Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LII

Novella LII - Pandora, prima che si mariti e dopo, compiace a molti del suo corpo; e per gelosia d’un suo amante, che ha preso moglie, ammazza il proprio figliuolo
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[p. 122 modifica]gentil signora
la signora Ippolita Sanseverina e Vimercata salute


Io questa state passata, per fuggir i caldi che talora sono eccessivi in Milano, me n’andai in villa col signor Alessandro Bentivoglio e con la signora Ippolita Sforza sua consorte, al luogo loro di lá da l’Adda che si chiama «il Palagio», e quivi dimorai circa tre mesi, nei quali ci capitarono di molti signori e gentiluomini ed onorate gentildonne, ai quali, come sapete esser il costume d’essi signori, si faceva gratissima accoglienza, e stavano sempre in onesti e dilettevoli giuochi. Avvenne che un dí ci capitò con una squadra di belle giovani la signora Barbara di Gonzaga contessa da Gaiazzo, tra le quali ci erano la signora Lodovica e la signora Giulia vostre sorelle e la gentilissima signora Maddalena Sanseverina vostra nipote. Quivi nel montare del sole solevano ridursi sotto un grandissimo frascato, tanto maestrevolmente fatto, che i solari raggi in nessun lato passavano e quasi di continovo vi spirava una fresca e dolce òra. Si novellava in una parte, si ragionava di varie cose in un’altra, e si giocava ancora, secondo che a ciascuno piú dilettava un essercizio che l’altro. Alora, essendo sovragiunta cosí nobile e bella compagnia, dopo che si fu desinato, sapendo tutti, come la signora contessa è bella parlatrice e sempre piena di nuovi casi che a la giornata accadono, ci fu chi la pregò che degnasse qualche novella dirne. E perché s’era inteso che in Crema una giovane da marito, essendo gravida ed avendo partorito, aveva la creatura suffocata e tratta in un chiassetto, perché non si sapesse il suo fallo, la contessa, che sentí che di questo caso si mormorava, ci promise di tal materia novellare. Onde senza indugio narrò una crudeltá da una madre verso il figliuolo usata, che tutti ci riempí di stupore e meraviglia ed insiememente di compassione, giurando che detta madre ella conosceva. Io, pregato di scriverla, poco me ne curai, non volendo che fra le mie novelle fosse veduta. Ora, astretto da voi che desiderate sapere come il caso fu, non ve l’ho potuto negare, pensando anco che non istá male, tra le cose varie, che simili accidenti ci siano. A voi dunque la detta istoria mando, ché, avendomela voi con tanta instanzia richiesta, convenevole m’è [p. 123 modifica]paruto al nome vostro dedicarla. Udite adunque tutto quello che in questa materia la contessa disse, e state sana.Novella LII

Pandora, prima che si mariti e dopo, compiace a molti del suo corpo,
e per gelosia d’un suo amante che ha preso moglie ammazza il proprio figliuolo.


Io sono stata assai dubiosa, amabilissime signore e voi cortesi signori, se io deveva dire quello che ora ho deliberato narrare, perciò che tanta sceleratezza e cosí inaudita crudeltá mi pareva che a cosí nobile ed umana udienza, come è la vostra, non convenisse d’ascoltare, e meno a me di dire. Nondimeno, veggendo che del caso de la giovane cremasca tutti sète restati stupidi, e varii giudicii su ci sono stati fatti e detto che questi accidenti non ponno se non recare profitto a chi gli ascolta, sentendo lodare il bene e vituperar il male, io pur lo dirò. E se giudicato avete che quella di Crema meritasse tutto il castigo che le sante leggi a tai misfatti dánno, che giudicarete voi che meriti quella de la quale adesso io parlerò, quando la sua sceleraggine e vituperosa vita averete sentita? Quella di Crema potrebbe aver qualche colorata diffesa, perciò che, essendo giovane da marito e da l’amore del suo innamorato accecata, si lasciò ingravidare, e temendo dal padre e fratelli esser ancisa se il suo fallo si sapeva, o mai non trovar marito, si deliberò, a la meglio che poteva, celarsi. E certo il caso è degno di compassione. Ma questa che io narrerò non ebbe cagione alcuna d’incrudelire contra il figliuolo, come udirete. Onde, senza piú circa