Olanda/Alkmaar
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Zaandam | Helder | ► |
__________________________________________
ALKMAAR.
_____
Il bastimento, dopo oltrepassata Zaandam, corse ancora per un lungo tratto in mezzo a due file non interrotte di mulini a vento, toccò parecchi villaggi, svoltò nel canale di Marker-Vaart, attraversò il lago di Alkmaar, ed entrò finalmente nel gran canale del Nord. Non riuscirei mai ad esprimere, per quanto mi ci sforzassi, il sentimento di solitudine morale, di lontananza, e direi quasi di smarrimento che provavo io solo in mezzo a una folla di contadine indiademate come regine e immobili come idoli, su quel piroscafo che scorreva colla placidità di una gondola a traverso una pianura sconfinata ed uniforme, sotto quel cielo malinconico. Certi momenti domandavo a me stesso in che maniera mi trovassi là, dove sarei andato a finire, quando sarei tornato; sentivo la nostalgia di Amsterdam e dell’Aja, come se il paese dove passavo fosse tanto lontano dall’Olanda meridionale, quanto l’Olanda meridionale è lontana dall’Italia; facevo il proponimento di non viaggiar mai più solo, e mi pareva di non aver mai più da tornare a casa.
In quel punto mi trovavo proprio nel cuore della Nord-Olanda, di quella piccola penisola bagnata dal Mare del Nord e dal Golfo di Zuiderzee, ch’è quasi tutta più bassa delle acque che la circondano, ch’è difesa da una parte dalle dune e dall’altra da immense dighe, e frastagliata da un’infinità di canali, di laghi e di paludi, che le danno l’aspetto d’una terra per metà sommersa, e destinata a sparire sotto le onde. Per tutto lo spazio che si poteva abbracciare collo sguardo, non si vedeva che qualche gruppo d’alberi, qualche vela di bastimento e qualche mulino.
Il tratto del canale del Nord che il piroscafo percorreva in quel punto, fiancheggia il Beemster, la più grande distesa di terra che siasi prosciugata nel secolo decimosettimo, uno dei quarantatrè laghi che coprivano anticamente la provincia di Alkmaar, e che furono trasformati in bellissime praterie. Questo Beemster, che abbraccia una superficie di settemila ettari, e viene amministrato, come tutti gli altri polders, da un Comitato eletto dai proprietari, il quale fa le spese col provento d’un’imposta ripartita per ettari; è diviso in un gran numero di quadrati cinti da strade ammattonate e da canali, che lo fanno parere un’immensa scacchiera. Il fondo essendo quasi tre metri e mezzo sotto il livello d’Amsterdam, le acque piovane debbono essere continuamente estratte per mezzo di mulini a vento, che le riversano nei canali, i quali alla loro volta le conducono al mare. Ci sono, in tutto il polder, quasi trecento fattorie, che posseggono circa seimila bestie bovine e più di quattrocento cavalli. Non vi si vedono altri alberi che pioppi, olmi e salici, aggruppati intorno alle case, per difenderle dal vento. Tutto è prateria, e come il Beemster, tali sono gli altri polders. I soli oggetti che richiamino l’attenzione su quelle verdi pianure sono le antenne che sorreggono i nidi delle cicogne, e qua e là qualche enorme osso di balena, antico trofeo di pescatori olandesi, piantato ritto nella terra, perchè ci si strofinino le vacche. Tutti i trasporti di derrate da fattoria a fattoria si fanno per mezzo di barche; nelle case si entra per un ponte che si solleva la notte, come il ponte d’una fortezza; gli armenti pascolano senza guardiani; le anitre e i cigni scorrono liberamente per i lunghi canali; ogni cosa spira sicurezza, abbondanza e pace. Son queste infatti le provincie in cui fiorisce in tutta la sua bellezza quella famosa razza bovina, alla quale l’Olanda deve in gran parte la sua ricchezza; quelle vacche enormi e pacifiche, che danno fino a trenta litri di latte al giorno; i discendenti di quei gloriosi animali, che nel medio evo furon condotti a nobilitare le razze in Francia, nel Belgio, nella Germania, nella Svezia, nella Russia; un armento dei quali, se è vera la tradizione, attraversò il continente fino ad Odessa, rifacendo all’indietro, passo a passo, la strada che avean percorsa le grandi invasioni germaniche. Col latte di questi animali si fa quello squisito formaggio chiamato d’Edam, città della Nord-Olanda, alla cui fama è angusto il mondo. Nei giorni di mercato tutte le città di questa provincia riboccano di quelle belle forme rossiccie, ammontate come palle di cannone per le strade e per le piazze, e mostrate allo straniero con un sentimento d’orgoglio nazionale. Alkmaar ne vende in un anno più di quattro milioni di chilogrammi, Horn tre milioni, Purmerende due, Medenblick e Enkhuisen da settecento a ottocento mila, tutta la Nord-Olanda per più di quindici milioni di lire. Tutte queste cose faranno sorridere qualche poeta e qualche signorina; e capisco anch’io che suonerebbero male in un sonetto; ma non sono per questo men belle, men buone e meno invidiabili cose.
