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valigia.
Dopo quella suprema sciagura il suo viso non aveva invecchiato, giacchè a novant’anni non s’invecchia più: solamente i suoi occhi, già sguerniti di palpebre, parevano più fissi, e forse senza quel cravattone nero, a collare, la testa gli sarebbe caduta sul petto.
La stazione era deserta.
Allo sportellino chiese un biglietto per Tolone. L’impiegato, un forestiere giunto da poco in paese, non capì, mise fuori il naso curiosamente, e vedendosi dinanzi quella figura mummificata sorrise.
— Vuole andare in Francia?
— Sì.
— Allora — proseguì l’impiegato colla gentilezza metà orgogliosa e metà servile del proprio ufficio — bisogna prendere la linea di Firenze-Spezia-Genova... — e la spiegazione durò più di un minuto, mentre l’altro, che aveva posato sul davanzale dello sportellino una vecchia moneta da cento lire, appoggiato militarmente sulla canna, come sopra un fucile, sembrava ascoltarlo e non lo ascoltava.
Quando il treno arrivò, il bigliettinaio uscito sotto la tettoia per veder salire quello strano signore si appressò coll’intenzione di aiutarlo. I facchini, che per essere della città, conoscevano tutti il colonnello, parlavano sommessamente fra loro: il vecchio si era arrampicato da solo sul vagone reggendosi vigorosamente allo sportello. Il vagone era vuoto, il treno si fermava cinque minuti. All’ultimo i facchini, gli altri impiegati, il bigliettinaio, il capo stazione, tutta la poca gente di quell’ora si aggruppò in silenzio sotto quel vagone: il vecchio stava in piedi incorniciato dallo sportello nella luce smorta dell’alba, che dava un pallore di ritratto antico alla sua faccia. Poi la locomotiva gettò il solito fi-