ciò tenzionare, verrò al fatto; e cominciando vi dico che non in Scizia, non tra gli antropofaghi o tra popoli barbareschi ed incogniti, ma nel piú bello de la bella ed umana Italia fu ed ancora è una giovane di nobilissimo e generoso sangue discesa, il cui nome sará Pandora, perciò che non solamente io la conosco, ma se col proprio nome la nomassi, non è qui uomo né donna che altresí non la conosca. Né crediate che per lei io mi resti di nomarla, meritando ella d’esser publicamente a suono di trombe dicelata; ma per rispetto dei parenti mi taccio, ed anco del povero marito. Essendo dunque ella una de le belle e leggiadre fanciulle del paese e la piú baldanzosa ed ardita che ci fosse, essendo d’etá di circa quindici anni, d’un paggio nodrito in casa del padre, che era buon cavalcatore, dico di cavalli, fieramente s’innamorò. Era [p. 124 modifica]il paggio di vilissimo e basso sangue, e per pietá in casa nodrito. E non avendo ella risguardo quale ella fosse e a cui si sottomettesse, piú volte con lui amorosamente si giacque. Nessuno mai di casa di quest’amore s’accorse; onde si davano insieme il meglior tempo del mondo, non passando quasi mai settimana che due e tre volte non sonassero le campane a doppio. Mentre che eglino facevano insieme amorosamente guazzabuglio, avvenne che un giovine nobilissimo e ricchissimo de la contrada, suso una festa che si faceva, molto onorevole di grandi personaggi, vide Pandora ed ella lui; di modo che, piacendo l’uno a l’altro, il giovine per via di buona somma di danari corruppe la donna che la governava, e col mezzo di lei si giacque con Pandora piú e piú fiate, ben che fra questo mezzo il ragazzo non perdesse le sue poste. Fu necessario al giovine di partirsi, avendo carco di soldati, e andare a la guerra. Avvenne in quei dí che Pandora fu dai parenti maritata. Il marito era ricco e nobile, ma quasi vecchio, ché passava i quaranta e sette anni, e Pandora deveva esser di venti in ventuno anno. Egli, che era buon cristiano e pensava aver avuto una gran ventura a prender sí bella e nobil giovane, la prese per pulcella e la teneva molto cara. Il paggio, per esser in casa di lei nodrito, prese la medesima domestichezza in casa del marito che ne l’altra aveva, ed ogni volta che la comoditá ci era, levava de le fatiche al buon vecchio, aiutandolo molto spesso a coltivare ed innacquare il giardino, a ciò non venisse, come fanno i campi senz’acqua, arido e secco. Non era ancora un anno che aveva preso marito, quando il signor Candido Giocondi si partí da Roma e venne, per certe mischie fatte, ove Pandora abitava; e veggendo la giovane bella e vaga e molto lieta e festevole, che sommamente d’esser vagheggiata godeva, finse seco l’innamorato, mostrandosi tutto per lei struggere. Ella, che volentieri cangiava soma, in pochi giorni quello a lato si mise, il quale, quanto dimorò ove Pandora stava, con lei assai spesso s’andava a giacere. Mentre che il signor Candido la donna godeva, un giovine de la terra, né molto nobile né ricco, ma grande ed appariscente, che poco avanti era di Levante tornato, di lei sí fieramente s’invaghí che giorno e notte sol di lei pensava, né mai aveva bene se non quando la mirava. Chiamavasi costui Franciotto Placido. Ella, che de l’amore di lui si accorse, quantunque dal signor Candido e dal paggio e talora dal marito fosse consolata, nondimeno volle di quest’altro le forze sperimentare, in modo che il suo molino mai non istava indarno. E per aver pur comoditá di pigliar i suoi piaceri, mostrava aver [p. 125 modifica]gran rispetto al marito, con dire che essendo attempato non bisognava che troppo s’affaticasse, e facevalo dormire per l’ordinario in una camera lontana, da quella ove ella dormiva, gran pezzo, perciò che il palazzo era grande e pieno di molte stanze. Ora occorse a Placido di partirsi da la patria, essendo di certo omicidio incolpato, ed il signor Candido, da Lione decimo pontefice massimo avendo la grazia avuta, a Roma se ne ritornò; del che Pandora meravigliosamente s’attristò, parendole che il paggio non fosse bastante a sodisfarle. Ma ella non istette troppo in