Oro incenso e mirra/Il canarino
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IL CANARINO
Il magnifico gatto d’Angora tornò a sdraiarsi sullo sgabello.
Ella riprese il libro dal tavolo, e abbandonando il capo sulla spalliera con un morbido atto di civetteria, che contrastava colla dura marmorea bellezza del suo volto, riprese:
— Bonghi ha ragione: naturalmente, voi, suo avversario politico e filosofico, non potrete convenirne, troverete forse questa sua prefazione al Fedone fiacca e pesante, ma chi potrebbe oggi scriverne una degna? Forse noi non lo possiamo più.
— Perchè?
— Non me lo domandate, giacchè lo sapete fin troppo. Io, una signora, che ha letto poco e capito meno, non posso spiegarvelo, ma noi sentiamo oggi diversamente dai greci, giudichiamo con altri criteri, amiamo un’altra bellezza. Nessun oratore parlando alla Camera si fa accompagnare da un flauto, nessun avvocato come Iperide sveste oggi la propria accusata davanti alle Assise: il nostro abbigliamento troppo complicato darebbe tempo ai carabinieri d’intervenire, mentre la stessa accusata non sentirebbe forse più la forza di tale argomento.
— Siete ben sicura che l’aneddoto d’Iperide non sia una favola? — egli ribattè cercando evidentemente d’irritarla.
— In questo caso non sarebbe che più vera: credete che se ne potrebbe inventare una simile sui nostri giurati? Bonghi ha tradotto Platone...
— Perchè?
— Se mi aveste domandato per chi, vi avrei risposto: per noi, per tutti coloro, che ignorano il greco; vedete bene che dedica la prefazione alla principessa di Teano, la più bella signora d’Italia. Certo una traduzione dovrebbe essere come un ritratto, ma Bonghi non è un artista, non sarà forse nemmeno un filosofo, come voi sostenete, però è un ingegno. Come quegli scienziati, che vanno a studiare le flore dei paesi lontani e ritornano con una cassetta di fiori secchi, egli ci reca un Platone vizzo, senza colore e senza profumo. Non importa, io ringrazio Bonghi.
— Ma egli — proseguì l’illustre critico, rattenendo un moto di dispetto ed ammirando involontariamente la superba bellezza della duchessa — pretende di tradurre davvero. Non è il gentiluomo, che tenta l’impossibile per una signora affrontando magari il ridicolo e trionfandone con un sorriso. Voi siete troppo buona con lui, e vi dimenticate che il nostro secolo possiede ancora un uomo capace di tradurre Platone: perchè non lo ha voluto? Indovinate il suo nome?
— E chi non indovinerebbe? Vi sono forse due scrittori come lui? Come mi dispiacque di vederlo a Firenze per il congresso degli orientalisti! Io, che me lo ero immaginato con una bella testa di filosofo antico ammorbidita da una eleganza femminile, non vidi che un fattore volgare ed atticciato, cui l’essere stato quasi prete dava ancora un impaccio indefinibile, e due occhi troppo belli facevano una fisonomia inaccettabile. Evidentemente quegli occhi li aveva rubati.
— A chi?
— Ad una donna, che avrebbe dovuto essere un poeta se Dio avesse consentito alle donne di esprimere la poesia invece d’ispirarla. Avete ragione Renan solo poteva tradurre Platone. Vi ricordate la sua preghiera sull’Acropoli di Atene? Avete ancora letto l’ultimo capitolo del suo Ecclesiaste? È uscito ieri. La lingua francese può rendere la greca? A giudicare da Cousin m’hanno detto di no: a leggere Renan io, che non so il greco, affermo intrepidamente di sì.
— Forse Renan non ha mai ricevuto complimento più bello. Invano Zola disperato d’imitarlo tenta d’impicciolirlo paragonandolo a Gauthier: Renan scrive e Gauthier bulina, a Gauthier il pensiero deriva quasi sempre dalla frase, Renan ha la frase del proprio pensiero. La loro lingua è diversa: quella di Gauthier a girandole di fiori e di fuochi, piena di ricercatezze recondite e profumate, di parole rare come le gemme, scoppiettanti d’iridi e di baleni. I suoi periodi oscillano come incensieri, in tutti i suoi disegni predomina il rabesco, la confusione prodiga ed inesauribile dell’ornato, la ricchezza che impazza nella ricchezza, la melodia che si perde nel labirinto delle variazioni.
