Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXIX
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fin che non v’abbiano fatto tutti rinegare il santo battesimo. Pigliaranno i vostri fanciulli piccioli e li circoncideranno come fanno i giudei, e se voi averete ardimento di contradire v’impaleranno. Le vostre figliuole non saranno ne le vostre braccia sicure, perciò che le piglieranno per ischiave e loro femine. Nostro signore Dio ci guardi da le lor mani! E che pensate voi che farebbero a me, che predico contra loro? Guai a me, guai a me, se io capitassi a le lor mani! – E replicando questo una e due volte in quel fervore di dire, e dicendo – E a te che farebbero, frate Michelaccio? – un picciolo fanciullo che era dinanzi al pergamo a sedere, udendo questo, si levò in piede e ad alta voce disse: – Padre, a voi non farebbero i turchi altro male se non che in vece d’un cappone v’arrostirebbero, perché sète molto grasso. – A questo piacevole ed arguto motto del fanciullo tutti si risolsero in tante risa che fu necessario che il buon frate dismontasse di pergamo, sapendo egli che ciascuno sapeva che i buoni capponi, quanto erano piú grassi, piú gli piacevano. Di modo che senza piú predicare si partí di Firenze, dubitando che ciò che il garzone aveva detto non gli fosse stato commesso di dire. E cosí una insperata parola una materia di tanta importanza fece divenire ridicola.
Tra l’infinite qualitá di pazzie che travagliano, affliggono e spesso rovinano de l’anima e del corpo l’uomo, credo io che l’alchimia e l’incantesimo siano de le principali, perciò che a me pare che in queste due quanto piú la persona s’essercita, quanto piú vi s’invecchia, tanto piú vi s’affatichi e desideri d’essercitarle. Che di molte altre specie di pazzia non pare che avvenga, veggendosi che mille occasioni, e massimamente l’invecchiare, fa che l’uomo ad altro rivolge l’animo, e di se stesso seco sovente si vergogna. Il che de l’alchimista non avviene, il quale quante piú prove, quanti piú esperimenti fa, quanti piú sofistici vede con i suoi ingegni riuscire, piú s’anima a seguir l’impresa, e spera o ritrovare la quinta essenzia, che io per me non so che cosa sia, o vero tiene per fermo aver cangiato il rame in buon oro od almeno in purgatissimo argento. E nondimeno, non seguendo l’effetto, subito iscusa l’arte e dirá la tintura non esser ben fatta, il fuoco essere stato di tristo carbone o di troppo forte, di modo che, con mille altri inganni ingannando se stesso, consuma la roba e la vita ed insieme con la Luna, con Mercurio e con queste loro ciance si risolve in fumo. Quell’altro con la Clavicula di Salomone, se egli la fece, e con mille altri libri d’incantagioni spera ritrovare gli occultati tesori nel seno de la terra, indurre la sua donna al suo volere, saper i segreti dei prencipi, andar da Milano a Roma in un atomo e far molti altri effetti mirabili. E quanto piú l’incantatore si truova ingannato, piú nel fare incantagioni persevera, accompagnato sempre da la speranze di trovar ciò che cerca. E quanti errori di questo ne seguano non accade parlarne, essendo il lor errore assai manifesto. Sovvengavi, signor Carlo, del tempo che quel nostro amico, per ottenere la sua innamorata, che mai non ottenne, fece de la sua camera un cimitero, avendovi piú teste ed ossa di morti che non è a Parigi agli Innocenti. Ora, a questi dí disputando di queste pazzie a la presenza de la signora Gostanza Rangona e Fregosa, il signor Giulio Cesare Scaligero col maestro del signor Ettor Fregoso, messer Gian Pietro Usperto, giovine per buone lettere e buoni costumi molto segnalato, dopo l’aver filosoficamente assai tra loro questionato e dette molte belle cose e utili, esso Usperto, per recreare alquanto gli animi degli ascoltanti, narrò un caso avvenuto a Bologna ad uno scolare, che per via d’incantesimi voleva esser amato. E perché mi parve da esser tenuto a mente, l’ho scritto e sotto il vostro nome publicato, a ciò che veggiate che qui e in ogni altro luogo io sono di voi ricordevole. State sano.
