Osservazioni sull'architettura degli antichi/Capo I/I materiali

Osservazioni sull'architettura degli antichi
I materiali

../ ../L'arte di fabbricare IncludiIntestazione 21 novembre 2015 75% Storia dell'arte

Osservazioni sull'architettura degli antichi
I materiali
Capo I Capo I - L'arte di fabbricare

[p. 17 modifica]§. 1. Nella prima parte, che tratta dell’essenziale, io comprendo tutti i materiali, e l’arte d’impiegarli, ossia di fabbricare, come anche la forma degli edifizj, e le necessarie loro parti.


[p. 18 modifica]§. 2. I materiali sono i mattoni, le pietre, e la calcina1: perocchè non parleremo del legname, quantunque si adoprasse nella Grecia eziandio per gli edifizj, e per li tempj, quale era quello, che Agamede, e Trosonio dedicarono a Nettuno2. A principio i mattoni non si cuocevano al fuoco, ma soltanto si seccavano per qualche anno al sole; e sì i Greci, che i Romani ne facevano grand’uso. Di questi mattoni erano fatte le mura di Mantinea, e quelle di Ejona sulle rive del fiume Strimone nella Tracia3, un tempio a Panopea4, un altro di Cerere5, amendue nella Focide, un portico in Epidauro6, ed un sepolcro nella distrutta città di Lepreo in Elide7. Pare, secondo Vitruvio8, che la maggior parte delle case di Roma, e suoi contorni, fossero fabbricate di sì fatti mattoni; e questo scrittore tratta a lungo della maniera di farli. Pausania9 peraltro c’insegna, che si discioglievano all’acqua, e al sole. Colla terra destinata a far mattoni cotti si mescolava del tufo pesto10, conosciuto oggidì sotto il nome di sperone, il quale è giallastro, ma diventa rossiccio nel fuoco; del qual colore è anche la grana interiore del mattone. Per la costruzione dei [p. 19 modifica]muri questi mattoni non erano alti, ma grandi11. La loro altezza non oltrepassava un buon pollice; mentre la loro superficie era di tre, o quattro palmi. Vitruvio ne parla, e servivano particolarmente per le arcate12.

§. 3. Le prime pietre adoprate negli edifizj pubblici tanto in Grecia, che a Roma, erano una specie di tufo, di cui era fabbricato13 il tempio di Giove in Elide14. Un tempio di Girgenti in Sicilia, i tempj, e l’edifizio di Pesto sul littorale del golfo di Salerno, come anche le mura quadrate di quella medesima città15, erano costrutte di simili pietre. Quella concrezione pietrosa è di due specie: la prima si forma da un umore lapidifico: è biancastra, e verdigna; d’una natura spongosa, e per tal ragione più leggera delle altre specie di pietre, e del marmo. Una pietra consimile è il travertino, che si cava presso Tivoli. La seconda specie è una terra pietrificata, talvolta di color bigio cupo, e tal altra di color rossiccio, chiamata in Italia volgarmente tufo. Vien detta pietra rossa da Vitruvio16, e si trova nei contorni di Roma; il che ha ignorato Perrault17.

§. 4. Una di queste specie si taglia dalla rupe sopra terra; l’altra si cava dal seno della terra medesima. Quella si trova generalmente nei luoghi, ove sono acque solfuree, come quelle di Tivoli, e di Pesto, che appunto è la [p. 20 modifica]città vicino alla quale gettasi in mare la sorgente solfurea, di cui parla Strabone18.

§. 5. Il travertino in particolare si forma dalle acque dell’aniene, oggidì teverone, cui si attribuisce una qualità petrificante; e dalle sorgenti solfuree di Tivoli. Quelle cave si rimettono in poco tempo; e vi si sono trovati dei ferri di cavatori, che ciò confermano. Anche il marmo cresce di nuovo; imperciocchè si è trovato un lungo palo di ferro in un gran masso di marmo di quello detto africano, che volevasi segare per metterlo in opera alla chiesa della Morte dietro al palazzo Farnese. Un tal crescimento è anche più rimarchevole nel porfido, essendosi trovata in un pezzo di esso trent’anni sono una medaglia d’oro d’Augusto19.

