Atto terzo

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Atto secondo Licenza

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ATTO TERZO

SCENA I

Bipartita, che si forma dalle rovine di un antico ippodromo, giá coperte in gran parte d’edera, di spine e d’altre piante selvagge.

Megacle, trattenuto da Aminta per una parte, e dopo Aristea, trattenuta da Argene per l’altra: ma quelli non veggono queste.

Megacle. Lasciami! Invan t’opponi.

Aminta.   Ah! torna, amico,
una volta in te stesso. In tuo soccorso
pronta sempre la mano
del pescator, ch’or ti salvò dall’onde,
credimi, non avrai. Si stanca il cielo
d’assister chi l’insulta.
Megacle.   Empio soccorso!
inumana pietá! negar la morte
a chi vive morendo. Aminta, oh Dio!
lasciami!
Aminta.   Non fia ver.
Aristea.   Lasciami! Argene.
Argene. Non lo sperar.
Megacle.   Senz’Aristea non posso,
non deggio viver piú.
Aristea.   Morir vogl’io
dove Megacle è morto.
Aminta. (a Megacle)  Attendi.
Argene. (ad Aristea)  Ascolta.

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Megacle. Che attender?

Aristea.   Che ascoltar?
Megacle.   Non si ritrova
piú conforto per me.
Aristea.   Per me nel mondo
non v’è piú che sperar.
Megacle.   Serbarmi in vita...
Aristea. Impedirmi la morte...
Megacle. ...indarno tu pretendi.
Aristea.   ...invan presumi.
Aminta. Ferma! (volendo trattener Megacle, che gli fugge)
Argene.   Senti, infelice.
  (volendo trattenere Aristea, come sopra)
Aristea. (incontrandosi in Megacle) Oh stelle!
Megacle. (incontrando Aristea)  Oh numi!
Aristea. Megacle!
Megacle.   Principessa!
Aristea.   Ingrato! E tanto
m’odii dunque e mi fuggi,
che, per esserti unita,
s’io m’affretto a morir, tu torni in vita?
Megacle. Vedi a qual segno è giunta,
adorata Aristea, la mia sventura.
Io non posso morir; trovo impedite
tutte le vie per cui si passa a Dite.
Aristea. Ma qual pietosa mano...

SCENA II

Alcandro e detti.

Alcandro. Oh sacrilego! oh insano!

oh scellerato ardir!
Aristea.   Vi sono ancora
nuovi disastri, Alcandro?

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Alcandro.   In questo istante

rinasce il padre tuo.
Aristea.   Come!
Alcandro.   Che orrore,
che ruina, che lutto,
se ’l ciel non difendea, n’avrebbe involti!
Aristea. Perché?
Alcandro.   Giá sai che, per costume antico,
questo festivo dí con un solenne
sacrifizio si chiude. Or, mentre al tempio
venia fra’ suoi custodi
la sacra pompa a celebrar Clistene,
perché non so, né da qual parte uscito,
Licida impetuoso
ci attraversa il cammin. Non vidi mai
piú terribile aspetto. Armato il braccio,
nuda la fronte avea, lacero il manto,
scomposto il crin. Dalle pupille accese
uscia torbido il guardo; e per le gote,
d’inaridite lagrime segnate,
traspirava il furore. Urta, rovescia
i sorpresi custodi; al re s’avventa.
— Mori! — grida fremendo; e gli alza in fronte
il sacrilego ferro.
Aristea.   Oh Dio!
Alcandro.   Non cangia
il re sito o color. Severo il guardo
gli ferma in faccia, e in grave suon gli dice:
— Temerario! che fai? — Vedi se il cielo
veglia in cura de’ re! Gela a que’ detti
il giovane feroce. Il braccio in alto
sospende a mezzo il colpo; il regio aspetto
attonito rimira; impallidisce;
incomincia a tremar; gli cade il ferro;
e dal ciglio, che tanto
minaccioso parea, prorompe il pianto.

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Aristea. Respiro!