Novella XXIX
Pensando, illustrissima madama, che le nostre questioni abbiano in qualche parte attristato gli animi di tutti gli ascoltanti, ancor che il fine di ciò che io intendo dire sia lacrimoso, nondimeno v’occorrono de le cose per entro che tengono del ridicolo, e solveranno un poco le menti depresse: poi il caso avvenuto è molto a proposito di quello che abbiamo tenzionato il dottissimo e gentilissimo signor Giulio Cesare ed io, a dimostrare che questi incantesimi quasi sempre si risolvono in male. Dicovi che, essendo io in Bologna e dando opera a le leggi cosí cesaree come pontificie, furono alcuni scolari di molta stima, i quali oltra il dare opera agli studi si dilettavano poi di stare sui piaceri d’ogni sorte e vivere piú lietamente che fosse possibile. E tra loro tenevano a pigione una casa, ove da l’ore che non si attendeva a studiare, sempre v’erano scolari d’ogni sorte e anco altri uomini sollazzevoli, e quivi si ragionava di cose piacevoli, si facevano giuochi, si davano tutti il meglior tempo del mondo, avendo da ogni parte bandita la malinconia, non permettendo che persona ragionasse di cose malinconose né di fastidio giá mai, di modo che per tutta Bologna di cosí lieta brigata si ragionava. Ora avvenne che uno scolare, che talora praticava con questi, s’innamorò, come ai giovini avviene, in una assai bella donna bolognese, e cominciò a seguitarla in ogni luogo ove ella andava e tenerla sollecitata di messi e ambasciate. Ma la gentildonna, che che se ne fosse cagione, non pareva che in modo alcuno fosse disposta a volerlo per innamorato. Di che il giovine si disperava, e quanto piú ella si mostrava ritrosa, tanto piú egli s’accendeva e tanto piú la teneva sollecitata. La donna, o che conoscesse che questo scolare non era perciò il piú accorto uomo del mondo, o che poco stimasse che egli le mandasse lettere e ambasciate ed altri le risapesse, accettava il tutto, ma risposta altra non dava se non che ella non voleva attendere a questi amori. Si dilettava alquanto lo scolare di comporre qualche cosetta in rima, e faceva per questa sua donna di gran sonetti e capitoli, i quali, quando agio aveva, recitava in casa di quelli scolari di cui vi dissi nel principio che facevano cosí lieta vita. Era tra questi uno, il piú brigante, faceto ed allegro del mondo, il quale, udendo le composizioni del giovine innamorato, s’accorse di leggiero che quello era un terreno dolce, senza sale e proprio da porvi la sua vanga e tener in festa tutta la brigata. Communicò questo suo pensiero agli altri suoi buon compagni; e deliberato tra loro ciò che era da fare, diedero del rimanente il carico a costui, conoscendolo uomo che per cosa ridicola che sentisse, se non voleva, di viso non si cangiava giá mai, ove per lo contrario, per dar pasto a qualcuno, smascellatamente rideva d’ogni picciola cosa e sapeva troppo bene secondare il filone, come si dice, di chiunque voleva. Questo, un dí, essendo messer Giovanni in casa loro, – ché cosí si chiamava l’innamorato scolare, – se gli accostò e gli disse: – Quanto è che voi non avete composto qualche bella cosa? Io vi prego che non siate cosí scarso de le vostre belle rime, ché se bene io non so comporre di questi vostri sonetti, io perciò mirabilmente me ne diletto, e starei da la matina a la sera, dopo che avessi desinato, senza mangiare per ascoltarne; e massimamente voi, che, – vi giuro, non mi fate dire, – questi dí io vi sentii dire un sonetto, che mi passò il core. E se io fossi stato la vostra amica, io vi prometto che tutta la signoria di Bologna non m’averia tenuto che non vi fossi venuto a trovare a casa da mezzodí, non che la notte. Ma io credo che voi vi debbiate dar un matto tempo con questa vostra innamorata, e buon pro vi faccia! Anco io farei il medesimo. – Messer Giovanni, sentendo il ragionamento di costui, con uno fiero sospiro gli rispose: – Monsignor Simone, – ché tal era il nome dell’altro, – voi sète di gran lunga ingannato, perciò che io