§. 6. La seconda specie di pietra, cioè il tufo, è d’una qualità terrosa, e molto più tenera del travertino. Se ne trova vicino a Napoli una specie, che si lavora col piccone. L’altra specie di tufo si cava parimente nei dintorni dì Napoli, e si chiama rapillo; ma forse converrebbe dire lapillo20. E’ un’arena nera pietrosa, che serve a fare i lastrichi in più case, e a coprire tutti i tetti a terrazzo. Quest’arena si trova anche a Frascati, pretto l’antico Tuscolo, ove è conosciuta col nome di rapillo. Probabilmente è un’antica produzione vulcanica delle montagne intorno, ove se ne trova in gran quantità a strati in forma di dadi bislunghi, e piccoli21; e quando si legge nell’antica storia [p. 21 modifica]romana, che si è veduto qualche volta in Albano piover sassi22, conviene senza dubbio attribuire un tal fenomeno a qualche eruzione vulcanica delle vicine montagne23.

§. 7. Gli antichi tagliavano il tufo nelle cave a massi quadrati, e l’adopravano non solo per fondamenti, ma ne facevano anche le intiere fabbriche. Ne sono fatti gli acquedotti di Roma che non sono di mattoni24, e l’interno del Colosseo. Presentemente si cava il tufo in piccoli rottami, quali col piccone staccansi dal masso; e si fanno servire per li fondamenti, e per le volte, o per riempitura, come dirò qui appresso.

§. 8. Fu adoprata eziandio sin dai più antichi tempi negli edifizj di Roma, e nelle sue vicinanze, la pietra detta peperino, che è una specie di pietra di un color bigio scuro più dura del tufo, e più tenera del travertino, e per conseguenza più facile a lavorarsi. Era chiamata dagli antichi pietra d’Albano25, perchè molta se ne traeva da quella città: ciocche non fu osservato nè dai commentatori, nè dai traduttori degli scrittori citati. Oggidì a Roma si dice [p. 22 modifica]peperino, e a Napoli piperno, o pipierno; nome che viene probabilmente da Piperno (Privernum), ove questa pietra cavasi in gran copia. Di essa sono fabbricati i fondamenti del Campidoglio gettati l’anno di Roma 367., de’ quali veggonsi ancora a’ tempi nostri cinque ordini di grosse pietre sopra terra, che Ficoroni26 ha fatti incidere in rame: la maggior parte di quelle pietre hanno cinque palmi e mezzo di lunghezza27. La Cloaca massima28, il più antico sepolcro romano29, che si conosca, presso Albano, e un altro de’ più antichi monumenti romani30 dell’anno 358., cioè un condotto per lo scolo delle acque del lago d’Albano, detto ora lago di Castello31, sono tutti costrutti di quella specie di pietra.

§. 9. Convien dire che il travertino non sia stato conosciuto ne’ più antichi tempi di Roma; non essendo allora state incise le iscrizioni se non che nel peperino; come è quella fatta ad onore di L. Cornelio Scipione Barbato, l’uomo il più degno del suo secolo; la qual lode gli vien data in questa iscrizione32. Essa è stata fatta durante la seconda [p. 23 modifica]guerra punica, e si vede ora nella biblioteca Barberini: è della stessa età di quella di Duillio, che verosimilmente non farà stata incisa in altra pietra; e non già fui marmo, come si è preteso provare33 con un passo di Silio Italico; non essendo dello stesso tempo i frammenti di marmo, che se ne veggono34; e Seldeno35 con varj altri scrittori non sarebbero restati in dubbio intorno a quello monumento, se avessero potuto vedere da sè stessi quella iscrizione. Del marmo in Roma se ne venne in cognizione molto tardi; ma pure vi fu usato prima dell’anno 676. dalla sua fondazione36, benchè uno scrittore l’abbia negato37. Plinio, che si adduce a quello proposito, parla del marmo di Numidia, e della prima soglia, che ne fu fatta38; assicurandoci peraltro al luogo stesso, che l’arte di segare il marmo non fu nota in Roma prima del secolo d’Augusto: il che pare inverosimile39. Chechè ne sia, è certo che si è adoprato il marmo senza servirsi della sega, in due monumenti del tempo della repubblica, che sono il sepolcro di Cecilia Metella, [p. 24 modifica]oggidì chiamato Capo di Bove40, e la Piramide di Cestio41.