— Vi è del Talberg in lui.
— Forse... Renan è semplice, non si può essere bello altrimenti. Guardate Zola, che combatte Gauthier e Victor Hugo: ebbene, il suo stile è una fusione dei loro due, talvolta nelle qualità più spesso nei difetti, mentre la sua arte discende da Balzac, che confessa, e dai romanzieri inglesi, che nega. La sua originalità di artista e di pensatore sta nei soggetti prescelti; Zola oggi è il più grande perchè è il più moderno. Un passo ancora e le finezze linguistiche e sensistiche di Gauthier si cambieranno pei Goncourt in vanità di astruserie, che annebbieranno loro sovente la verità dei quadri. Il fino diventerà impalpabile, l’indicibile sarà detto, ma l’incompreso sarà aumentato.
La duchessa ebbe un sorriso.
— E Renan? Parlatemi di Renan, di questo uomo, che discutendo è sempre della opinione del proprio avversario.
— Vi piace questa ultima formula del suo scetticismo?
— Se tutti gli uomini fossero scettici con noi alla sua maniera, e se Renan fosse bello!
— Lo è. A chi paragonarlo per farvelo meglio sentire? Egli non è un pensatore nel senso altissimo della parola, non ha il genio, che apre o chiude una epoca. Tutte le creazioni sono informi, tutte le sintesi incompiute: nelle prime la forma recalcitra, nelle seconde la materia sfugge. Egli non ha inventato nulla, ma sa quasi tutto, ha percorso la storia e la geografia del mondo: l’Oriente gli ha ceduto coi propri colori le sorgenti della poesia e della pittura, la Grecia gli ha dato la bellezza, Roma antica il senno dell’equità, la Germania moderna la critica per tutte le dottrine. Scettico vero, egli concilia in sè stesso le contraddizioni di tutti i sistemi, come la vita risolve nel proprio fatto l’antagonismo di tutte le forze. Michelet ha detto che la storia è una resurrezione, ma scrivendola non ha sempre potuto trionfare della morte; Renan ha giudicato la vita un romanzo, e ha scritto quello di un uomo oggi ancora creduto da quasi tutti un Dio. Il romanzo è per lo più una tragedia indebolita, nella quale la disperazione diventa malinconia e il singhiozzo sorriso. Renan sorride. Egli credente solo nella vita, non ne accetta che la formula più alta, impossibile a tutti i sistemi, la bellezza. La vita è un fatto che la scienza cerca di decomporre, la storia di raccontare, l’arte di ripetere: l’arte è ancora la più fortunata. Forse Schelling aveva ragione affermando in essa l’ultimo momento del pensiero, se la creazione fu il primo momento della vita.
— Oh!
— Non mi credete? Ritorniamo dunque a Renan. Che direbbe oggi di lui Balzac morto nell’ammirazione di Gauthier? Uno scrittore per diventare veramente bello non deve essere novatore nè del pensiero, nè della forma; forse questa affermazione scritta susciterebbe polemiche e spropositi, ma io mi vi ostino perchè ogni individuo non può essere perfetto che adulto. La Grecia rappresenta la perfezione del pensiero moderno, quella del nostro secolo non so dove o quando avverrà. Uno scrittore per sperare di essere perfetto deve trovare tutto fatto attorno a sè, nel meriggio di un sistema, il quale abbia felicemente maturato tutto lo spirito di un popolo. Vedete, Renan giunge dopo che i romantici hanno rinnovellato la vecchia lingua classica e prima che i nuovi naturalisti la rimettano nel crogiuolo: ecco forse perchè egli scrive meglio di tutti. Però Renan è ancora più scrittore che artista, non rappresenta ma dice; solamente per questo non basta la sapienza della lingua, giacchè Littrè sapendo la storia intima di ogni parola gli rimane incalcolabilmente inferiore. Filologia e chimica formano le parole e i colori, la natura e i pittori inventano i toni.
E si fermò.