amo la piú crudel donna di tutto il mondo, da la quale mai non ho potuto aver né buon viso né una minima risposta, di maniera che io mi trovo il piú disperato uomo che sia sovra la terra, e porto invidia mille volte l’ora a’ morti. – Questo non può essere, – disse messer Simone, – ma voi fate del secreto, e fate bene a non vi fidare cosí di ciascuno, ché oggidí l’uomo non sa di chi potersi fidare, sí sono malvagi gli uomini e di poca credenza. Ben vi affermo che di me non devete aver téma che io vi levi i vostr’amori, perciò che io sono di modo alloggiato che non cangiarei la mia innamorata con l’imperadrice. Poi io sarei in questo vostro caso, quando pur cosí fosse, per farvi qualche rilevato servigio. – Messer Giovanni alora cominciò giurare e a sagramentare che in effetto egli era disperato di questo suo amore, e che mai non aveva potuto, non che effetti, ma pur cavare una minima paroletta, e che daria l’anima al trenta para di diavoli per potersi una sola notte giacersi con lei. Messer Simone, udendo queste parole, si mise a ridere e disse: – Nel vero, poi che voi me lo giurate cosí affermativamente, ed io ve lo vo’ credere e hovvi la maggior compassione del mondo, perché io altre volte fui a questi termini che voi sète, e so che dolore estremo è amare e non esser amato. Ma se voi mi volete tener credenza e giurarmi su la pietra sacrata de l’altare maggiore di San Petronio che mai a nessuno manifesterete ciò che io farò per voi, e che vi dia l’animo fare quanto vi dirò, io vi prometto mettervi la vostra donna a lato e far talmente che da voi mai non si partirá, se non tanto quanto vorrete voi. Né vi paia, questo, grande od incredibil cosa, perché io l’ho provato per me e per amici miei da sette volte in su. Tutto è che bisogna esser segreto, ché qualche volta non andasse a le orecchie de l’inquisitore di San Domenico, ché, secondo che nel tempo del signor Giovanni Bentivoglio colui che alora era inquesitore fece ardere la Cimera, cosí farebbe adesso quest’altro a noi; perciò che questo incantesmo, ché per via d’incantagioni bisogna procedere, che io con esso voi intendo per vostro profitto fare, io l’imparai da una persona a la quale la Cimera, vivendo, l’aveva insegnato. – Il buon scolare, che veramente amava, diede quella intiera e ferma fede a le parole di messer Simone, che averebbe dato a le piú verisimili e certe cose che si fossero potute dire. Il perché, ringraziandolo infinitamente ed offerendosi per suo schiavo in catena, s’offerse a giurare su l’ostia consacrata, non che suso un altare, che cosa che udisse o vedesse non ridirebbe a chi si sia giá mai. Messer Simone, veggendo che l’augello era in gabbia, si deliberò di pigliarsi e dar gran piacere agli altri suoi compagni e prendersi la maggior berta del mondo di costui. E non essendo alora tempo de le lezioni né di studio, senza dir parola a nessuno, se n’andò con lui a la chiesa di San Petronio, e, non v’essendo persona, fece che giurò con le maggiori essecrazioni del mondo ciò che volle. Fatto questo, si mise a passeggiare seco in chiesa e gli disse: – Io non so persona, che mi avesse indutto a far quello che io per voi farò, se non voi, tanto è lo sviscerato amore che vi porto e la compassione che io v’ho; perciò che la quaresima passata io promisi al frate, quando io mi confessai, che mai piú non m’intrometterei in cose di incantesimi, avendomi egli affermato che io commetteria un gravissimo peccato. Ma trovisi mò chi gliele attenda. Ora vi dico che questo incantesimo non si può fare se non s’hanno alcune cose, le quali bisogna che di sua mano prenda colui per lo quale l’incantamento si fa. E queste cose si prendono da un corpo d’un uomo morto. Tutto il dí muore qualcuno in Bologna, che si seppellisce in qualche cimitero. Noi averemo il modo di disepellirlo e prender ciò che vorremo, perché io vi sarò in compagnia, e condurremo anco con noi dui o tre dei miei compagni, che altre volte in simili bisogni m’hanno aiutato. Il