§. 10. Il peperino, o pietra d’Albano, servì parimente per li principali pubblici edifizj nel tempo stesso, che in Roma si. metteva in opera il marmo con tanta profusione. Quelli, che si sono conservati del tempo degl’imperatori, sono il Foro di Nerva, il vicino tempio di Pallade42, il tempio d’Antonino, e Faustina43: un piccolo tempio fuori di Roma presso il lago Pantano, di sessanta palmi di lunghezza, e trenta di larghezza, i di cui quattro muri sono in piedi, è forse d’un tempo più remoto. Quelli tempj però erano rivestiti di lastre di marmo, come appare dai frammenti, che ve ne restano44.


[p. 25 modifica]§. 11. La terza specie de’ materiali, ossia la calcina, si preparava dagli antichi Romani, come si fa anche al presente, colla pozzolana; terra chiamata allora collo stesso nome, cioè pulvis puteolanus, senza dubbio per essere stata scoperta la prima volta a Puteoli, oggidì Pozzuolo presso Napoli. La pozzolana è o nericcia, o rossigna: quella che è nericcia, è ferruginosa, più pesante, e più secca dell’altra; e si usa principalmente negli edifizj sott’acqua, perchè essendo magra si screpola con facilità esposta all’aria; l’altra è più terrosa, ed è migliore per le fabbriche in terra. La prima specie si trova nei contorni di Napoli, non però la seconda: ma l’una e l’altra si cava a Roma, e nelle sue vicinanze, e non se ne trova in alcun’altra parte d’Italia. Contuttociò è da notarsi, che gli antichi hanno fatto poco uso della pozzolana rossigna; quando all’opposto ora si stima più della nericcia. Neppure si trova la pozzolana nelle campagne di Roma vicine al mare: cosicchè gli antichi, che l’hanno adoprata in Anzio, l’avranno tratta da Napoli, donde si prende anche oggidì; costando meno a farla venire di colà per mare, che a farla trasportare per vettura, o sui carri da Roma45. Si porta in Toscana per mare fino a Livorno, e ne va pure in altre parti. L’Alberti nella sua opera sull’Architettura46 parla della pozzolana come d’una cosa di cui non avea cognizione alcuna, se non per relazione altrui: nè poteva essergli nota in altra guisa, essendo egli fiorentino47. In altro luogo la confonde col rapillo48. [p. 26 modifica]Pare che la pozzolana neppure sia stata mai trovata nella Grecia, come osserva Vitruvio49: ed appunto per mancanza di essa i Greci non hanno potuto con facilità fare le volte. Bisogna non pertanto, che abbiano essi avuto il segreto di fare un’ottima calce50; di che ne abbiamo una prova nel gran serbatojo d’acqua a Sparta fatto di brecciuole, che legate colla calce fanno un corpo sì duro quanto le brecciuole stesse51.

§. 12. Le due specie di pozzolana s’impietriscono egualmente52; anzi la calce, che ne è impastata, diventa più dura delle pietre medesime, che insieme lega ed unisce; come può vedersi dalle rovine delle fabbriche poste sul mare, e fabbricate nel mare stesso tanto a Pozzuolo, che a Baja, e in tutto quel paese, e al porto d’Anzio, che è l’antico Antium, ove i moli, che formavano, e chiudevano il porto, siccome anche le dette fabbriche, erano costrutti di mattoni. Colla pozzolana selciavansi parimente negli antichi tempi le strade grandi e piccole in Roma, e all’intorno: metodo, che osservasi ancora a’ nostri giorni.