Argene.   Oh folle!
Aminta.   Oh sconsigliato!
Aristea.   Ed ora
il genitor che fa?
Alcandro.   Di lacci avvolto
ha il colpevole innanzi.
Aminta.   (Ah! si procuri
di salvar l’infelice.) (parte)
Megacle. E Licida che dice?
Alcandro.   Alle richieste
nulla risponde. È reo di morte, e pare
che nol sappia o nol curi. Ognor piangendo,
il suo Megacle chiama: a tutti il chiede,
lo vuol da tutti; e fra’ suoi labbri, come
altro non sappia dir, sempre ha quel nome.
Megacle. Piú resister non posso. Al caro amico
per pietá chi mi guida?
Aristea.   Incauto! E quale
sarebbe il tuo disegno? Il genitore
sa che tu l’ingannasti;
sa che Megacle sei. Perdi te stesso,
presentandoti al re: non salvi altrui.
Megacle. Col mio principe insieme
almen mi perderò. (vuol partire)
Aristea. Senti. E non stimi
consiglio assai miglior che il padre offeso
vada a placare io stessa?
Megacle.   Ah! che di tanto
lunsingarmi non so.
Aristea.   Sí, questo ancora
per te si faccia.
Megacle.   Oh generosa, oh grande,
oh pietosa Aristea! Facciano i numi
quell’alma bella in questa bella spoglia
lungamente albergar. Ben lo diss’io,

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quando pria ti mirai, che tu non eri

cosa mortal! Va’, mio conforto.
Aristea.   Ah! basta,
non fa d’uopo di tanto.
Un sol de’ guardi tuoi
mi costringe a voler ciò che tu vuoi.
          Caro, son tua cosí,
     che, per virtú d’amor,
     i moti del tuo cor
     risento anch’io.
          Mi dolgo al tuo dolor,
     gioisco al tuo gioir,
     ed ogni tuo desir
     diventa il mio. (parte)

SCENA III

Megacle ed Argene.

Megacle. Deh! secondate, o numi,

la pietá d’Aristea. Chi sa se il padre
però si placherá. Troppa ragione
ha di punirlo, è ver; ma della figlia
lo vincerá l’amore. E se nol vince?
Oh Dio! potessi almeno
veder come l’ascolta. Argene, io voglio
seguitarla da lungi.
Argene.   Ah! tanta cura
non prender di costui. Vedi che ’l cielo
è stanco di soffrirlo. Al suo destino
lascialo in abbandono.
Megacle. Lasciar l’amico! Ah! cosí vil non sono.
          Lo seguitai felice,
     quand’era il ciel sereno;

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     alle tempeste in seno

     voglio seguirlo ancor.
          Come dell’oro il fuoco
     scopre le masse impure,
     scoprono le sventure
     de’ falsi amici il cor. (parte)

SCENA IV

Argene, poi Aminta.

Argene. E pure a mio dispetto

sento pietade anch’io. Tento sdegnarmi,
ne ho ragion, lo vorrei; ma in mezzo all’ira,
mentre il labbro minaccia, il cor sospira.
Sarai debole, Argene,
dunque a tal segno? Ah! no. Spergiuro! ingrato!
non sará ver. Detesto
la mia pietá. Mai piú mirar non voglio
quel volto ingannator. L’odio: mi piace
di vederlo punir. Trafitto a morte
se mi cadesse accanto,
non verserei per lui stilla di pianto.
Aminta. Misero! dove fuggo? Oh dí funesto!
oh Licida infelice!
Argene.   È forse estinto
quel traditor?
Aminta.   No, ma il sará fra poco.
Argene. Non lo credere, Aminta. Hanno i malvagi
molti compagni, onde giammai non sono
poveri di soccorso.
Aminta.   Or ti lusinghi:
non v’è piú che sperar. Contro di lui
gridan le leggi, il popolo congiura,