— Renan, Renan! – tornò a provocarlo la duchessa senza lasciargli nemmeno il tempo di respirare – fatemi il suo ritratto. Avete cominciato e vi siete ancora distratto: volete Bonghi in compenso? Ve lo cedo, sebbene incominci a diventarmi simpatico, oggi, che tutti si vantano d’insultarlo.
— Non crediate così di chiedermi poco e di offrirmi troppo – rispose con certa amarezza.– voi, duchessa, che sapete tanto bene il latino, vi ricordate senza dubbio la definizione della bellezza data da Cicerone: la bellezza si può esprimere talvolta, più raramente raffigurarla, analizzarla mai. Non vi è spesso sembrato che una pagina di Renan rassomigli a una pagina di Mozart, ne abbia la stessa malinconia latente, lo stile puro quantunque capriccioso, l’inimitabilità dell’espressione precisa nella parola e illimitata nel sentimento? Balzac ha detto che la prima qualità di un libro è di far pensare; per un libro di filosofia, forse, ma per un libro d’arte ne dubito. Renan ottiene di meglio: la sua prosa è una musica che vi fa sognare; ecco il prestigio, il fine ultimo dell’arte, dare all’anima una seconda vita, sostituire alla creazione della natura quella dello spirito. L’arte non può avere sistemi. Vedete come Zola, che sarebbe benissimo dotato, sia costretto ad esagerare le scene per sostenere l’esagerazione delle proprie polemiche. In tutte le opere di Renan non vi è forse una sola vera negazione; egli sa che un’idea ne vale un’altra, e che per un’idea come per un individuo il fatto di esistere ne implica il diritto e ne contiene la ragione. La negazione, che pretende distruggere, è al tempo stesso un’impotenza ed una assurdità; essa deve semplicemente essere il limite di ogni individuo attorno a sè medesimo, l’orbita della sua attività. Quindi, se Cousin disse impropriamente che l’errore è la forma della verità nella storia, Renan più fortunato comprese che la verità non può risultare se non da tutte le contraddizioni, ed affermò che solo nel contraddirsi sempre e sinceramente stava la speranza di avere qualche volta ragione. Volete un libro, che contenga la verità?
— C’è?
— Sì.
— Datemelo.
— Ma non avrete nè il tempo nè la pazienza di leggerlo. Pigliate il catalogo di una biblioteca, e se la biblioteca ha qualche milione di libri quel catalogo contiene la verità.
— Non si potrebbe farne un estratto?
— Si è tentato, si tenterà ancora inutilmente. Nessun ingegno sarà mai così vasto da abbracciare tutto, nessuna vita così lunga da concederne il tempo; l’arte sola, essendo come la vita una creazione, può talvolta essere vera mantenendosi inconscia. Intervenga la coscienza, e subito una sensazione o un’idea facendosi dell’arte un baluardo per difendersi o un monumento per glorificarsi, l’opera d’arte sarà un’opera morta. Vi siete mai domandata se Renan creda in Dio con una fede più forte che in qualunque altro principio? Domandate a voi stessa, dopo averlo letto, se ci credete: non ne saprete nulla. Vi parrà di essere in alto, nell’azzurro, che le stelle vi guardino con sorrisi di bontà, che la terra vi richiami col sospiro dei fiori, che le nubi si aprano per accogliervi, che il vento si rattenga per sostenervi; vi sentirete l’anima più pura, il pensiero più vivido, il cuore più caldo. E Dio? Forse quella non è che la sua presenza: domandatelo a Renan, domandatelo a voi stessa, e non otterrete risposta. L’arte vi avrà barattate l’estasi della natura, una strofa avrà avuto lo sfondo di una prospettiva, una pagina vi sarà parsa un panorama; le due creazioni si saranno valse, ma se vorrete analizzarle, la scienza non vi darà che dei misteri e dei cadaveri, la critica che delle contraddizioni e delle parole. Si può forse, esprimere in altro modo ciò che la musica dice? Sarebbe essa ancora l’ultimo sforzo del linguaggio, il verbo dei pensieri muti altrimenti? Ebbene, anche la bellezza è una musica ineffabile come la vita stessa.
— Triste musica, allora!
— Siete pessimista?
— Sì.
Egli sorrise.
La duchessa si alzò per offrirgli da un tavolino prezioso d’intarsi l’astuccio delle sigarette, e rimase qualche istante in piedi guardandolo. La sua bella testa pallida aveva sempre la stessa espressione di freddezza quasi crudele.
