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altra cosa. In quei caffè, in quelle baracche, per le strade, nelle piazze, giorno e notte, per tutto il tempo della kermesse, sbevucchiano, s’ubbriacano, saltano, ballano, cantano, s’urtano, s’abbracciano, si mescolano serve e operai, contadini e contadine, uomini e donne di tutte le classi del popolo minuto, con un furore e una licenza appetto a cui sono innocenti ragazzate i disordini delle nostre notti di carnovale. In quei giorni il popolo olandese si spoglia del suo carattere in modo da non esser più riconoscibile. Abitualmente grave, economo, casalingo, modesto, nel tempo della kermesse diventa chiassoso, si ride della decenza, passa le notti fuor di casa e spende in un giorno il frutto dei risparmi d’un mese. Le serve alle quali è concessa in quei giorni una straordinaria libertà, e se non glie la concedono se la pigliano, sono le attrici principali della festa. Ognuna si fa accompagnare dal suo fidanzato o dall’amante, o da un giovane qualunque noleggiato come un pertichino, a un prezzo diverso se porta il cappello cilindrico o il berretto, se è bello o brutto, se è un tanghero o un lesto fante. I contadini e le contadine vengono a far la kermesse alla città o al villaggio in un giorno determinato, che si chiama il — giorno dei contadini — e fanno d’ogni erba fascio come il popolino. Il colmo del baccano è la notte del sabato. Allora non è più una festa, è una ridda, un’orgia, un saturnale, che non ha riscontro in nessun altro paese d’Europa. Io ricusai per lungo tempo di prestar fede a certi olandesi, i quali