Pericle principe di Tiro/Atto terzo

Atto terzo

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ATTO TERZO


Entra Gower.

Gow. Ora tutto dorme, tutto è silenzio, il banchetto nuziale ha sepolte nell’obblio molte persone. Ora i gatti con occhi scintillanti stanno appostati dietro alle buche dei topi, e il canto odi ora solo della civetta e del cuculo. L’imeneo ha guidata nel letto la sposa, che diverrà madre in breve. State attenti, e quello che non comprenderete nella pantomima che sta per seguire, io poscia ve lo spiegherò colle parole.

Pantomima.

Entrano Pericle e Simonide da una parte con seguito; un messaggere va loro incontro, s’inginocchia, e dà a Pericle una lettera, Pericle la mostra a Simonide; gli uomini del seguito s’inchinano al primo di questi due. Entra poi Taisa incinta e Licorida. Simonide mostra la lettera a sua figlia che se ne compiace, e che insieme con Pericle prende quindi congedo dal padre e parte. Simonide col suo seguito si ritira da un altro lato.

Gow. Dopo molte penose ricerche fatte di Pericle per tutti gli angoli del mondo, da Tiro alfine vengono recate lettere alla Corte del re Simonide, il di cui tenore è questo: Antioco e sua figlia son morti; gli abitanti di Tiro vorrebbero porre sul capo di Elicano la corona che egli rifiuta, ma la plebe è sossopra, e se Pericle non riede nell’intervallo di un anno, bisognerà che ci conformi al di lei volere salendo sul trono. La somma di tali dispacci recati in Pentapoli fa spalancare ad ognuno occhi di meraviglia, fa a molti esclamare: chi avrebbe creduto che il vincitore del nostro torneo fosse un re? Ma questo re bisogna che ritorni a Tiro: la sua sposa incinta si assoggetta a tal partenza, sebbene con dolore. Licorida, sua nutrice, va con essi ad imbarcarsi. Il loro vascello scorre sull’onde gran tempo propizie, poi la fortuna varia, e sorge un nembo dal nord, che pone in gran pericolo la misera nave. Taisa grida, e per terrore è colta dalle doglie del parto, ma quello che segue a tal tempesta, lo vedrete da voi stessi: io non debbo riferirvelo. L’azione porrà il tutto in chiaro, che esposto da me perderebbe molta parte di interesse. Intanto imaginate di vedere in questo palco scenico il vascello, su di cui verrà a parlarvi il principe infelice. (esce) [p. 217 modifica]

SCENA I.

Entra Pericle sopra un vascello in mare.

Per. Tu, Dio di queste vaste solitudini, frena le onde che si distendono minacciose dal cielo all’inferno: tu che hai impero sui venti, incatenali col potente tuo braccio, che troppa è l’ira con cui essi ruggiscono sulla terra! Oh! acqueta il tuo formidabile, il tuo tremendo tuono: spegni quei lampi! — Licorida, gentil Licorida, come sta la mia sposa? — Feroce tempesta, non avrai tu più fine? — Il fischio del marinaio è come una parola di morte, proferita all’orecchio del passeggiere. — Licorida, Lucina, oh cara Diva, che accorri di notte ai gemiti delle partorienti, proteggine, vieni qui da noi, e rendi miti i dolori che debbono far divenir madre la mia regina! — Licorida, ebbene? (entra Licorida con una bambina)

Lic. Ecco una creatura troppo giovine per questa dimora, che se comprendesse il pericolo che corre, morrebbe, come io forse farò. Prendete fra le vostre braccia questo frutto della vostra sposa morta.

Per. Oimè! che dici Licorida?

Lic. Calmatevi, buon signore, non secondate voi pure la tempesta. Quest’è quanto rimane della vostra donna... una fanciulletta, per amore di cui dovete sostenere le vostre ambascie.

Per. Oh Dei! perchè ne fate voi amare i vostri doni, e ce li rapite poi così? Noi mortali non ridomandiamo quello che abbiam dato una volta, e siamo quindi più generosi di voi.

Lic. Calmatevi, buon signore.

Per. Oh! lieta almeno sia la tua vita, perchè fanciulla mai non ebbe nascita più tempestosa. Liete scorrano le tue ore, dappoichè vieni a questo mondo cogli auspicii più tristi che mai avesse figlio di principe. Tu vesti natali sì solenni, quali il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra e il cielo potevano darteli, per annunziare il tuo distacco dal seno di tua madre. La perdita prima che soffrì, è già troppo grande, perchè tu vi possa sopravvivere. Gli Dei abbiano pietà di te! (entrano due marinai)

Mar. Coraggio, signore. Iddio vi salvi.

Per. Coraggio ne ho, nè temo i flutti: nulla di male possono più farmi: per amore però di questa povera fanciulletta nata da poco, vorrei si calmassero.

Mar. Allenta le funi, vediamo d’andare a ritroso. [p. 218 modifica]

Mar. No, pel cielo! che rischieremmo d’affondare. Vedi come i flutti s’alzano fino alla luna!

