Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXVIII

Novella XXVIII - Fra Michele da Carcano, predicando in Firenze, è beffato da un fanciullo con un pronto detto
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[p. 30 modifica]al magnifico dottor di leggi messer
Francesco Maria Trovamala salute


Azzio Bandello mio avo fu uomo molto dotto, negli studii de l’umanitá e de le civili leggi assai famoso, come voi potete ricordarvi che, essendo egli d’ottanta anni, quando noi tornavamo da la scuola del nostro dotto messer Gerardo Canabo, lo trovavamo sempre accompagnato da molti clientuli che a lui per conseglio ricorrevano. E perché era di natura festevole e piacevole molto, e a tutto ciò che si diceva soleva di continovo aver qualche bel motto arguto e a proposito, era da tutti detto «messer Azzio dai proverbii». Egli soleva dire che molto spesso nei parlari gravi e di grandissimo momento avvengono certi accidenti che impensatamente rendono una materia, di grave, ridicola, e per lo contrario, talora, di ridicola, grave. Che una cosa di grave venga ridicola, vedemmo, essendo noi ancora fanciulli, quando in Castelnuovo, piatendo i Grassi con i Torti in materia d’un omicidio, e volendo il signor Galeazzo Sanseverino che la cosa fosse dinanzi a lui disputata per metter pace tra quelle due nobili famiglie, uno dei nostri dottori, che era da tutti chiamato «Necessitas», perché la necessitá non ha legge, avendo studiato un conseglio di messer Alessandro da Imola, che consigliava in simil caso e metteva quello esser avvenuto tra Tizio e Sempronio, poi che messer Antonio Curzio ebbe dottamente in favore dei Grassi detto circa due ore, domine Necessitas si levò e, presa licenza dal signor Galeazzo, come si costuma, di parlare, cominciò a dire: – Signore, in questa materia criminale che verte tra Tizio per una parte, e Sempronio per l’altra, la ragione civile dispone che Sempronio sia e che Tizio abbia. – E mai non seppe uscire di Tizio e Sempronio, di modo che, risolvendosi tutto l’auditorio in riso, la cosa, che era criminale e grave, divenne ridicola e per quel dí fu messa in silenzio. E narrando io questa facezia a Genova, ove erano molte persone, messer Speraindio Palmaro, uomo di memoria tenacissima e di grande esperienza, narrò un caso avvenuto ad un religioso che predicava, ove si vede chiaramente che uno picciolo motto rende le cose di grandissima riputazione ridicole. Ora, avendo io questa cosa scritta secondo che [p. 31 modifica]egli la narrò e al numero de le mie novelle aggiunta, quella vi mando e dono, la quale anco sará commune a vostro fratello messer Andrea, che oggidí ne l’Accademia ticinese, tra i filosofi e i medici leggendo, disputando e curando, tiene onoratissimo luogo, essendo voi da l’altra parte tra i dottori di leggi uno Scevola, un Paolo e uno Ulpiano. State sano.

Novella XXVIII

Fra Michele da Carcano predicando in Firenze
è beffato da un fanciullo con un pronto detto.