questa necessitá, perciò che il gentil cavaliero, il signor Cesare Partenopeo, venne ad abitar ove Pandora albergava, e non sapendo nessuna de le pratiche che ella avesse avute, vedendola giovane, bella, ricca e piacevole, di lei ardentissimamente s’innamorò e cominciò molto spesso a farle la corte. Né guari s’affaticò, che ella medesimamente mostrò esser di lui accesa. Fu in quei dí il marito di lei astretto a far un viaggio, di modo che stette piú d’un anno fuor di casa. E se prima Pandora aveva libertá, che l’aveva grandissima, pensate che alora non mancava a se stessa di fare de la persona sua tutto quello che piú le piaceva. Il perché il Partenopeo, aitando la sua fortuna, seppe tanto fare che de la donna divenne in poco di tempo possessore, la quale amava lui, per quello che i sembianti mostravano, molto focosamente. Ma io resto assai confusa degli amori di costei, la quale d’un solo ad un medesimo tempo mai non si trovo contenta. Che chi volesse dire che di ciascuno di loro ella fosse innamorata, credo io che largamente egli s’ingannarebbe, perciò che a me pare impossibile che in un tempo la donna possa dui amanti di perfetto amore amare. Io direi pure ch’ella nessuno veramente amasse, ma che quello che ella chiamava «amore» fosse uno sfrenato appetito, perciò che, non essendo d’uno, a scelta sua eletto, contenta, quanti ne vedeva, tanti ne bramava, e a tanti del corpo suo compiaceva quanti aveva bramati. Ché se ella il primo a cui de la sua verginitá fece dono amato avesse, di lei credo io che tant’altri poi non averebbero avuta copia come ebbero. Ma da immoderata lussuria e da irragionevole appetito incitata, averebbe di continovo voluto appo sé uno, che altro mai fatto non avesse la notte e il giorno che sodisfarle, e tante volte cacciato il diavolo ne l’inferno quante le fosse stato a grado. Crederò bene che quello dei lavoratori l’era in piú grazia che di piú lena si mostrava. Il perché, provando ella che il Partenopeo era di buon nerbo, poche notti lasciava passare che seco non l’avesse. Avendo adunque egli questa amorosa pratica con Pandora, [p. 126 modifica]ella con parole e con fatti tanto ubidiente e pieghevole se gli rese e cosí soggetta, che se egli prima l’amava, molto piú dapoi se gli raddoppiò l’amore. Era in quei dí il paggio lontano, il quale, non molto dopo ritornato, rientrò anco in possesso dei beni di Pandora; ed usando queste loro pratiche troppo apertamente, il Partenopeo se n’avvide e n’entrò in tanta gelosia che egli stesso non sapeva che si fare. Deliberò piú volte di far ammazzar il paggio e levarsi questa pena dagli occhi. Il che gli era facile, ma gli pareva poi troppo gran viltade ad imbrattarsi le mani del sangue di cosí vile ed abietta persona. Fu medesimamente in pensiero di scornare publicamente Pandora di questo fatto, o vero farla ammazzare e trattarla da una donna trista. Ed essendo in questi pensieri il signor Luzio Marziano, parente di lui, capitò in quel luogo; col quale egli communicò questa sua gelosia. Il signor Luzio, che pienamente era informato de la incontinentissima e vituperosa vita di Pandora e sapeva che ella, essendo da fanciulla avvezza a vivere disonestamente, non si saperia distorre da sí malvagia costuma, come quella che forse poteva trovarsi stracca ma sazia non giá mai, lo consegliò da parente e d’amico, e gli scoperse tutte le disonestá di lei, essortandolo a levarsi da tal impresa, tanto piú che sapeva esser conchiuso il matrimonio di lui e d’una nobilissima giovanetta, figliuola del signor Eusebio Gioviale. Il Partenopeo, dando orecchie a le vere parole del signor Luzio, si partí senza dire de l’andata sua nulla a Pandora, e andò a sposar la moglie, essendo perciò di lui Pandora gravida. La quale, come seppe la partita del Partenopeo e che era ito a prender moglie, mossa da una subita donnesca còlera, entrò in tanta smania in quanta mai potesse montar donna che indebitamente s’avesse veduto dal suo amante disprezzare. E non avendo risguardo che ella non aveva al Partenopeo servata la fede, e che a chiunque richiesta d’amore l’avesse si sarebbe sottomessa, come tutto il