Mentre il bastimento s’avvicinava alla città, io andavo solleticando, come sempre, la mia curiosità, col richiamarmi alla memoria quanto sapevo intorno ad Alkmaar; ben lontano, poveretto, dal prevedere in che brutto impiccio mi sarei trovato fra le sue mura. Me la raffiguravo distrutta da Giovanni di Avesnes, conte di Olanda, in castigo delle sue ribellioni. Seguitavo il coraggioso falegname, che attraversa il campo degli Spagnuoli, va a portare al governatore della provincia l’ordine del principe d’Orange di rompere le dighe, e perde poi la risposta del governatore, la quale trovata e letta da Federico, figliuolo del duca d’Alba, lo induce a levar l’assedio per non morire annegato. Vedevo una frotta di scolari divertirsi a guardar la campagna coperta di neve a traverso le scheggie di ghiaccio applicate al tubo dei calamai, e il buon Mezio intromettersi fra loro, e cavare dal loro gioco la prima idea del canocchiale. Incontravo allo svolto d’una strada il pittore Schoruel, col capo ancora segnato dalle bastonate e dai pugni toccati in rissa nelle taverne d’Utrecht, dove andava a pigliar le cotte con quella buona lana di Giovanni di Mauberge, suo maestro di pittura e di scapestrataggine. E infine m’immaginavo le belle alkmaaresi, che colla loro aria modesta e innocente, ebbero la virtù di sollevare Napoleone il Grande dalla noia di Amsterdam e dal dispetto di Broek. Intanto il piroscafo arrivava ad Alkmaar dove un facchino che sapeva tre sole parole francesi: — Monsieur, hôtel e pourboir, mi toglieva di mano la valigia e mi rimorchiava a un albergo.
A chi abbia visto le altre città dell’Olanda, Alkmaar non offre gran che di straordinario. È una città di forma regolare, con grandi canali e grandi strade, e le solite case rosse colla solita facciata triangolare. Alcune grandi piazze sono interamente lastricate di piccoli mattoni rossicci e gialli, disposti in disegni simmetrici, che da lontano paiono un tappeto; e le strade hanno due marciapiedi, uno di mattoni, per chi passa, e uno un po’ più alto, di pietra, congiunto al muro delle case, sul quale non bisogna mettere il piede, per non essere guardati con occhi di falco dalla gente affacciata alle finestre. Molte case sono imbiancate, non saprei dire perchè, forse per vezzo, soltanto fino a metà; parecchie sono tinte di nero che paiono parate a lutto; altre sono inverniciate come carrozze dal tetto al marciapiede. Le finestre essendo molto basse, si vedono a traverso i tulipani e i giacinti bellissimi che adornano i davanzali, i salotti smaglianti di specchi e di porcellane, e le famiglie raccolte intorno a tavolini coperti di bicchieri di birra, di portaliquori, di biscotti, di scatole di sigari. Per lunghi tratti di strada non s’incontra nessuno; e cosa strana in una città di più di diecimila abitanti, la poca gente, uomini, donne e ragazzi, che passano o che stan sugli usci, salutano cortesemente gli stranieri. Mi passò accanto un drappello di collegiali, condotti da un istitutore; questi fece un cenno, e tutti si levarono il berretto; e sì che io ero tutt’altro che vestito in modo da passare per un pezzo grosso. La città non ha altri monumenti notevoli che la casa municipale, edifizio del secolo decimosettimo, mezzo di stile gotico e mezzo di nessuno stile, che arieggia, in piccino, quello di Bruxelles; e la gran chiesa di San Lorenzo, della stessa epoca, nella quale è la tomba del conte Florenzio V di Olanda, e spenzola sopra il coro, a guisa di lampadario, un fac-simile del vascello-ammiraglio del Ruyter. A oriente della città c’è un folto bosco che serve di passeggio pubblico, dove si fa in occasione di grandi feste la così detta harddraverij, o corsa al gran trotto, col premio genuinamente olandese d’una caffettiera d’argento. Ma non ostante il bel bosco, la chiesa, la casa municipale e i suoi undicimila abitanti, Alkmaar non ha che l’aspetto d’un grande villaggio, e per le sue strade regna un silenzio così profondo, che la musica dei campanili, più selvaggia ancora che nelle altre città, vi si sente da tutte le parti rumorosa e distinta come nella quiete della notte.