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fremono i sacerdoti. Un sangue chiede

l’offesa maestá. De’ sagrifizi,
che una colpa interrompe, è il delinquente
vittima necessaria. Ha giá deciso
il pubblico consenso. Egli svenato
fia su l’ara di Giove. Esser vi deve
l’offeso re presente, e al sacerdote
porgere il sacro acciaro.
Argene.   E non potrebbe
rivocarsi il decreto?
Aminta.   E come? Il reo
giá in bianche spoglie è avvolto; il crin di fiori
io coronar gli vidi; e ’l vidi, oh Dio!
incamminarsi al tempio. Ah! fors’è giunto:
ah! forse adesso, Argene,
la bipenne fatal gli apre le vene.
Argene. Ah, no, povero prence! (piange)
Aminta. Che giova il pianto?
Argene.   Ed Aristea non giunse?
Aminta. Giunse, ma nulla ottenne. Il re non vuole
o non può compiacerla.
Argene. E Megacle?
Aminta.   Il meschino
ne’ custodi s’avvenne,
che ne andavano in traccia. Or l’ascoltai
chieder fra le catene
di morir per l’amico; e, se non fosse
ancor ei delinquente,
ottenuto l’avria. Ma un reo per l’altro
morir non può.
Argene.   L’ha procurato almeno.
Oh forte! oh generoso! Ed io l’ascolto
senza arrossir? Dunque ha piú saldi nodi
l’amistá che l’amore? Ah, quali io sento
d’un’emula virtú stimoli al fianco!
Sí! rendiamoci illustri. Infin che dura,

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parli il mondo di noi. Faccia il mio caso

meraviglia e pietá; né si ritrovi
nell’universo tutto
chi ripeta il mio nome a ciglio asciutto.
          Fiamma ignota nell’alma mi scende,
     sento il nume, m’inspira, m’accende,
     di me stessa mi rende maggior.
          Ferri, bende, bipenni, ritorte,
     pallid’ombre, compagne di morte,
     giá vi guardo, ma senza terror. (parte)

SCENA V

Aminta Solo.

Fuggi, salvati, Aminta! In queste sponde

tutto è orror, tutto è morte. E dove, oh Dio!
senza Licida io vado? Io l’educai
con sí lungo sudore; a regie fasce
io l’innalzai da sconosciuta cuna:
ed or potrei senz’esso
partir cosí? No. Si ritorni al tempio:
si vada incontro all’ira
dell’oltraggiato re. Licida involva
me ancor ne’ falli sui:
si mora di dolor, ma accanto a lui.
          Son qual per mare ignoto
     naufrago passeggiero,
     giá con la morte a nuoto
     ridotto a contrastar.
          Ora un sostegno ed ora
     perde una stella; alfine
     perde la speme ancora
     e s’abbandona al mar. (parte)

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SCENA VI

Aspetto esteriore del gran tempio di Giove olimpico, dal quale si scende per lunga e magnifica scala divisa in vari piani. Piazza innanzi al medesimo con ara ardente nel mezzo. Bosco, all’intorno, de’ sacri ulivi silvestri, donde formavansi le corone per gli atleti vincitori.

Clistene, che scende dal tempio, preceduto da numeroso popolo, da’ suoi custodi, da Licida in bianca veste, coronato di fiori, da Alcandro e dal coro de’ sacerdoti, de’ quali alcuni portano sopra bacili d’oro gli strumenti del sagrifizio.

Coro.   I tuoi strali, — terror de’ mortali,

     ah!, sospendi, gran padre de’ numi,
     ah! deponi, gran nume de’ re.
Parte del coro.   Fumi il tempio — del sangue d’un empio,
     che oltraggiò con insano furore,
     sommo Giove, un’immago di te.
Coro.   I tuoi strali, — terror de’ mortali,
     ah! sospendi, gran padre de’ numi,
     ah! deponi, gran nume de’ re.
Parte del coro.   L’onde chete — del pallido Lete
     l’empio varchi; ma il nostro timore,
     ma il suo fallo portando con sé.
Coro.   I tuoi strali, — terror de’ mortali,
     ah! sospendi, gran padre de’ numi,
     ah! deponi, gran nume de’ re.
Clistene. Giovane sventurato, ecco vicino
de’ tuoi miseri dí l’ultimo istante.
Tanta pietade (e mi punisca Giove
se adombro il ver), tanta pietá mi fai,
che non oso mirarti. Il ciel volesse
che potess’io dissimular l’errore:
ma non lo posso, o figlio. Io son custode
della ragion del trono. Al braccio mio
illesa altri la diede;