§. 13. Gli strati della pozzolana si estendono molto addentro la terra, e talvolta sino agli ottanta palmi di profondità. Tutto il circondario di Roma è vuoto, e come [p. 27 modifica]minato dagli scavi di questa terra; e i grottoni, ove si è cavata, hanno più miglia di lunghezza: in quelli erano le catacombe53. Allorché si lavorò alle fondamenta del casino della villa Albani, furono trovati tre di questi grottoni uno sull’altro; di maniera che fu necessario scavare più oltre, e fino alla detta profondità di ottanta palmi.

Note

  1. Dell’uso, che fecero gli antichi di varj materiali, e specialmente de’ mattoni, mi rimetto a quanto scrive il lodato P. Paoli nella lettera a me diretta, riportata quì in fine delle Osservazioni del nostro Autore sul tempio di Girgenti.
  2. Paus. lib. 8. cap. 10. pag. 618.
  3. id. ibid. cap. 8. pag. 614.
  4. id. lib. 10. cap. 4. pag. 806.
  5. id. ibid. cap. 35. pag. 889.
  6. id. lib. 2. cap. 27. pag. 174.
  7. id. lib. 5. cap. 5. pag. 386.
  8. lib. 2. cap. 3.
  9. lib. 8. cap. 8. p. 614. [e Vitruvio l. c.
  10. Secondo lo stesso Vitruvio, nei crudi vi si mescolava della paglia per legar meglio la creta; come deve intendersi anche il poeta Lucilio Sat. lib. 9. princ., Nonio v. Aceratum; e come si praticava dai Fenicj, al dir di Sanconiatone presso Eusebio De præp. evang. lib. 1. cap. 10. pag. 35. D. Nella stessa maniera è probabile, che gli Ebrei lavorassero in Egitto i mattoni colla paglia, di cui si parla Exodi c. 5. vers. 7. segg., come pensa anche il P. Bonfrerio nel commento a quel luogo, Menochio De republ. Hebr. lib. 7. c. 5. quæst. 5. col. 659., Niccolai Dissert .ec. Lez. V. dell’Esodo, Tom. VIII. pag. 124.. Coloro che pretendono, che la paglia servisse agli Ebrei piuttosto per cuocere i marroni, non riflettono, che si cuocevano al sole, come scrive Sanconiatone loc. cit.; o si seccavano all’ombra, come vuole de la Faye Mémoire pour serv. de suite, ec. p. 5. secondo le osservazioni dei viaggiatori moderni, i quali dicono, che il sole in quelle parti avrebbe distrutti col suo calore i mattoni, anzichè seccarli al suo giusto punto. Colla paglia li facevano sicuramente gli Ebrei nella Palestina, come si ha dal profeta Ezechiele c. 13. v. 12.; e così usano pure i Persiani oggidì, per testimonianza di Chardin Voyage, ec. Tom. iI. pag. 178.
  11. Bellissime sono le forme de’ mattoni, che osservansi nelle antiche fabbriche di Pozzuolo, e Baja, sì per contenere i muri, come per formare gli archi. Se ne veda un saggio presso il P. Paoli Antich. di Pozzuolo, ec. Tav. 67.
  12. Ho parlato anch’io di queste varie grandezze di mattoni Tom. I. p. 24. not. b.; ma è da notarsi per maggior chiarezza col marchese Galiani al luogo citato di Vitruvio, che il palmo, di cui parla questo scrittore, era di quattro dita, sedici delle quali formavano il piede. Nelle fabbriche antiche ne vediamo dei molto più grandi. Quelli, che servivano per le arcate erano per lo più fatti a conio. Certa terra bianca dell’isola di Rodi era della più eccellente per fare mattoni spongosi, e leggeri. Ne fu fatta la cupola del tempio di s. Sofìa, di cui si è parlato qui avanti pag. 4. not. e.; e dagli ignoranti si prendeano per pomici. Vedasi Codino De orig. Constant. pag. 70. Vitruvio lib 2. cap. 3. rileva quella stessa proprietà leggera, e pomicosa dei mattoni, che si facevano a suo tempo a Marsiglia nelle Gallie, e nell’Asia a Pitane, i quali quando erano se secchi, gettati nell’acqua, vi galleggiavano.