dí faceva, da la còlera e da l’ira vinta, venne in tanto furore che quasi fu per ancidere se stessa. Erale nel capo entrato questo umore, che non le pareva di dever sopportar a modo nessuno che il Partenopeo avesse sí poco conto tenuto di lei, e su questo ella faceva e diceva le pazzie. Ora, stando su questi farnetichi e non potendo acquetarsi, avendo talvolta sentito dire che si facevano de le malie per le quali non potevano i mariti giacersi con le mogli, ella mandò in Bresciana in Val Camonica, ove si dice essere di molte streghe, per aver da quelle malefice certi unguenti ed altre diavolerie a simili effetti appropriate. E non trovando cosa [p. 127 modifica]a suo proposito, parlò con un frate che aveva voce d’esser grandissimo incantatore e far mirabilissimi effetti. Era il frate conventuale d’una de le religioni mendicanti, uomo che in sua gioventú aveva fatto d’ogni erba fascio; il quale, inteso il desiderio de la donna, e sperando cavarne buon profitto, le disse cosí: – Signora mia, voi mi richiedete una gran cosa e molto difficile a fare. Nondimeno io, che desidero farvi cosa grata, non istimerò difficultá che sia, per quanto sia difficile. Ma perché il nostro guardiano ci tiene molto stretti ed a pena ci dá il mangiare, converrá che voi provediate d’alcuni pochi dinari che per comprar alcune cose odorifere da fare le soffumigazioni e incensamenti bisognano. – La donna gli diede per la prima dieci scudi e gli promise gran cose, se faceva che il desiderato effetto seguisse. Messer lo frate, avuti questi danari, spese circa venticinque soldi, e con teste d’uomini giustiziati cominciò a fare suoi incantesimi; ed oltra questo, diede anco a la donna certe candele consacrate, con alcune orazioni, le quali ella deveva dire sette matine nel levar del sole, volta verso oriente. La donna fece il tutto diligentemente. Cosí anco si crede che facesse messer lo frate. Ma eglino puotêro a posta loro gracchiare e fare de le incantazioni, che non seguí effetto nessuno di quello che il frate aveva promesso, perciò che egli diceva che il dí seguente dopo i sette giorni nei quali l’orazioni erano dette, che verrebbero lettere dal Partenopeo, per le quali egli a Pandora domandarebbe perdonanza, e che questo sarebbe il segno che egli tornarebbe a l’amor di lei e non potria star con la moglie. Passarono gli otto e i dieci dí, e mai non venne né lettera né ambasciata. Come Pandora vide che l’incantesimo non aveva giovato e che del Partenopeo ella era gravida, ed erano giá sei mesi passati che aveva concetto, deliberò per viva forza il frutto che di quello in ventre portava cacciarne fuori, parendole non istar bene mentre radice di lui seco aveva. Ella cominciò a ber acque distillate per tal effetto, e mangiar non so che cose che averebbero fatto stomaco ai porci. Ma niente che facesse le profittava, perciò che il corpo tuttavia cresceva e la creatura nel ventre si faceva sentire. Ella, che ad ogni modo voleva disperdere, sí per non lasciar in sé seme del Partenopeo che acerbissimamente odiava, ed altresí ché dubitava che in quel mezzo il marito non venisse e la ritrovasse gravida, essendo giá piú di nove mesi che egli non era stato a casa, veggendo che le medicine che per bocca aveva prese ed il cavarsi di sangue due e tre volte non la facevano disperdere, pensò di tentar altro modo, e, con periglio de la vita [p. 128 modifica]propria, la picciola creatura, e non pienamente formata, farne per viva forza uscire, avvenirsene poi ciò che si volesse. Fatta adunque questa mala deliberazione, chiamò un dí Finea, sua cameriera secreta, e di tutte le sue disonestá consapevole, e le disse: – Finea, fatti dar il bacile d’argento e vieni di sopra a la camera de la loggia. – Il che Finea fece, e giunta in camera, per commessione de la padrona, col chiavistello fermò benissimo l’uscio. Pandora alora cosí le disse: – Tu sai, Finea mia, come quel traditore di Partenopeo m’ha villanamente abbandonata; il che m’è di grandissimo cordoglio cagione. E perché di lui so che sono gravida, non voglio che mai vantar si possa che di me egli abbia fígliuoli. Onde, non m’avendo