Andando dalle strade solitarie verso il centro della città, cominciai a vedere un po’ più di gente, fra cui molte donne, che essendo giorno di festa, erano tutte in oro e in fronzoli, particolarmente le contadine. Per dir la verità, io non so che cosa avesse negli occhi Napoleone il giorno che arrivò ad Alkmaar. Ci sono certo dei bei visetti di monachelle che han l’aria di dire: — Non so nulla di nulla; — e soprattutto delle guancine del più gentile color di rosa che abbia mai diffuso il pudore sul volto d’una vergine; ma l’effetto di queste tenui grazie è spietatamente distrutto dalla scellerata acconciatura del capo e dall’ancor più scellerata foggia del vestire. Oltre i gruppi di riccioli, gli orecchini a paraocchi di cavallo, la lastrina che attraversa la fronte e la cuffia bianca che nasconde le orecchie e la collottola, portano sulla testa, o per dir meglio sul cocuzzolo, un gran cappello di paglia, di forma quasi cilindrica, con una larga tesa rivestita di seta verde o gialla o d’altro colore, monca di dietro, e arrovesciata in alto sul davanti, in modo che tra la tesa stessa e la fronte ci resta un larghissimo vano simigliante a una di quelle boccaccie di mostro che si mettevano altre volte sul capo i soldati chinesi per far paura ai nemici. Oltre a questo, hanno i fianchi spropositatamente rialzati, non so se con gonnelle o con altro, e il busto che grossissimo alla cintura, si va via via stringendo fino alle ascelle, al rovescio delle nostre donne, che si fanno il petto largo e la vita piccina. E come se questo non bastasse, si premono (lo suppongo, perchè non posso credere che la natura sia stata così matrignamente avara con tutte) si premono il seno in maniera, da non lasciar apparire nemmeno una leggerissima curva, come se per esse fosse una mostra invereconda o un difetto ridicolo quello che per le donne degli altri paesi è il più ambito complemento della bellezza. È un gran che se così incappellate, infagottate e schiacciate, paiono ancora donne anche le più gentili d’aspetto; onde si può immaginare che cosa paiano quelle poco favorite dalla natura, che sono anche ad Alkmaar il numero maggiore.
Passando così a rassegna il bel sesso, arrivai in una vasta piazza piena di baracche e di gente, da cui m’accorsi ch’ero capitato ad Alkmaar in un giorno di kermesse.
Eccoci al punto più caratteristico e più strano della vita olandese.