  13. Paus. lib. 5. cap. 10. pag. 397. in fine.
  14. Vedi Tom. I. pag. 30. §. 15.
  15. Vedi qui avanti pag. 3. not. c.
  16. lib. 2. cap. 7.
  17. Ad Vitr. loc. cit. pag. 40. n. 1.
  18. È il fiume Silaro, di cui dicono Strabone lib. 5. p. 384. C. Tom. I., Plinio l. 2. cap. 103. sect. 106., Silio Italico De bello pun. lib. 8. vers. 582. che abbia virtù di petrificare tutto ciò, che vi si getta dentro. Vedi anche il P. Paoli Rovine della città di Pesto, Dissert. 1. n. 11. pag. 10., ove osserva che sotto alle mura della città dalla parte settentrionale sbocca verso il mare una fonte di color bianchiccio e puzzolente, per il solfo, che trae seco; e ne dà la veduta nella Tavola LXIV. Di altre fonti d’Italia consimili vedi Seneca Nat. quæst. lib. 3. c. 20.
  19. È cosa più che certa, che i marmi crescono nelle cave; e ce lo attesta anche il giureconsulto Giavoleno l. ult. ff De fundo dot., e Ulpiano l. Fructus 8. § Si vir 3. ff. Sol. matr. dos quemadm. pet., Pausania l. 3. cap. 21. pag. 264.; comunque avvenga questo accrescimento, intorno al quale può vedersi Gimma Della fisica sotterr. Tom. I. l. 1. cap. 9.
  20. Così si chiama in Napoli.
  21. Il P. della Torre Storia del vesuvio, cap. 1. n. 16. pag. 20. crede, che i rapilli, che si cavano intorno a Napoli per fabbricare, siano naturali, e gli altri siano consunti dal fuoco. Si nega una tal differenza dal P. Becchetti nella sua eruditissima Teoria generale della Terra, lez. XI. pag. 327. ripetendone la ragione dal lungo soggiorno fatto dai primi sotto terra, e dall’esservisi più facilmente, a cagione dell’umidità del terreno, mescolati altri corpi stranieri. Se ne trova anche nel territorio di Velletri, dei quali avendo fatta l’analisi il ch. dottor Lapi, per compiacere al genio di monsig. Stefano Borgia amante di ogni cultura, ed erudizione, trovò, come riferisce lo stesso Padre Becchetti, che contengono una porzione di ferro, che era facilmente tirata dalla calamita, con un sale alcali, che fermentava cogli acidi, il tutto strettamente unito ad una terra vetrificata: epperciò è della stessa natura della pozzolana. Si veda lo stesso Lapi nelle opere citate qui appresso not. b.
  22. Livio lib. 1. cap. 12. n. 31., lib. 25. cap. 6. num. 7. Vedi il P. Becchetti loc. cit. pag. 331. segg.
  23. Ora più non se ne dubita dopo le ricerche fatte sugli storici antichi, e sulle produzioni vulcaniche esistenti in quei contorni. Possono vedersi Kippingio Antiq. rom. lib. 1. cap. 12. n. 10. pag. 262. seg., Freret Reflex. sur les prodiges rapportez dans les anc. Acad. des Infcript. Tom. IV. Mém. pag. 414. segg., de la Condamine Extrait d’un journal de voyage in Italie, Acad. royale des Scienc., année 1757. Mém. pag. 336. segg., Lapi nel Giornale de’ letterati, anno 1758. art. 8. pag. 103., e Lezione accad. dei due laghi albanese, e nemorese, Ferber Mineral. d’Ital. let. 11., Minervino Etimologia del volture, pag. 220. Vedi anche il P. Becchetti p. 329.
  24. Qualcheduno è anche di peperini, come l’avanzo del condotto dell’anione vecchio internato nelle mura urbane, di cui dà un pezzo in rame il sig. Piranesi Le antich. romane, Tom. 1. Tav. 10. fig. 1.; e il condotto dell’acqua Marcia, come osserva Ciampini Vet. monum. Tom. I. cap. 8. Il condotto dell’acqua Vergine in qualche luogo, come dietro al palazzo del Bufalo, è di travertini.
  25. Vitruv. lib. 2. cap. 7., Plin. lib. 26. cap. 22. sect. 48. [ Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 159. n. 1.