tutto è che a voi basti il core di fare ciò che vi dirò. – Messer Giovanni gli promise di far il tutto, che era sicurissimo d’animo, e che non solamente egli disotterrarebbe un morto, ma che farebbe ogni altra cosa. – A voi non istará, – soggiunse l’altro, – di accostarvi al corpo fin che io e i miei compagni non l’averemo scoperto e levatali tutta la terra da dosso. E come questo sia fatto, noi vi faremo un segno, e voi scenderete ne la fossa ed abbraccerete il corpo morto e lo basciarete in bocca chiedendoli perdono. Noi poi vi daremo una tenaglia e voi gli caverete tre denti, dui di quei di sopra ed uno di quelli da basso, e vi li porrete in bocca e cavarete tre volte, rimettendogli ogni fiata in bocca; e cavatogli la terza volta fuori, ce li darete a noi, che saremo sempre lá presenti. Fatto questo, le strapparete l’ungia del dito di mezzo de la man destra e quella del dito picciolo de la sinistra. Le altre cose i miei compagni le hanno tutte, come è carta non nasciuta e fatta con caratteri di sangue di pipistrello, una pietra di quelle che hanno queste botte, che stanno in terra, in capo, e molte altre cose di strana natura che non si vogliono cosí publicare, le quali tutte insieme si pestano e si sepelliscono in luogo ove la donna che s’ama abbia a passare. Ed una sola volta che vi passi ella, vi manderá quel dí medesimo a cercare e farvi intendere che ella è presta per far tutto ciò che voi desiderate. – Credette il tutto il buon messer Giovanni, e disse che ciò che deveva fare era cosa leggera, e che per conseguir l’intento suo, che da se solo quando fosse bisogno, la metterebbe ad effetto. Restati adunque in questa condizione, monsignor Giovanni, come se di giá fosse l’effetto seguíto, tutto cominciò a gongolare e lieto oltra modo se n’andò a casa a fare sue facende. Messer Simone subito se n’andò a casa, e un’ora gli pareva un anno d’aver trovati i suoi compagni e a quelli narrata la beffa che giá s’aveva messo in animo di far a lo scolare innamorato. I quali, come il fatto ebbero inteso, giudicarono che il buon messer Giovanni mai non era passato sotto l’arca di san Longino a Mantova, e pur assai de la sua melensaggine si risero insieme. Avevano costoro un servidore in casa che si chiamava Chiappino, che era un furbo dei piú scaltriti del mondo, che averebbe fatto la salsa al diavolo, animoso, presuntuoso e tanto beffardo quanto si potesse imaginare cosa alcuna. A Chiappino adunque apersero i buon compagni ciò che fare intendevano. Egli, che senza paura averebbe dormito in una sepoltura, disse che era prontissimo a far il tutto che gli era ordinato. L’innamorato scolare come vedeva la sua donna, la quale né piú né meno il guatava come se mai veduto non l’avesse, diceva tra sé: – State pur sul tirato, fate la crudele, rivolgete altrove il viso e nulla di me vi curate, ché io spero in breve tenervi ne le mie braccia tutta ignuda e mille volte basciarvi e mordervi altre tante quella boccuccia vermiglia come un rubino. – E farneticava di queste cose da sé, parendo in effetto esser in fatto; ma lo sfortunato non sapeva la sua disaventura. Or non molto dopoi avvenne che un povero uomo si morí e fu sepellito in un certo cimitero molto solitario, e dove né di giorno né di notte andava persona. Come messer Simone lo seppe, lo fece intendere a messer Giovanni e volle che il dí dopo vespro si ritirasse in una camera e dicesse piú volte certe orazioni, anzi pure certe pappolate che tra loro scritte avevano, e quindi non si partisse fin che egli non lo domandasse. Da l’altra banda, in quel cimitero che detto io v’ho, fecero far una buca non molto profonda, ove al tempo ordinato Chiappino si corcò con certi fuochi artificiali, come a mano a mano intenderete. Venute le quattro ore di notte, Chiappino andò per far quanto gli era stato commesso, e messer Simone con dui dei suoi compagni, prese zappe, badili ed un paio di tenaglie, andarono a levar fuori di camera l’innamorato scolare, e tutti di brigata