La kermesse è il carnevale dell’Olanda: con questa differenza dal carnevale dei nostri paesi, che essa dura soltanto otto giorni, e che ogni città ed ogni villaggio la festeggia in un tempo diverso. È difficile veramente il dire in che cosa consista questa festa. Nel tempo della kermesse sorge dentro ogni città olandese un’altra città, composta di caffè, di teatri, di botteghe, di chioschi, di padiglioni, che terminata la festa, si scompone come un accampamento, si carica sui barconi e si trasporta in un altro luogo. Gli abitanti di questa città vagabonda sono commercianti, suonatori, istrioni, ciarlatani, giganti, donne colossali, ragazzi mostruosi, animali deformi, figure di cera, cavalli di legno, automi semoventi, scimmie, cani ammaestrati, bestie feroci. In mezzo alle innumerevoli baracche in cui alberga questa strana popolazione, vi sono centinaia di casette dipinte, inverniciate e dorate, tutte composte d’una sala e di quattro stanzine della forma di un’alcova, nelle quali parecchie ragazze vestite alla frisona, col casco d’oro e la cuffia trinata, servono agli avventori dei confetti particolari chiamati broedertijes, che sono il mangiare emblematico della festa, come il panettone per il Natale e la focaccia per l’Epifania. Oltre le baracche dei saltimbanchi e i caffè, ci sono bazar, fiere, circhi equestri, grandi teatri in cui si rappresenta l’opera in musica, e ogni sorta di spettacoli straordinarii per il popolo olandese. Tale è la città provvisoria in cui si celebra la kermesse; ma la festa propriamente detta è ben altra cosa. In quei caffè, in quelle baracche, per le strade, nelle piazze, giorno e notte, per tutto il tempo della kermesse, sbevucchiano, s’ubbriacano, saltano, ballano, cantano, s’urtano, s’abbracciano, si mescolano serve e operai, contadini e contadine, uomini e donne di tutte le classi del popolo minuto, con un furore e una licenza appetto a cui sono innocenti ragazzate i disordini delle nostre notti di carnovale. In quei giorni il popolo olandese si spoglia del suo carattere in modo da non esser più riconoscibile. Abitualmente grave, economo, casalingo, modesto, nel tempo della kermesse diventa chiassoso, si ride della decenza, passa le notti fuor di casa e spende in un giorno il frutto dei risparmi d’un mese. Le serve alle quali è concessa in quei giorni una straordinaria libertà, e se non glie la concedono se la pigliano, sono le attrici principali della festa. Ognuna si fa accompagnare dal suo fidanzato o dall’amante, o da un giovane qualunque noleggiato come un pertichino, a un prezzo diverso se porta il cappello cilindrico o il berretto, se è bello o brutto, se è un tanghero o un lesto fante. I contadini e le contadine vengono a far la kermesse alla città o al villaggio in un giorno determinato, che si chiama il — giorno dei contadini — e fanno d’ogni erba fascio come il popolino. Il colmo del baccano è la notte del sabato. Allora non è più una festa, è una ridda, un’orgia, un saturnale, che non ha riscontro in nessun altro paese d’Europa. Io ricusai per lungo tempo di prestar fede a certi olandesi, i quali mi dipingevano la kermesse con orribili colori, e credevo, come altri più indulgenti mi dicevano, che fossero rigoristi astiosi ed intolleranti. Ma quando udii affermare le stesse cose da gente spregiudicata, da testimoni oculari, da olandesi e da stranieri che mi dicevano: — Ho veduto io da questo palco e da questa finestra; — allora credetti anch’io ai palchi dei teatri convertiti in alcova, al pudore postergato nelle strade, alle coppie amorose addormentate sul lastrico, alle guardie di polizia espressamente incaricate d’impedire il supremo scandalo che si possa dare all’aria aperta, ai medici che dicono: — Quest’anno non avremo molte balie, perchè le kermesses dell’anno scorso furono poco animate; — agli Olandesi stessi che chiamano quelle feste una vergogna nazionale. Convien dire però che da un tempo in qua le kermesses sono in decadenza. L’opinione pubblica, su questo punto, è divisa. V’hanno coloro che le favoreggiano, perchè come attori o come spettatori, ci si divertono, e questi negano o scusano i disordini, e dicono che la proibizione delle kermesses farebbe scoppiare una rivoluzione. V’hanno altri che le combattono e le vogliono vedere soppresse, e sollecitano a questo scopo l’istituzione di spettacoli e di divertimenti onesti e gentili; la mancanza dei quali, a loro avviso, è la principal cagione degli eccessi a cui s’abbandona il popolo in quella unica occasione delle kermesses. L’avviso di questi ultimi va di giorno in giorno prevalendo. In parecchie città furon già presi provvedimenti per frenare i baccanali; in alcune fu determinata un’ora della notte, oltre la quale le botteghe debbano esser chiuse; in altre si allontanarono le baracche dal centro della città; il Municipio d’Amsterdam ha stabilito un certo numero d’anni, trascorsi i quali, la Sibari provvisoria in cui si fanno le feste, non potrà più essere rifabbricata. Si può dunque affermare che fra un non lunghissimo tempo, queste famose kermesses saranno ridotte a un allegro e temperato carnevale, con grandissimo vantaggio della moralità pubblica e della dignità nazionale.
Non in tutte le città olandesi, però, le kermesses sono clamorose e scandalose allo stesso grado. All’Aja, per esempio, lo sono molto meno che ad Amsterdam e a Rotterdam; e m’immagino (perchè non vi stetti la notte) che ad Alkmaar lo siano ancora meno che all’Aja; ciò che per altro non vuol dire che debbano essere un fior di decenza.