  26. Le vestig. di Rom. ant. lib. 1. cap. 9. pag. 60.
  27. Ficoroni loc. cit. pag. 42. dà in rame il residuo di altri fabbrica di peperini antichissima poco distante dalla rupe Tarpea dietro la rimessa, e stalla del w|Palazzo Caffarelli al Campidoglio|palazzo Caffarelli}}, lungo palmi 114., e alto 15. Sono di peperini eziandio gli avanzi delle sustruzioni fatte al Campidoglio nell’anno citato di Roma, che ora si vedono nel cortile dell’Ospedale della Consolazione, dati da Piranesi Della magnif. de’ Rom. Tav. 1.; e gli avanzi del carcere Tulliano, fabbricato da Anco Marzio, ed accresciuto da Servio Tullio, o secondo altri da Tullo Ostilio, restaurato in appresso con travertini al tempo degl’imperatori. Si vedono ove ora è la chiesa di san Pietro in carcere vicino all’arco di Settimio Severo; intorno a che può leggersi Nardini Roma ant. lib. 5. cap. 12. Questa pietra per uso di Roma al presente cavasi a Marino.
  28. Se ne veda la figura presso Piranesi Le antich. rom. Tom. I. Tav. 22. fig. 2., e Della magnif. de’ Rom. Tav. 3.
  29. Montfauc. Antiq. expl. T. V. pl. 117.
  30. Liv. lib. 5. cap. 11. n. 19.
  31. Si veda Piranesi, che lo ha decritto, e inciso in rame in molte Tavole nell’opera particolare su di esso, intitolata: Antichità d’Albano, e di Castel Gandolfo, ec. pubblicata in Roma nel 1764., e nell’altr’opera Della magnif. de’ Rom. Tav. 30.
  32. V. Sirmond. Vetust. inscr. qua L. Corn. Scip. elogium continetur, &c. [Ha parlato Winkelmann di questa iscrizione anche nella Storia, Tom. iI. pag. 146. n. *., e pag. 153. Io poi ho notato pag. 309. le altre antichità lavorate parimente in peperino, trovate ultimamente nel sepolcro degli Scipioni, ove fu trovata nel secolo passato la detta iscrizione di Barberini; e fra le altre vi è la cassa sepolcrale di Scipione Barbato padre di Lucio Scipione, di cui parla la citata iscrizione, eccellentemente lavorata, e col suo epitafio. Tutti questi monumenti però non provano altro, a mio giudizio, se non che per le iscrizioni, e le sculture siasi adoprato il peperino prima del travertino, secondo che già notai al Tom. I. pag. 30. not. b.; non già che questo fosse incognito a Roma ne’ più antichi tempi, come ha creduto anche il signor dottor Lapi Ragionam. mineral. del selce rom. pag. 23.; essendo stato adoprato originariamente alla Cloaca massima, lavoro assai più antico del sepolcro degli Scipioni, come fa osservare il signor Piranesi nella citata opera Della magnif. de’ Rom. Tav. 3., e pag. XLIII. n. 30. Il signor de la Condamine, che Extrait d’un journ. ec. Acad. roy. des Scienc. annèe 1757. Mèm. p. 380. dice lavorato in travertino il carcere fatto da Anco Marzio, ha equivocato coi restauri. de’ quali parlammo qui avanti pag. 22. n. a.
  33. Rycquius De Capit. cap. 33. pag. 400. [ Si veda ciò che ho notato nel Tom. iI. pag. 154. not. a.
  34. In Campidoglio nel palazzo dei Conservatori a piè della scala.
  35. Marmora Arundell. pag. 103. edit. Maitt.
  36. Si veda Tom. I. pag. 237., Tom. iI. pag. 159. seg.
  37. De Gozze Iscr. della base della col. rostr. pag. 10.
  38. Plin. lib. 16. eap. 6. sect. 8.
