggio pel principe Pericle; ma dappoichè intesi qui approdando che il vostro signore si era accinto a sconosciuti viaggi, riporterò il mio messaggio a quegli che me ne incaricò.

El. Noi non avremmo ragioni per impedirvi di farlo, dappoichè al nostro signore piucchè a noi eravate indirizzato. Però prima che ve ne andiate, desideriamo, come antichi amici, che partecipiate con noi ad un banchetto. (escono)

SCENA IV.

Tarso. — Una stanza nella casa del Governatore.

Entrano Cleone, Dioniza e seguito.

Cl. Mia Dioniza, vogliam noi alleviare i nostri dolori, ricordando esempi di sventure d’altri?

Dion. Sarebbe come un soffiar nel fuoco colla speranza di spegnerlo; appianare un colle per formarne uno più alto. Oh mio [p. 203 modifica]signore! i mali nostri strappano le lagrime, e non possono avere refrigerio da altri mali.

Cl. Dioniza, chi manca di cibo può egli dissimulare il suo bisogno e tacere finchè sia morto di fame? Le nostre lingue debbono bandire i nostri dolori; e i nostri occhi piangere, finchè hanno lagrime, onde se la clemenza del Cielo ne ha obbliati, propiziarcela possiamo colle dimostrazioni delle nostre sventure. Io innalzerò dunque la voce per far noti i nostri guai, e mancando di lena per parlare, tu mi soccorrerai col pianto.

Dion. Lo farò, signore.

Cl. Questo Tarso, già tanto fiorente, che io governo, in cui le ricchezze pareano aver posto il loro seggio; le di cui torri elevavansi così sublimi, che sembravano baciar le nubi, svegliando l’ammirazione dì ogni straniero; in cui uomini e donne sfoggiavano quanto ha di più eletto il lusso; in cui ogni abbondanza ed ogni piacere trovavasi, dal quale ogni povertà era bandita, e in cui sconosciuto era pur anche il nome del male; è ora...

Dion. Oimè me!

Cl. È ora... (collera tremenda del Cielo, che non puoi tu fare!) è ora l’albergo d’ogni infelicità; il ricovero d’ogni sventura! Quelle bocche, cui non ha molto tutti gli elementi concorrevano a fornire di quel che posseggono di più eletto, sono adesso affamate; quei palati, che non ha molto fastiditi erano delle più pellegrine imbandigioni, anelano ora ad assaggiare un po’ di pane che invano richieggono; quelle madri, che non trovavan nulla di troppo costoso per alimentare i loro bambini, sono ora pronte a divorarli per isfamarsene: così acuti sono i denti della fame, che moglie e marito cavano a sorte chi prima deve morire per allungare la vita dell’altro; uomini e donne, vecchi e fanciulli ogni giorno cadono consunti, e appena se nei sopravviventi riman forza bastante a dar loro sepoltura. Non è ciò vero?

Dion. Le nostre guancie e i nostri occhi ne fan fede.

Cl. Oh! possano quelle città, che hanno in copia anche il superfluo e godono d’ogni bene, aver pietà delle nostre lagrime, e intenerirsi alla miseria di Tarso. (entra un Signore)

Sign. Dov’è il governatore?

Cl. È qui; dichiaragli quale sventura arrechi, perchè le consolazioni non son più fatte per noi.

Sign. Abbiamo veduto veleggiare in queste rade un superbo navilio, che sembra indirizzarsi a questo porto.

Cl. Lo aveva preveduto; un male non giunge mai solo, ma ne reca sempre con sè un altro che ne possa tenere il luogo. [p. 204 modifica]Qualche nazione vicina, approfittando dei nostri guai, avrà caricata quella flotta di soldati per soggiogarne: e verrà a far una conquista senza gloria e senza dignità.

Sign. Di ciò non vuol temersi: dalle bianche bandiere spiegate si discerne che sono amici i vascelli che vogliono approdare qui.

Cl. Tu parli come l’inesperto, che pone fede nelle mostre esteriori. Ma di che temeremmo noi? Tanto giù siam caduti, che di più omai non possiamo discendere. Va, e di’ al capitano di quella flotta che l’aspettiamo qui, per sapere perchè viene, di dove viene, e che vuole.

Sign. Vado, signore. (esce)

Cl. Benvenuta è la pace, se ei ne arreca pace: se guerra, non potremo resistergli. (entra Pericle col suo seguito)

Per. Nobile governatore, che tale ci vien detto che siate, non vi prenda stupore dei nostri vascelli e delle nostre milizie. La fama delle vostre miserie giunse pur anche in Tiro, e noi abbiamo veduta la desolazione che regna per queste contrade. Noi non venimmo per accrescere il carico dei vostri dolori, ma per alleggiarli per quanto era da noi. Voi forse potreste credere che quei nostri vascelli, come il cavallo di Troia, fossero carichi di armati, giunti per guerreggiarvi, ma essi invece recano abbondanza di granaglie, che faranno cessar la carestia di questa povera terra.

Tutti. Gli Dei della Grecia vi proteggano! Noi li pregheremo sempre per voi!

Per. Sorgete, ve ne supplico, sorgete: noi non vogliam venerazione ma amore, e un ricovero benigno per noi e pel nostro seguito.

Cl. Se qualcuno di noi potesse pensare a non accordarvelo, ei sarebbe degno della maledizione del Cielo! Siate il bengiunto, ottimo principe, e vivete certo della nostra riconoscenza.

Per. Vi crediamo volontieri; apparecchiatevi intanto a banchettare, e aspettiamo tutti giorni migliori di quelli che abbiamo veduti. (escono)



Note

  1. Gower, che qui rappresenta il coro, fu un antico poeta inglese che narrò la storia di questo dramma nella sua Confessio Amantio.
  2. Pheere ha il testo.
  3. Additando le porte del palazzo di Antiochia, su cui stanno confitte molte teste.