Mar. Signore, la vostra sposa v’è di troppo: il mare è sdegnato, i venti fremono, e non taceranno finchè il vascello non sia alleggerito degli estinti.

Per. Codesta è una vostra superstizione.

Mar. Perdonateci, signore, è regola che si osserva in mare, e a cui dovete conformarvi. Arrendetevi, e abbandonateci il suo cadavere.

Per. Sia come volete. — Sfortunata regina!

Lic. Ella dorme qui, signore.

Per. Avesti una fatal sorte, mia povera sposa! Non letto, non fuoco, bersaglio agli elementi nemici: nè posso pur darti un santo sepolcro, ma convien che all’onde ti getti come cadavere scomunicato, dove per monumento e per lampade funerarie avrai cumuli d’acque immonde e un fioco chiaror di stelle. Licorida, di’ a Nestore che mi rechi il necessario per scrivere e i miei gioielli, e di’ a Nicandro che mi porti quel cofanetto di raso: posa la bambina sopra un guanciale, ed abbine ogni cura. Affrettati, affrettati, finchè il senno mi regge. (Lic. esce)

Mar. Signore, abbiamo disotto una cassa, in cui, se volete, potrem mettere la vostra sposa.

Per. Ti ringrazio. Che costa è quella?

Mar. Siam vicini a Tarso.

Per. Approda costì, marinaio. Sarà lungo il tragitto?

Mar. Coll’aurora l’avremo compito, se cessano i venti.

Per. Ebbene, si vada; visiterò Cleone, e mi prenderò pensiero della bambina, che non potrà reggere fino a Tiro: quivi l’affiderò ad una esperta nudrice. Andiamo, marinari, venite a prendere le spoglie di Taisa. (escono)

SCENA II.

Una stanza nella casa di Cerimone.

Entrano Cerimone, un domestico e alcune persone che han naufragato su quelle sponde.

Cer. Filemone, olà! (entra Filemone)

Fil. Chiamate, signore?

Cer. Appresta fuoco e cibo a questa povera gente. Fu una notte ben tempestosa. [p. 219 modifica]

Dom. Molte di terribili ne avevo viste; ma una simile a questa mai.

Cer. Il vostro padrone morrà anzichè voi siate ritornato; qui non vi è nulla che lo possa ristorare. Correte dal farmacista e chiedetegli se possa farsi niente. (escono Fil. il dom. e i naufragati; entrano due gentiluomini)

Gent. Buon giorno, signore!

Gent. Buon giorno a Vossignoria!

Cer. Come mai in piedi così per tempo?

Gent. Le nostre dimore, signore, poste sulla spiaggia del mare, tremano come un febbricitante: le più forti travi paiono in procinto di spezzarsi; e quegli edifizii sembrano stanchi di sussistere. Il timore mi fe’ escire.

Gent. Questa è la cagione che fe’ porre in via me pure.

Cer. Oh qual tremendo uragano!

Gent. Ma io stupisco molto che voi, munito di un’abitazione sicura e provvisto d’ogni bene, vi siate distolto tanto per tempo dal dolce riposo. È strano che la natura debba assoggettarsi a tali pene, non essendovi astretta.

Cer. Io ritenni sempre che la virtù fosse di gran lunga più pregevole che la nobiltà e le ricchezze, mentre le une possono venire dissipate, ma l’altra è immortale, e fa d’un uomo un Dio. E noto ch’io ho studiato le scienze fisiche, e che sono istrutto della virtù d’ogni vegetabile, d’ogni metallo, d’ogni pietra: io conosco molti segreti della natura, molte sue meraviglie, ciò che mi fa provare un maggior contento che non me ne diano le follie dell’ambizione.

Gent. Voi avete steso sopra molti la vostra carità, e sono centinaia di persone in Efeso che furono da voi restituite alla vita. La vostra splendidezza poi è tale, che vi rende famoso per tutte le parti del mondo. (entrano due domestici con una cassa)

Dom. Posiamola qui.

Cer. Che v’è?

Dom. Testè signore, il mare gettò sulla nostra sponda questa cassa: apparteneva certo a un vascello naufragato.

Cer. Apritela, vediamo cosa v’è dentro.

Gent. Pare un cataletto, signore.

Cer. Qualunque cosa contenga, essa è assai pesante. Apritela; se lo stomaco del mare è sopraccarico d’oro, buona fortuna è che esso il rigetti sopra di noi.

Gent. Dite bene, signore. [p. 220 modifica]

Cer. Con quanta cara è chiusa e suggellata! Il mare fu da tanto da sollevare sì fatta cassa?

Dom. Non mai vidi flutti più irati, signore.

Cer. Apritela, apritela... ma adagio... parmi ne emani un soavissimo odore.

Gent. Un odor delicato.

Cer. Quale di rado sentii..... aprite. Oh potentissimi Dei! Che v’è costà? Un cadavere!

Gent. Strano infatti!