Non sono ancora molti anni che tutta Italia era in arme e tumulti. Il duca Galeazzo Sforza era stato in Milano nel mezzo de la chiesa di Santo Stefano da Andrea Lampognano e suoi conscii morto, per la cui morte tutto quel ducato andò sossopra, tirando la duchessa moglie del morto duca le cose con Cecco Simonetta ad un modo, e Lodovico Sforza con Roberto Sanseverino facendo ogni sforzo per levar il ducato de le mani a Cecco. Ferrando re di Napoli teneva Alfonso duca di Calabria suo figliuolo con grosso essercito contra i fiorentini, e i veneziani s’apparecchiavano cacciare Ercole da Este del ducato di Ferrara. Il papa e gli altri prencipi d’Italia erano con questi e con quelli collegati. Maumete imperadore de’ turchi, sentendo queste divisioni tra’ prencipi italiani, avendo sempre avuto l’animo ad occupar Rodi e la Italia, giudicò le nostre dissensioni esser a suo profitto. Il perché con armata di mare occupò e prese Otranto, cittá del regno di Napoli, posta nei confini di Calabria e de la Puglia, che divide il mar Ionio da l’Ausonio, e per iscontro al lito de la Vellona, con poco spazio di mare, che l’Italia da la Macedonia divide. Vogliono alcuni che questo spazio di mare sia cinquanta e cinque miglia, ed altri che arrivi a sessanta. Io mi ricordo, navigandolo, averlo considerato e creduto che poco piú o poco meno possa essere. Certo è che il re Pirro deliberò l’una terra e l’altra con ponti maestrevolmente fatti congiungere; ed il medesimo pensiero ebbe Marco Varrone, essendo prefetto de l’armata di mare sotto il magno Pompeo, al tempo che egli purgò i mari de le robarie dei corsari. Ma l’uno e l’altro, da altre cure distratti, lasciarono stare cosí gloriosa impresa. Divolgata per Italia la presa di Otranto per i turchi, empí di spavento tutti i signori e popoli italiani, veggendo il commun nemico del nome cristiano aver posto il piede in Italia e poter d’ora in ora con [p. 32 modifica]una velificazione soccorre i suoi. E nel vero si dubitava forte de la rovina di tutta Italia, se la providenza di Dio non provedeva, ché prima che i turchi potessero fermar il piede ed allargare l’imperio vicino ad Otranto, Maomete loro imperadore morí. Il che fu cagione che non dopo molto Otranto si ricuperò, non potendo esser soccorso dai turchi, perciò che come Maumete fu morto, Baiazete suo maggior figliuolo, volendo de l’imperio impadronirsi e ritrovandosi ne la Paflagonia vicino al Mare maggiore, fu da le genti di Zizimo suo minor fratello impedito, il quale Zizimo era a Iconio ne la Licaonia. Essendo dunque la discordia tra questi figliuoli di Maumete, Achinato che aveva a nome di Maumete occupato Otranto, sforzato da Alfonso che era ito a quell’assedio, non potendo aver soccorso, con onesti patti si partí, e fu cagione poi di dar l’imperio a Baiazete. Ora, essendo Achinato in Otranto, e tutta Italia in grandissimo timore de’ turchi, il papa cominciò a far predicare la crociata contra gli infedeli a ricuperazione di Otranto; e cosí per tutta Italia ad altro non si attendeva che a predicare e bandire la croce contra i nemici de la fede. E perché la cosa era di grandissima importanza, il papa elesse molti famosi predicatori di varie religioni a questo mestiero, tra i quali ci fu frate Michele Carcano, gentiluomo milanese, de l’ordine di san Francesco, di quelli che portano i zoccoli. Egli era cosí grasso e corpulento che non piú fra Michele, ma frate Michelaccio da tutti era chiamato. Fu dunque per commessione di papa Sisto mandato a Firenze a predicare la santa crociata; il quale cominciò le sue prediche, disponendo quella cittá a prender l’arme in favore non solamente del re Ferrando ma di tutta la cristianitá, e che non guardassero che avessero guerra con quel re, che le sue genti aveva rivocate, ma che lo facessero per amore del ben commune; perciò che se i turchi ottenevano quella cittá di Otranto, averebbero in breve soggiogato tutto quel regno e poi sarebbero venuti in quel di Roma e di Toscana. Un giorno adunque che era tutta Firenze a la predica, e con somma attenzione era il sermone del padre ascoltato, egli cominciò a discorrere per la varietá dei tormenti che i turchi dánno a’ cristiani, e diceva: – Fiorentini miei, quando i turchi pigliano una cittá per forza, non pensate che perdonino a etá né a sesso. Egli non rispettano nessuno; tutti menano a filo di spada e fanno le maggiori crudeltá del mondo. Se prenderanno questa cittá d’accordio, se vi lasceranno vivere, vorranno tutte le vostre possessioni per loro e tutti voi per ischiavi, e mai non cessaranno [p. 33 modifica]fin che non v’abbiano fatto tutti rinegare il santo battesimo. Pigliaranno i vostri fanciulli piccioli e li circoncideranno come fanno i giudei, e se voi averete ardimento di contradire v’impaleranno. Le vostre figliuole non saranno ne le vostre braccia sicure, perciò che le piglieranno per ischiave e loro femine. Nostro signore Dio ci guardi da le lor mani! E che pensate voi che farebbero a me, che predico contra loro? Guai a me, guai a me, se io capitassi a le lor mani! – E replicando questo una e due volte in quel fervore di dire, e dicendo – E a te che farebbero, frate Michelaccio? – un picciolo fanciullo che era dinanzi al pergamo a sedere, udendo questo, si levò in piede e ad alta voce disse: – Padre, a voi non farebbero i turchi altro male se non che in vece d’un cappone v’arrostirebbero, perché sète molto grasso. – A questo piacevole ed arguto motto del fanciullo tutti si risolsero in tante risa che fu necessario che il buon frate dismontasse di pergamo, sapendo egli che ciascuno sapeva che i buoni capponi, quanto erano piú grassi, piú gli piacevano. Di modo che senza piú predicare si partí di Firenze, dubitando che ciò che il garzone aveva detto non gli fosse stato commesso di dire. E cosí una insperata parola una materia di tanta importanza fece divenire ridicola.


Il Bandello al magnifico signor Carlo Attellano


Tra l’infinite qualitá di pazzie che travagliano, affliggono e spesso rovinano de l’anima e del corpo l’uomo, credo io che l’alchimia e l’incantesimo siano de le principali, perciò che a me pare che in queste due quanto piú la persona s’essercita, quanto piú vi s’invecchia, tanto piú vi s’affatichi e desideri d’essercitarle. Che di molte altre specie di pazzia non pare che avvenga, veggendosi che mille occasioni, e massimamente l’invecchiare, fa che l’uomo ad altro rivolge l’animo, e di se stesso seco sovente si vergogna. Il che de l’alchimista non avviene, il quale quante piú prove, quanti piú esperimenti fa, quanti piú sofistici vede con i suoi ingegni riuscire, piú s’anima a seguir l’impresa, e spera o ritrovare la quinta essenzia, che io per me non so che cosa sia, o vero tiene per fermo aver cangiato il