in cosa alcuna giovate le medicine che ho preso, e potendo di leggero occorrere che mio marito in breve verrá, io voglio per forza disperdere. Perciò monterai su quella cassa, ed io qui per terra mi stenderò: tu mi salterai a dosso su le reni, e non aver rispetto nessuno, ché cosí bisogna fare. – Fece Finea quanto la padrona l’aveva comandato piú di sette volte, sempre su le schiene a Pandora saltando, che meraviglia mi pare che non sfilasse. Ma questo non facendo la creatura uscire, Pandora, arrabbiata e indiavolata, da alto luogo piú volte a basso saltò, e, con le pugna lo scolorato ventre fieramente percotendo, tanto tanto si contorse, tanto saltò e tanto si dimenò, che sentí l’infelice creatura distaccarsi e voler uscire. E da Finea aitata, mandò fuori il mal concetto figliuolo, il quale, palpitante, essa Finea nel bacile che recato aveva raccolse. Come la sceleratissima Pandora si sentí disgravare del peso del partorire e vide il pargoletto bambino dentro il bacile, con atroce e crudel vista quello risguardando ed il capo d’ira e sdegno crollando, disse: – Mira, mira, Finea mira, come giá questo bestiuolo cominciava a rassimigliar quel disleale e traditore di suo padre. Non vedi come queste fattezze rassembrano a quelle? Egli certamente sarebbe stato in ogni cosa simile a quel perfido ed ingrato di tanto amore, come io l’ho portato. Ma perché non mi lece aver cosí colui, come ho questo? perché non è egli qui con sí poco potere, come ha quest’altro? Io sfogherei pure la giusta mia còlera sovra di lui, e tal vendetta prenderei dei casi suoi, quale mai non s’udí. Io gli darei certamente tal castigo, che saria essempio agli altri di non ingannar le poverelle donne, che troppo di questi assassini si fidano. Ma poi che di lui vendicar non mi posso e farne quello strazio ch’io vorrei, sovra costui che è qui, che da lui fu ingenerato, caderá la pena. Egli porterá [p. 129 modifica]la penitenza de l’altrui peccato e, se non in tutto, almeno in qualche parte sodisfará a le mie voglie. – Questo dicendo, la crudelissima, non veramente madre, ma infernale e furiosa Erine, con quelle sceleratissime mani prese il povero ed ancor palpitante bambino e, senza dargli battesimo, in terra col capo lo percosse. Poi pigliata ne la destra mano una de le gambe del morto figliuolino e l’altra ne la sinistra, furiosamente sbarrò le braccia, e come arrabbiato veltro fece due parti di quel picciolo corpicello, tuttavia iratamente dicendo: – Oimè, perché non posso io cosí smembrare suo padre? perché non posso di lui far agli occhi miei cosí giocondo spettacolo come faccio di questa carogna? – Né di tanto questa nuova Medea, questa dispietata Progne contenta, gettò in terra le lacerate membra e quelle coi piedi lietamente calpestando, fece in forma d’una schiacciata. Indi, piú minutamente lacerandolo, ne fece mille pezzi, e conosciuto il picciolo core, quello messosi in bocca, con i denti di masticarlo sostenne. E non essendo ancora di cosí ferma e barbaresca crudeltá sazia, né avendo a pieno presa quella vendetta che voleva, sapendo esser in casa un can mastino molto grosso, mandò giú Finea e fece condurre il cane di sopra. Venuto il mastino in camera, la sceleratissima Pandora di sua mano a brano a brano tutto il figliuolo diede al cane, e sofferse lietamente di veder mangiare le carni sue, il figliuolo proprio, ad un mastino. Io mi sento per pietá di cosí orrendo caso, di tanta inaudita crudeltá, di non mai piú pensata sceleraggine, di cosí mostruosa vendetta venir meno, e giá le cadenti lagrime la voce m’impediscono. – A questo si tacque la signora contessa, non potendo per il dirotto pianto parlare, ed anco quasi tutta la compagnia, mossa a compassione, lagrimava. Ora, come la contessa ebbe rasciugate le lagrime e vide che ciascuno attendeva ciò che ella volesse piú dire, con la voce mezza lagrimosa, cosí disse: – Assai per ora tutti di brigata questa crudelissima crudeltá abbiamo pianto, ben che, a dire il vero, assai e quanto si conviene pianger non si possa e meno io vaglia di cosí fiera donna, anzi pure inaudito, orrendo e vituperoso mostro, quanta e