La piazza dov’ero riuscito era piena di baracche variopinte, sulla porta delle quali si sbracciavano a sonare e si sgolavano a chiamar gente, saltimbanchi vestiti di maglia carnicina e danzatrici di corda in sottanelle. Davanti ad ogni baracca v’era una folla di curiosi, da cui di tratto in tratto si staccavano due o tre contadini per entrare a veder lo spettacolo. Io non ricordo d’aver mai visto gente più semplice, più mansueta e di più facile contentatura di quella. Tra una sonata e l’altra, un ragazzo di dieci anni, vestito da pagliaccio, ritto sur una specie di palcoscenico accanto alla porta, bastava egli solo a trattenere davanti alla baracca, divertire e far ridere dai precordi una moltitudine di duecento persone. E con che? Non raccontando delle storielle, non facendo dei calembours come i saltimbanchi di Parigi, non spiccando dei salti, non contraendo il viso; nulla di tutto questo; ma semplicemente facendo di tratto in tratto, colla maggior flemma del mondo, una piccola freccia di carta, che poi lanciava sulla folla accompagnando l’atto con un leggero sorriso. Questo bastava a far andare in visibilio quella buonissima gente. Girando in mezzo a quelle baracche, incontrai qualche contadina un po’ brilla, sentii cantare in falsetto qualche ragazza malferma sulle gambe, colsi in flagrante qualche coppia amorosa che si passava le mani sotto il mento, vidi qualche gruppo di donne che preludevano alla ridda notturna, dandosi delle spallate e delle fiancate da buttarsi in terra; ma nulla di criminale. Era veramente una baraonda, come dice Alfonso Esquiroz, di gente che non ne sa fare. Ma siccome io non ritenevo giusto il giudizio dell’Esquiroz se non per il giorno, e prevedevo che sull’imbrunire sarebbe incominciato uno spettacolo molto più drammatico, così, per non trovarmi solo, di notte, in mezzo alla baldoria d’una città sconosciuta, che ci sarei morto dall’uggia, decisi di partire immediatamente per Helder, e me ne tornai per la strada più corta all’albergo.
Quando v’ero entrato, non avevo parlato con nessuno, perchè il facchino che m’accompagnava, aveva chiesto per me la camera e portato su la valigia. Perciò io credevo che o il padrone dell’albergo o uno almeno dei camerieri capisse il francese. Quando rientrai, camerieri e padrone erano forse andati a trincare in qualche baracca; e nell’albergo non rimaneva che una vecchia serva, la quale mi condusse in una sala a terreno, e facendomi capire che non mi capiva, se n’andò pei fatti suoi. V’era in quella sala una tavolata di grossi alkmaaresi, che avevano finito in quel punto una mangiataccia solenne, e facevano il chilo in mezzo a una nuvola di fumo, chiacchierando e ghignazzando con una vivacità straordinaria. Vedendomi così solo ed immobile in un canto, di tratto in tratto mi rivolgevano uno sguardo compassionevole, e qualcuno sussurrava nell’orecchio al vicino qualche parola, che m’immagino esprimesse lo stesso sentimento che lo sguardo. Non c’è nulla che sconforti di più uno straniero già sconfortato che il vedersi fatto oggetto di commiserazione da una comitiva d’indigeni allegri. Lascio dunque immaginare che faccia derelitta io dovessi aver in quel punto. Dopo qualche minuto uno dei grossi alkmaaresi si alzò, prese il cappello e si avviò per uscire. Quando mi fu dinanzi, si fermò, e mi disse con un sorriso pietosamente cortese, spiccando le sillabe: — Alkmaar.... pas de plaisir; Paris.... toujours plaisir. — M’aveva preso per francese. Ciò detto, si mise il cappello, e credendomi abbastanza consolato, mi voltò le spalle e uscì a gravi passi dalla sala. Era il solo della brigata che sapesse tre parole di francese. Sentii un vivo moto di gratitudine per lui, e poi ricaddi nel mio misero stato. Passò un’altra quindicina di minuti, e arrivò finalmente un cameriere. Respirai, gli corsi incontro, gli dissi che volevo partire. Oh delusione! non capiva una saetta. Lo presi per un braccio, lo condussi nella mia camera, gli mostrai la valigia e gli feci cenno che me ne volevo