  39. Plinio dice di più, cioè che non fosse cognita neppur in Italia: nondum enim secti marmoris vestigia invenerat Italia: ma questo mi pare un errore, seppure non volessimo scusare Plinio con dire, che l’uso della sega non fosse molto esteso, o per la sua difficoltà, o per altra ragione; poichè nell’anno di Roma 579. il censore Quinto Fulvio Fiacco fece togliete dal famoso tempio di Giunone Lacinia, vicino a Crotona nella Magna Grecia, le tavole di marmo, delle quali era coperto; e le fece portare a Roma, come vedemmo nel Tom. iI. pag. 160. È probabile, che fossero state poste su quel tempio qualche tempo prima; e quindi li può dire, che l’arte di segare il marmo fosse molto più antica in Italia, e forse anche in Roma, se vi era già cognita sin d’allora l’arte di farne delle tavole per quell’uso di coprirne i tetti. Così argomento ancora dei Greci. Le tegole di marmo pentelico furono adoprate al tempio di Giove Olimpico ducento e più anni prima di Fiacco; e Pausania, il quale ciò racconta lib. 5. c. 10. p. 398., dice, che quella usanza di coprire i tetti con lastre di marmo segate fu introdotta da Biza di Nasso, come costava dai versi posti sotto la statua erettagli nella sua patria, che noi riferimmo nel Tom. iI. pag. 11. col. 1.; e questi viveva al tempo, che regnava Aliatte nella Lidia, e Astiage figlio di Ciassare nella Media; vale a dire circa seicent’anni prima di Gesù Cristo. Or chi sa quanto fosse più antica l’arte di segare il marmo, e le pietre per gli altri usi semplici delle fabbriche: Ciò sia detto per congettura; perocchè si potrebbe intender piuttosto Pausania, che Biza inventasse l’arte stessa di segare il marmo, e forse nell’occasione di farne uso per tegole. Infatti l’onore di eternare la di lui memoria con una statua, pare che supponga un merito più originale, e di maggior conseguenza; come era quello della invenzione dell’arte di segare il marmo; anziché di estendere semplicemente l’uso di quell’arte a farne delle tavole da coprirne i tetti; estensione, che poteva farsi da chiunque senza molta fatica di più, o acutezza d’ingegno. Sebbene è noto agli antiquari, che gli scrittori antichi spesso hanno confuso i primi inventori delle cose con quelli, che in appresso vi hanno fatte delle aggiunte, o ne hanno esteso l’uso. Comunque sia stato, Plinio loc. cit. sect. 6. mostrò d’ignorare questi fatti confessando chiaramente, di non sapere, chi fosse autore di quella invenzione: e scrivendo, che altro non poteva dirne, se non che, la casa del re Mausolo fatta nell’olimpiade cvi., e l’anno di Roma 404., era ornata di marmi lavorati colla sega; e forse vuol dire, che ne era impellicciata, poiché nel resto era di mattoni. L’Arduino non ha notata questa mancanza di Plinio; ma troppo ha voluto abusare delle di lui parole il signor de la Faye Recherch. sur la prépar. ec. p. 57., facendogli dire assolutamente, che l’arte di segare il marmo non risaliva sino alla fondazione di Roma, per poter meglio sfigurare un altro di lui passo cap. 113. sect. 19., facendolo parlare del solo laberinto d’Egitto, quando parla di tutti quattro, cioè anche di quello di Creta, di Lenno, e dell’Italia; e interpretando di un lavoro artificiale con calce, e altre materie, le di lui parole lapide polito, che altro non significano, se non che pietra liscia, lavorata, o lustrata, come parla nello stesso senso Plinio poco prima cap. 7. sect. 10., cap. 15. sect. 22., lib. 37. cap. 10. sect. 62., e in tanti altri luoghi. Sono quelli alcuni degli argomenti, de’ quali si serve il signor de la Faye per provare, che il granito degli antichi è una pietra artefatta, come fu accennato nel Tom. I. pag. 127. n. 1.
  40. Ne dà la figura il Nardini Roma ant. lib. 3. cap. 3 pag. 73., Montfaucon Antiq. expl. Tom. V. pl. 112. seg., Piranesi Le antich. rom. Tom. iiI. Tav. 12. Il masso è rivestito di travertini; di marmo è il fregio, che gira intorno, ornato di teschi di bove, e di festoni; e l’iscrizione.
