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ALKMAAR. 381

cese. Sentii un vivo moto di gratitudine per lui, e poi ricaddi nel mio misero stato. Passò un’altra quindicina di minuti, e arrivò finalmente un cameriere. Respirai, gli corsi incontro, gli dissi che volevo partire. Oh delusione! non capiva una saetta. Lo presi per un braccio, lo condussi nella mia camera, gli mostrai la valigia e gli feci cenno che me ne volevo andare. Andare! È presto detto; ma come? per battello? per strada ferrata? per trekschuit? Mi rispose che non mi comprendeva. M’ingegnai di fargli capire che volevo una vettura. Capì, e mi rispose con un gesto che non c’era vettura. Ebbene, pensai, cercherò io la stazione della strada ferrata; e gesticolando, gli domandai se c’era un facchino. Mi rispose che non c’era facchino. Gli domandai, coll’orologio in mano, a che ora sarebbe tornato il padrone. Mi rispose che il padrone non sarebbe più ritornato. Gli accennai che mi portasse la valigia lui. Mi rispose che non poteva. Gli domandai con un gesto disperato che cosa dovevo fare. Non mi rispose, e stette a guardarmi in silenzio. In simili occasioni io perdo la pazienza, il coraggio e la testa con una facilità spaventosa. Ricominciai a parlare facendo un guazzabuglio inaudito di parole tedesche, francesi e italiane, aprendo e chiudendo la Guida, tracciando e cancellando sul mio quaderno linee e ghirigori che volevano rappresentare bastimenti e macchine a vapore, andando su e giù per la stanza come uno scemo, finchè il povero giovane, non so se impaurito o seccato, in-