— La prefazione di Bonghi conclude per la vita – egli soggiunse con accento leggero di provocazione. Io potrei ripetervi la sua frase: poichè siete tanto bella, tutto non è dunque dolore quaggiù.
— Allora perchè la bellezza non basta alla felicità dell’amore e l’amore spesso non si cura nemmeno della bellezza? Bonghi ha ragione quando afferma contro la falsa serenità dei nuovi pagani che il mondo antico è stato infelice quanto il moderno, e che la malinconia non è un male cristiano. Noi siamo tutti infelici!
— Voi! — egli esclamò con accento duro, forse irritato seco medesimo dalle troppe idee sciupate in quel dialogo, e che avrebbero potuto bastare a parecchi dei suoi articoli.
Ma ella non si degnò nemmeno di notare l’interruzione.
— Lo so — proseguì vivamente – ormai si è detto tutto sul dolore e sul piacere, si è preteso che siano l’uno la cessazione dell’altro, poi due gradi di una stessa sensazione. Vundtz e Lotze, vedete che sono bene informata, me lo diceva ieri il professore Tommasi-Crudeli, presso a poco sostengono questa tesi: ma vi è una obbiezione. Se il dolore deriva dalla vibrazione troppo violenta di un nervo, perchè una parola fa spesso più male di una pugnalata, e la frattura di una gamba è meno spasmodica talvolta di una rottura galante? Il dolore morale è dunque diverso dal dolore fisico? La fame crea l’accattonaggio, mentre la vergogna di aver fame produce sovente il suicidio. Perchè nella maggior parte dei casi noi affrontiamo il dolore per arrivare al piacere? Perdonate se io, donna, oso gettare con le mie mani lo scandaglio in certi abissi, ma la questione ci interessa tutti, grandi e piccoli, uomini e donne.
— Non vi farò che una obbiezione la più volgare ed insieme la più forte: se la vita è infelice, perchè tutti l’accettano?
— Perchè dimenticate voi i suicidi? Coloro che accettano, sperano, ecco tutto.
— La speranza deriva essa pure dalla vita: ma volete davvero una ragione irresistibile? – seguitò con evidente intenzione di sarcasmo guardandola negli occhi. – poichè ogni fenomeno è doppio, pigliate i due estremi della gamma, la generazione e la morte: la voluttà dell’una è più intensa del dolore dell’altra. Anzi, Leopardi, un pessimista che non potete rinnegare, sosteneva con ragione che la morte sola è senza dolore.
— Siete ben sicuri che in ogni fenomeno della vita il piacere sia maggiore del dolore?
— Il fatto della vita è per me, esaminatelo imparzialmente.
— Lo volete? – ribattè sollevando il capo dalla spalliera della poltrona.
Egli tornò a sorridere.
Allora la duchessa si alzò lentamente, andò alla finestra, dinanzi alla quale, fra le tende penzolava una magnifica gabbia dorata; ne aperse lo sportello e ne trasse colla mano il canarino. Il grazioso animaletto mise due o tre stridi lasciandosi prendere dalla padrona.
— Alì — ella si volse chiamando il magnifico gatto d’Angora, che sonnecchiava sopra uno sgabello.
La duchessa aveva appena avuto il tempo di sedersi che Alì le era saltato sulle ginocchia e, percotendogliele con la coda, le si strofinava con le orecchie nel seno. Poi si accovacciò nel suo grembo guardando tranquillamente il canarino.
La duchessa gli passò una mano sul capo e appressandogli sicuramente l’altra alla bocca gli presentò l’uccellino per le zampe. Il canarino gettò un grido.
Alì lo teneva già addentato sino al dosso.
— Che cosa fate? – esclamò balzando in piedi l’illustre critico, che aveva atteso a tutta quella manovra senza capirla.
— Vi confuto — rispose mostrandogli freddamente il gatto, che sgretolava con pigra ghiottoneria quel corpicino ancora vivo.
Entrambi erano diventati pallidi. La duchessa scacciò Alì con un gesto, si alzò e tendendogli la mano ripetè con indefinibile sorriso:
— Adesso ditemi ancora che nella vita il piacere di mangiare vale il dolore di essere mangiato.