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e renderla degg’io

illesa o vendicata a chi succede.
Obbligo di chi regna
necessario è cosí, come penoso,
il dover con misura esser pietoso.
Pur, se nulla ti resta
a desiar, fuor che la vita, esponi
libero il tuo desire. Esserne io giuro
fedele esecutor. Quanto ti piace,
figlio, prescrivi, e chiudi i lumi in pace.
Licida. Padre, ché ben di padre,
non di giudice e re, que’ detti sono,
non merito perdono,
non lo spero, nol chiedo e nol vorrei.
Afflisse i giorni miei
di tal modo la sorte,
ch’io la vita pavento e non la morte.
L’unico de’ miei voti
è il riveder l’amico
pria di spirar. Giá ch’ei rimase in vita,
l’ultima grazia imploro
d’abbracciarlo una volta, e lieto io moro.
Clistene. T’appagherò. Custodi! (alle guardie)
Megacle a me.
Alcandro.   Signor, tu piangi! E quale
eccessiva pietá l’alma t’ingombra?
Clistene. Alcandro, lo confesso,
stupisco di me stesso. Il volto, il ciglio,
la voce di costui nel cor mi desta
un palpito improvviso,
che lo risente in ogni fibra il sangue.
Fra tutti i miei pensieri
la cagion ne ricerco, e non la trovo.
Che sará, giusti dèi! questo ch’io provo?
          Non so donde viene
     quel tenero affetto,

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     quel moto — che ignoto

     mi nasce nel petto,
     quel gel che le vene
     scorrendo mi va.
          Nel seno a destarmi
     sí fieri contrasti
     non panni che basti
     la sola pietá.

SCENA VII

Megacle fra le guardie, e detti.

Licida. Ah! vieni, illustre esempio

di verace amistá: Megacle amato,
caro Megacle, vieni.
Megacle.   Ah! qual ti trovo,
povero prence.
Licida.   Il rivederti in vita
mi fa dolce la morte.
Megacle.   E che mi giova
una vita, che invano
voglio offrir per la tua? Ma molto innanzi,
Licida, non andrai: noi passeremo
ombre amiche indivise il guado estremo.
Licida. O delle gioie mie, de’ miei martíri,
finché piacque al destin, dolce compagno,
separarci convien. Poiché siam giunti
agli ultimi momenti,
quella destra fedel porgimi e senti.
Sia preghiera o comando,
vivi: io bramo cosí. Pietoso amico,
chiudimi tu di propria mano i lumi:
ricòrdati di me. Ritorna in Creta
al padre mio... Povero padre! a questo

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preparato non sei colpo crudele.

Deh! tu l’istoria amara
raddolcisci narrando. Il vecchio afflitto
reggi, assisti, consola:
lo raccomando a te. Se piange, il pianto
tu gli asciuga sul ciglio;
e in te, se un figlio vuol, rendigli un figlio.
Megacle. Taci: mi fai morir.
Clistene.   Non posso, Alcandro,
resister piú. Guarda que’ volti; osserva
que’ replicati amplessi,
que’ teneri sospiri e que’ confusi
fra le lagrime alterne ultimi baci.
Povera umanitá!
Alcandro.   Signor, trascorre
l’ora permessa al sacrifizio.
Clistene.   È vero.
Olá! sacri ministri,
la vittima prendete. E voi, custodi,
dall’amico infelice
dividete colui. (sono divisi da’ sacerdoti e da’ custodi)
Megacle. Barbari! Ah, voi
avete dal mio sen svelto il cor mio!
Licida. Ah, dolce amico!
Megacle.   Ah, caro prence!
Licida e Megacle.   (guardandosi da lontano)  Addio!
Coro.   I tuoi strali, — terror de’ mortali
     ah! sospendi, gran padre de’ numi,
     ah! deponi, gran nume de’ re.