se n’andarono verso il cimitero. Era la notte oscura come in bocca di lupo, di modo che a pena l’un l’altro, essendo appresso, si poteva scorgere. Faceva ne l’andare messer Giovanni le maggior bravate di parole del mondo, e d’allegrezza non capeva ne la pelle. Come Chiappino gli sentí avvicinare al cimitero, ché, per esser in luogo rimoto, i compagni per avvertirlo facevano un poco di romore, subito dentro la fossa si distese, avvoltato in certi panni straziati che a posta s’aveva apparecchiato. Giunti sul cimitero, volle messer Simone che l’innamorato scolare in un cantone s’inginocchiasse, e lasciògli uno dei compagni seco a dir alquanti paternostri, e poi egli con l’altro compagno andò a la buca ove Chiappino giaceva. Quivi, come se il corpo morto dissotterrare avessero voluto, cominciarono con loro instrumenti, che recati avevano, a dar in terra e far romore e spargere de la terra, che de la buca era stata tratta fuori. E quando tempo gli parve, chiamarono lo scolare ed il compagno. Messer Giovanni, che fin a quell’ora non aveva mostrato segno di paura, cominciò tutto a tremare; pure, confortato dal compagno, s’inviò verso la buca. Ove giunto che fu, disse messer Simone: – Orsú! animosamente entrate dentro e fate l’ufficio vostro. – Discese tutto tremante il povero scolare ne la buca, e volendosi inchinare per abbracciare e basciar quel corpo, Chiappino, che in bocca aveva non so che a modo d’una noce, pieno di fuoco artificiale, mandò fuor una vampa di fuoco e di subito un’altra e un’altra, e in un tratto abbracciò egli lo scolare, il quale piú morto che vivo, suffocato da la estrema paura, in braccio a Chiappino morí, il quale imperversava con mandar fuor fuoco ed urlava. Veggendo gli altri che messer Giovanni nulla diceva e che come Chiappino aperse le braccia, che cadette in terra, pensando che fosse per téma stramortito, lo trassero fuori de la buca e lo stropicciarono assai. Portatolo poi a casa, conobbero chiaramente che egli era morto, e dolenti oltra modo che la loro beffa avesse avuto cosí strano e periglioso fine, non sapevano che si fare, temendo che, se la cosa si fosse saputa, essi erano in periglio de la vita. Altri perciò non ci era che questo fatto sapesse se non essi quattro. Il perché, un poco innanzi l’alba, pigliarono il povero scolare morto e lo portarono vicino a certa chiesa sotto un portico. Trovatosi la matina, e la cosa divolgata per Bologna e saputasi da la Signoria, fu dai piú eccellenti medici fatto veder il corpo morto, i quali, avendolo diligentemente in ogni parte ben guardato e con cirugici famosi essaminato, conchiusero tutti che vinto da gran paura s’era morto. Fu poi fatto sepellire. Ma perché di rado le cose stanno occolte quando da piú di uno o dui si sanno, il fatto, non so come, si manifestò. Il perché monsignor Simone e i compagni, temendo de la giustizia, si levarono di Bologna e a Padova andarono a dar fine ai loro studi, e per l’avvenire si guardarono pur assai di far piú beffe di simil sorte. Ed in effetto sí fatti scherzi non mi paiono da far ad un amico.
Essendo voi partito da Milano quando vi faceste medicare de l’archibugiata che avevate nel braccio, fu astretto il nostro prete Santino, per certa infermitá che lo guastava, farsi castrare e restar solo senza testimoni. Onde fu tra molti una gran disputa: che si doveva fare di ciò che gli era stato cavato; ed era quasi l’openione de la maggior parte che, se voleva dir messa, bisognava che li portasse di continovo a dosso; di modo che essendo dissensione tra loro, s’accordarono a questo: che s’andasse ai frati de le Grazie, che sono osservanti di san Domenico, e si stesse al giudicio del venerabile frate Giovanni Pagnano, il quale, come sapete, è gran dottore e famosissimo ne le cose di ragione canonica. Cosí vennero a parlargli, e il fondamento di molti era, che chi è mutilato di corpo e non ha tutti i membri suoi non può celebrare. Ora, dopo molte tenzioni, mostrò loro il Pagnano che erano in