  41. L’ha data in rame, e descritta Ottavio Falconieri in un discorso aggiunto alla citata opera del Nardini.
  42. Vedi Tom. iI. pag. 366. 368.
  43. Vedi loc. cit. pag. 294. n. a.
  44. La fabbrica più considerabile fatta di peperini al tempo degl’imperatori, in la parte, che ora si Tede, è la mole Adriana. Della stessa pietra erano le colonne dei portici della casa di Ortensio sul Palatino, abitata poi tal quale da Augusto sin che visse. Suetonio nella di lui vita, cap. 72. Le colonne fatte di questa pietra, o di tufo, o di travertino in qualche fabbrica sono intonacate di un fortissimo stucco, quali sono fra le altre quelle del tempio di Cora, di cui si parlerà qui appresso, e quelle del tempio secondo di Pesto, di cui si è parlato avanti pag. 6.
  45. E non potrebbe anche portarsi per il tevere, e quindi per mare?
  46. Dell’ architett. lib. 2. cap. 12.
  47. lib. 3. cap. 16. [Parla del rapillo propriamente, che dice buono per fare lastrichi.
  48. È stato però in Roma, e architetto di Niccolò V., come narra il Vasari nella di lui vita, fra le vite degli Architetti, ec. Tom. iI. pag. 338.; ed egli stesso al luogo citato nella not. a., dice di aver osservato in quella città, che i Romani nei pubblici edifizj, non però nei minori, usarono la pozzolana rossa. Palladio De re rust. lib. 1. cap. 10. loda questa specie sopra tutte per qualunque fabbrica, anche rustica: dal che rileviamo l’uso maggiore, che se ne faceva.
  49. lib. 2. cap. 6.
  50. Fontenu Descript. de l'aqued. de Cout. ec. Acad. des Inscr. Tom. XVI. Hist. p. 115.
  51. Non è però da supporsi, che gli antichi Romani adoprassero la calce mescolata semplicemente colla pozzolana, senza fare alcun’altra diligenza nel resto. Essi usavano principalmente delle cautele nello scegliere le pietre per fare la calce, poi nello smorzare questa quando era cotta, e nel farla stagionare. Si veda il signor de la Faye, che ha fatte intorno a queste, ed altre cautele molte belle osservazioni in due opuscoli, il primo de’ quali già citato, ha per titolo: Recherches sur la preparat. que les Romains donnoient à la chaux, à Paris 1777. in 8., e l’altro: Mémoire pour servir de suite aux recherches, ec. 1778. in 8. Se ne ha un estratto nell’Antologia Romana Tom. IX. anno 1782. n. 22. pag. 163. segg. Nella calce adoprata per la chiesa di s. Sofia, riedificata da Giustiniano, fu mescolata scorza d’olmo tritata, e fu usata acqua d’orzo bollito tepida, per indurarla più. V. Codino De orig. Constant. pag. 67. B. Al di fuori fu adoprata calce mescolata d’olio. Ivi pag. 69. in fine
  52. Puteolanus pulvis, si aquam attigit, saxum est. Seneca Natur. quæst. lib. 3. c. 20.
  53. I grottoni delle catacombe sono stati fatti e per la pozzolana, e per altre qualità di arena, come anche per cifrarne del tufo. Vedi Boldetti Osserv. sopra i cemet. lib. 1. c. 1., Bottari Scult. e pitt. sagre, ec. Tom. I. n. 1. Una specie di catacomba è il così detto laberinto di Creta, non già il vero e antico laberinto, nominato qui avanti pag. 24. col. 2., il quale appunto è formato d’una infinità di corridori, e strade implicatissime cavate sotto una montagna per estrarne pietre da fabbricare. Si vedano fra gli altri, Tournefort nella descrizione, che ne dà nelle Memorie dell’Accademia delle Scienze di Parigi all’anno 1701. pag. 217. segg., e Gimma Della fis. sotterr. Tom. I. lib. 1. cap. 9. art. 8. pag. 93. segg.