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aveva chiesto per me la camera e portato su la valigia. Perciò io credevo che o il padrone dell’albergo o uno almeno dei camerieri capisse il francese. Quando rientrai, camerieri e padrone erano forse andati a trincare in qualche baracca; e nell’albergo non rimaneva che una vecchia serva, la quale mi condusse in una sala a terreno, e facendomi capire che non mi capiva, se n’andò pei fatti suoi. V’era in quella sala una tavolata di grossi alkmaaresi, che avevano finito in quel punto una mangiataccia solenne, e facevano il chilo in mezzo a una nuvola di fumo, chiacchierando e ghignazzando con una vivacità straordinaria. Vedendomi così solo ed immobile in un canto, di tratto in tratto mi rivolgevano uno sguardo compassionevole, e qualcuno sussurrava nell’orecchio al vicino qualche parola, che m’immagino esprimesse lo stesso sentimento che lo sguardo. Non c’è nulla che sconforti di più uno straniero già sconfortato che il vedersi fatto oggetto di commiserazione da una comitiva d’indigeni allegri. Lascio dunque immaginare che faccia derelitta io dovessi aver in quel punto. Dopo qualche minuto uno dei grossi alkmaaresi si alzò, prese il cappello e si avviò per uscire. Quando mi fu dinanzi, si fermò, e mi disse con un sorriso pietosamente cortese, spiccando le sillabe: — Alkmaar.... pas de plaisir; Paris.... toujours plaisir. — M’aveva preso per francese. Ciò detto, si mise il cappello, e credendomi abbastanza consolato, mi voltò le spalle e uscì a gravi passi dalla sala. Era il solo della brigata che sapesse tre parole di fran-