Nel tempo che si canta il coro, Licida va ad inginocchiarsi a piè dell’ara, appresso al sacerdote. Il re prende la sacra scure, che gli vien presentata sopra un bacile da un de’ ministri del tempio; e, nel porgerla al sacerdote, canta i seguenti versi, accompagnati da grave sinfonia.

Clistene. O degli uomini padre e degli dèi,

onnipotente Giove,
al cui cenno si move

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il mar, la terra, il ciel; di cui ripieno

è l’universo, e dalla man di cui
pende d’ogni cagione e d’ogni evento
la connessa catena;
questa, che a te si svena,
sacra vittima accogli. Essa i funesti,
che ti splendono in man, folgori arresti.
(nel porgere la scure al sacerdote, viene interrotto da Argene)

SCENA VIII

Argene e detti.

Argene. Férmati! o re. Fermate!

sacri ministri.
Clistene.   Oh insano ardir! Non sai,
ninfa, qual opra turbi?
Argene.   Anzi piú grata
vengo a renderla a Giove. Una io vi reco
vittima volontaria ed innocente,
che ha valor, che ha desio
di morir per quel reo.
Clistene.   Qual è?
Argene.   Son io.
Megacle. (Oh bella fede!)
Licida.   (Oh mio rossor!)
Clistene.   Dovresti
saper che al debil sesso
pel piú forte morir non è permesso.
Argene. Ma il morir non si vieta
per lo sposo a una sposa. In questa guisa
so che al tessalo Admeto
serbò la vita Alceste; e so che poi
l’esempio suo divenne legge a noi.

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Clistene. Che perciò? Sei tu forse

di Licida consorte?
Argene.   Ei me ne diede
in pegno la sua destra e la sua fede.
Clistene. Licori, io, che t’ascolto,
son piú folle di te. D’un regio erede
una vil pastorella
dunque...
Argene.   Né vil son io,
né son Licori. Argene ho nome: in Creta
chiara è del sangue mio la gloria antica;
e, se giurommi fé, Licida il dica.
Clistene. Licida, parla.
Licida.   (È l’esser menzognero
questa volta pietá.) No, non è vero.
Argene. Come! e negar lo puoi? Volgiti, ingrato!
riconosci i tuoi doni,
se me non vuoi. L’aureo monile è questo,
che, nel punto funesto
di giurarmi tua sposa,
ebbi da te. Ti risovvenga almeno
che di tua man me ne adornasti il seno.
Licida. (Pur troppo è ver.)
Argene.   Guardalo, o re.
Clistene. (alle guardie, che vogliono allontanarla a forza) Dinanzi
mi si tolga costei.
Argene.   Popoli, amici,
sacri ministri, eterni dèi, se pure
n’è alcun presente al sacrifizio ingiusto,
protesto innanzi a voi: giuro ch’io sono
sposa a Licida, e voglio
morir per lui; né... Principessa, ah! vieni,
soccorrimi: non vuole
udirmi il padre tuo.

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SCENA IX

Aristea e detti.

Aristea.   Credimi, o padre,

è degna di pietá.
Clistene. Dunque volete
ch’io mi riduca a delirar con voi?
Parla; ma siano brevi i detti tuoi. (ad Argene)
Argene. Parlino queste gemme: (porge il monile a Clistene)
io tacerò. Van di tai fregi adorne
in Elide le ninfe?
Clistene. (lo guarda e si turba) Aimè! che miro!
Alcandro, riconosci
questo monil?
Alcandro.   Se il riconosco? È quello
che al collo avea, quando l’esposi all’onde,
il tuo figlio bambin.
Clistene.   Licida! (oh Dio!
tremo da capo a piè) Licida! sorgi!
Guarda: è ver che costei
l’ebbe in dono da te?
Licida.   Però non debbe
morir per me. Fu la promessa occulta,
non ebbe effetto e col solenne rito
l’imeneo non si strinse.
Clistene.   Io chiedo solo
se il dono è tuo.
Licida.   Sí.
Clistene.   Da qual man ti venne?
Licida. A me donollo Aminta.
Clistene.   E questo Aminta
chi è?
Licida.   Quello a cui diede
il genitor degli anni miei la cura.