andare. Andare! È presto detto; ma come? per battello? per strada ferrata? per trekschuit? Mi rispose che non mi comprendeva. M’ingegnai di fargli capire che volevo una vettura. Capì, e mi rispose con un gesto che non c’era vettura. Ebbene, pensai, cercherò io la stazione della strada ferrata; e gesticolando, gli domandai se c’era un facchino. Mi rispose che non c’era facchino. Gli domandai, coll’orologio in mano, a che ora sarebbe tornato il padrone. Mi rispose che il padrone non sarebbe più ritornato. Gli accennai che mi portasse la valigia lui. Mi rispose che non poteva. Gli domandai con un gesto disperato che cosa dovevo fare. Non mi rispose, e stette a guardarmi in silenzio. In simili occasioni io perdo la pazienza, il coraggio e la testa con una facilità spaventosa. Ricominciai a parlare facendo un guazzabuglio inaudito di parole tedesche, francesi e italiane, aprendo e chiudendo la Guida, tracciando e cancellando sul mio quaderno linee e ghirigori che volevano rappresentare bastimenti e macchine a vapore, andando su e giù per la stanza come uno scemo, finchè il povero giovane, non so se impaurito o seccato, infilò la porta e mi lasciò nelle péste. Allora afferrai la mia valigia e scesi le scale. Gli alkmaaresi della tavola, avvertiti dal cameriere della mia strana agitazione, erano usciti dalla sala, e vedendomi scendere, s’eran fermati nell’atrio, guardandomi come si guarda un matto scappato dall’ospedale. Io diventai rosso come una fragola, il che accrebbe il loro stupore. Arrivato nell’atrio, lasciai cadere la pesante valigia, e rimasi immobile, guardando le punte dei piedi dei miei spettatori. Tutti mi tenevano gli occhi addosso e nessuno parlava. Ero avvilito, come non sono stato mai in vita mia. Perchè poi? Non lo so. So che mi vedevo una nebbia davanti agli occhi, che avrei dato un anno di vita per sparire di là come un lampo, che maledivo i viaggi, Alkmaar, la lingua olandese, la mia stupidaggine, e che pensavo a casa mia come un profugo abbandonato dagli uomini e da Dio. Tutt’a un tratto, un ragazzo sbucato di non so dove, prese la mia valigia e si allontanò rapidamente accennandomi che lo seguissi. Lo seguii senza domandar altro, attraversai una strada, infilai un portone, passai per un cortile, e arrivai a un altro portone che dava sur un’altra strada, dove il ragazzo si fermò, buttò in terra la valigia, si fece dare la mancia, e senza rispondere alle mie domande, mi piantò su due piedi. Dove m’aveva condotto? Che cosa dovevo far là? Quanto ci sarei stato? Che sarebbe seguito di me? Era un mistero. Cominciava a imbrunire. Passavano per la strada contadini e contadine a braccetto, frotte di ragazzi che canterellavano, coppie d’amanti che si parlavano nell'orecchio; tutti brilli e festosi; e tutti passando davanti a me, così solo e accigliato, mi lanciavano un’occhiata di stupore e di pietà. Ero dunque alla berlina! m’avevano forse condotto là con quel disegno! Prima lo sospettai, poi mi parve di non poterne più dubitare, mi si accese il sangue, mi si strinse il cuore, afferrai la valigia per tornare all’albergo e vendicarmi a qualunque rischio... In quel momento vidi comparire una diligenza e mi balenò un raggio di speranza. La diligenza si fermò davanti al portone, un ragazzo ritto sul montatoio mi fece un cenno, accorsi, domandai ansiosamente: — Alla stazione della strada ferrata? — Oui, monsieur, — mi rispose francamente, — pour partir pour Helder — Ah! che il buon Dio ti benedica, ragazzo dell’anima mia! — gli gridai saltando dentro e mettendogli un fiorino in mano; — Tu mi hai ridato la vita! — La diligenza mi condusse alla stazione e pochi minuti dopo partii per Helder.
Chi non ha viaggiato, riderà di quest’avventura, e dirà che è un’esagerazione o una favola; ma chi per poco abbia esperienza di viaggi, si ricorderà di essersi trovato più d’una volta in simili impicci, di aver provato gli stessi sentimenti, d’aver perduto la bussola nello stesso modo, e d’aver forse raccontato l’avventura colle stesse parole.
____________