Cer. Regalmente vestito! Imbalsamato e cosparso di gemme e di essenze! Che pergamena ha con se? Apollo, fammene intendere i caratteri. (svolge un foglio che stava nella cassa e legge) Se questo feretro approderà mai a qualche terra, io, re Pericle, fo noto, che esso racchiude la regina più degna che mai vivesse. Chiunque la trova, le dia sepoltura, poichè ella fu figlia di re: insieme a queste gemme, che per suo guiderdone potrà appropriarsi, gli Dei lo ricompenseranno della sua carità! Se tu vivi, Pericle, dev’essere grande la tua ambascia! — Forse essi naufragarono stanotte.

Gent. Facilmente, signore.

Cer. Sì certo, stanotte, poichè, guardate com’ella è anche fresca! Barbari furono coloro che la gettarono in mare. Accendete fuoco: recatemi quei vasi che stanno nel mio gabinetto. La morte talvolta usurpa alla natura ore, su di cui non avrebbe possanza. Udii parlare di un egiziano che giacque per nove ore morto e poi rinvenne, (entra un domestico con alberelli, panni bianchi e fuoco) A meraviglia; il fuoco e i drappi. Fate che sii oda un po’ di musica, disponete all’aria aperta le sue belle membra. Signori, questa regina rivivrà: ella riscuoterassi; un tepido fiato spirerà ancora dalla sua bocca; ella è solo svenuta, non morta. — Mirate, mirate, come a poco a poco tornano ad incolorarsi le sue gote, e come la vita fiorisce di nuovo in lei!

Gent. Il Cielo, signore, renda bella la vostra fama per sempre.

Cer. Ella rivive; mirate! le sue palpebre, che nascondono i celesti gioielli che Pericle ha perduti, cominciano a separarsi, e i diamanti dell’acqua più bella ricompariscono per doppiare le ricchezze della terra. Oh! vivi, e fanne piangere narrandoci il tuo fato, celeste creatura. (Taisa comincia a muoversi)

Tais. Oh cara Diana! dove son io? dov’è il mio signore? che mondo è questo?

Gent. Non è ciò strano? [p. 221 modifica]

Gent. Maraviglioso.

Cer. Amici, datemi mano, portiamola nella casa vicina. Usate ogni riguardo, perchè una ricaduta sarebbe mortale. Venite, venite, Esculapio ci guidi! (escono portando Taisa)

SCENA III.

Tarso. — Una stanza nella casa di Cleone.

Entrano Pericle, Cleone, Dionisa, Licorida e Marina.

Per. Onorato Cleone, bisogna ch’io me ne vada; l’anno è scorso, e Tiro versa in torbida calma. Abbiatevi i miei ringraziamenti sinceri, voi e la vostra signora, e gli Dei vi siano propizi.

Cl. I dardi della fortuna che vi ferirono, ferirono noi pure.

Dion. Oh! se aveste potuto condurre qui la vostra amata sposa, quale lietezza ne avremmo provata.

Per. Noi non possiamo che rassegnarci ai voleri del Cielo: se io anche ruggissi di dolore, come il mare in cui essa giace, non potrei riaverla. La mia figlia, Marina (che per essere nata in mare ho così chiamata), affido all’amor vostro, e alle vostre cure, supplicandovi di allevarla come si addice alle figlie dei re, che tale ella è pur sempre.

Cl. Non temete, signore, la vostra bontà che ne soccorse con quelle vettovaglie, per cui le preghiere di questo popolo sempre s’innalzano per voi, vi sarà ricambiata nella vostra figlia. Se io dovessi trasandare tal dovere, il popolo aiutato da voi me ne farebbe sovvenire: ma se dovessi abbisognare di tale stimolo, vorrei che gli Dei maledicessero me e la mia generazione, fino al suo ultimo discendente.

Per. Vi credo senza che giuriate; ho piena fede nell’onor vostro, nella vostra bontà. Così io mi accomiato da voi, confidandola alle vostre cure.

Dion. Ho una figlia anch’io, che non mi sarà più cara di quello che mi sia la vostra, signore.

Per. Ve ne ringrazio.

Cl. Vi accompagneremo fino alla riva, ed ivi imploreremo per voi i venti più miti.

Per. Aderisco di buon grado all’offerta. Venite, signore. Oh! non piangere, Licorida, non piangere: abbi in pensiero la tua piccola fanciulletta, da cui omai dipenderai. — Venite, amici. (escono) [p. 222 modifica]

SCENA IV.

Efeso. — Una stanza nella casa di Cerimone.

Entrano Cerimone e Taisa.

Cer. Signora, questa lettera e questi gioielli stavano con voi in quella cassa: ne potete disporre. Conoscete questi caratteri?

Tais. Son del mio sposo, con cui io m’imbarcai incinta, sebbene non rimembri più adesso in qual guisa mi sgravassi. Ora, poichè non potrò rivedere il re Pericle, professerò il culto di Diana, e vivrò nella solitudine e nel dolore.

Cer. Se siete ferma in tal proposito, signora, non lungi di qui è il tempio di Diana, ed ivi potrete abitare finchè vi talenti Se non vi spiace, una mia nipote vi terrà ivi compagnia.

Tais. Io non posso ricompensarvi di tante bontà, altro che ringraziandovi: il mio buon volere è grande, ma i prodotti son piccoli. (escono)