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Clistene. Dove sta?

Licida.   Meco venne,
meco in Elide è giunto.
Clistene. Questo Aminta si cerchi.
Argene.   Eccolo appunto.

SCENA ULTIMA

Aminta e detti.

Aminta. Ah! Licida... (vuole abbracciarlo)

Clistene.   T’accheta!
Rispondi, e non mentir. Questo monile
donde avesti?
Aminta.   Signor, da mano ignota
giá scorse il quinto lustro
ch’io l’ebbi in don.
Clistene.   Dov’eri allor?
Aminta.   Lá dove
in mar, presso a Corinto,
sbocca il torbido Asopo.
Alcandro. (guardando attentamente Aminta) (Ah! ch’io rinvengo
delle note sembianze
qualche traccia in quel volto. Io non m’inganno:
certo egli è desso.) Ah! d’un antico errore,
  (inginocchiandosi)
mio re, son reo. Deh! mel perdona: io tutto
fedelmente dirò.
Clistene.   Sorgi! favella!
Alcandro. Al mar, come imponesti,
non esposi il bambin: pietá mi vinse.
Costui, straniero, ignoto,
mi venne innanzi, e gliel donai, sperando
che in rimote contrade
tratto l’avrebbe.

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Clistene.   E quel fanciullo, Aminta,

dov’è? che ne facesti?
Aminta.   Io... (Quale arcano
ho da scoprir!)
Clistene.   Tu impallidisci! Parla,
empio! di’: che ne fu? Tacendo, aggiungi
all’antico delitto error novello.
Aminta. L’hai presente, o signor: Licida è quello.
Clistene. Come! non è di Creta
Licida il prence?
Aminta.   Il vero prence in fasce
finí la vita. Io, ritornato appunto
con lui bambino in Creta, al re dolente
l’offersi in dono: ei, dell’estinto in vece,
al trono l’educò per mio consiglio.
Clistene. Oh numi! ecco Filinto! ecco il mio figlio!
  (abbracciandolo)
Aristea. Stelle!
Licida.   Io tuo figlio?
Clistene.   Sí. Tu mi nascesti
gemello ad Aristea. Delfo m’impose
d’esporti al mar bambino, un parricida
minacciandomi in te.
Licida.   Comprendo adesso
l’orror che mi gelò, quando la mano
sollevai per ferirti.
Clistene.   Adesso intendo
l’eccessiva pietá, che nel mirarti
mi sentivo nel cor.
Aminta.   Felice padre!
Alcandro. Oggi molti in un punto
puoi render lieti.
Clistene.   E lo desio. D’Argene
Filinto il figlio mio,
Megacle d’Aristea vorrei consorte;
ma Filinto, il mio figlio, è reo di morte.

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Megacle. Non è piú reo, quando è tuo figlio.

Clistene.   È forse
la libertá de’ falli
permessa al sangue mio? Qui viene ogni altro
valore a dimostrar: l’unico esempio
esser degg’io di debolezza? Ah! questa
di me non oda il mondo. Olá! ministri,
risvegliate su l’ara il sacro fuoco:
va’, figlio, e mori. Anch’io morrò fra poco.
Aminta. Che giustizia inumana!
Alcandro. Che barbara virtú!
Megacle.   Signor, t’arresta.
Tu non puoi condannarlo. In Sicione
sei re, non in Olimpia. È scorso il giorno
a cui tu presiedesti. Il reo dipende
dal pubblico giudizio.
Clistene.   E ben! s’ascolti
dunque il pubblico voto. A pro del reo
non prego, non comando e non consiglio.

     Coro di sacerdoti e popolo.

          Viva il figlio delinquente,
     perché in lui non sia punito
     l’innocente genitor.
          Né funesti il dí presente,
     né disturbi il sacro rito
     un’idea di tanto orror.