quale fosse la bestiale crudeltá con parole dimostrarvi. Era di poco passata l’ora de la nona, quando la micidial femina fece al mastino le smembrate carni divorare, ed essendo in lei per la presa vendetta alquanto l’ira, che contra Partenopeo aveva, raffreddata, cominciò a sentire qualche dolore, sí per la violenza del parto fuor di tempo, come anco per le percosse e salti che su le reni aveva sofferte; onde, sentendosi lassa, si mise in letto a riposare. E cosí se ne stette [p. 130 modifica]fin a l’ora del vespro, sempre con Finea ragionando. Era quel dí giorno di festa e ad una de le principali chiese de la terra sí faceva gran solennitá. E mostrando la malvagia femina una estrema contentezza e un indicibile piacere di cosí biasimevole e vituperosa opera che fatta aveva, e con Finea gloriandosene come se avesse un gran regno acquistato, quando sentí sonare il vespro e che le sovvenne che alora tutte le donne e gentiluomini de la terra sarebbero a quella chiesa, ella si levò e si vestí; e fatto metter in ordine la carretta, che tiravano quattro bravi corsieri, su vi montò con le sue donne, e con un viso tutto allegro e ridente andò, quasi trionfando, per la terra: poi a la chiesa con le altre si ridusse. Quivi in compagnia d’altre gentildonne a ragionare si mise, fin che fu tempo di partirsi e seco alcune di quelle a cena condusse. Io non so che dirmi di questo diavolo incarnato, e quanto piú ci penso, piú resto stordita. Ogni altra donna, che disperda in qual modo si sia, sta almeno nove e dieci giorni, e molte fiate piú, prima che riavere si possa, ed in quel tempo si ciba con manicaretti delicatissimi; e questa fiera alpestra, che per forza si fece disperdere, quel giorno medesimo montò in carretta e se n’andò a la festa. Né crediate che dopoi ella se ne stesse senza amanti: ella molti altri ne ebbe, e fece anco un altro segnalato tratto. Ma perché, in qualunque modo egli si narrasse, si scoprirebbe di necessitá la persona, io per adesso me ne rimarrò, non volendo a patto nessuno a’ suoi parenti, cosí di lei come del marito, recare con mie parole infamia. Bastivi per ora quanto ve n’ho detto. Né sia poi alcuno che presuma biasimare il sesso nostro con dire: – La tale ha fatto e detto. – Biasimi chi vuole la Nanna e la Pippa e chi fa il male, e particolarmente vituperi qual si sia, se cosa ha fatto che meriti biasimo, ma non morda il sesso, ché se Giuda tradí Cristo, non sono per questo tutti gli uomini traditori. Se Mirra e Bibli furono ribalde, non sono l’altre cosí. Il sesso maschile e de le femine è come un orto che fa erbe d’ogni sorte. Quando tu sei nel giardino, cògli le buone e non dir male de l’orto. Messer Giovanni Boccaccio, perché una donna non lo volle amare, compose il Labirinto, ma pochi ci sono che lo leggano. Deveva dir male di quella e lasciar l’altre. E chi sa che quella donna non avesse cagione di non amarlo? Intendo anco che il mio compatriota, il poeta carmelita, ha fatto una egloga in vituperio de le donne, ove generalmente biasima tutte le donne. Ma sapete ciò che ne dice Mario Equicola, segretario di madama di Mantova? Egli afferma che il nostro poeta era innamorato d’una bella giovane e che [p. 131 modifica]ella non lo volle amare, onde adirato compose quella maledica egloga. Ma, per dirvi il vero, la buona giovane aveva una grandissima ragione, perché il poeta, – perdonimi la sua poesia, – era brutto come il culo e pareva nato dei Baronzi.


Il Bandello al molto magnifico signore
il signor Giovanni Castiglione salute


Io ritrovo che il nostro divinissimo poeta Vergilio fu un savio uomo e in ogni sorte di dottrina molto eccellente. E perché entrare nel cupo e largo mare de le sue lodi sarebbe voler dire che il sole nel ciel sereno luce e che la neve è candida, io me ne rimarrò; e tanto piú quanto che da molti sono state in gran parte, se non quanto merita almeno quanto s’è potuto, celebrate. Ma chi potrá a pieno lodare giá mai quella sí aurea e divina sentenza, quando disse: – Che cosa è al mondo, che tu, o cupidigia essecrabile d’oro, non sforzi gli uomini a fare? – E certamente egli disse il vero, perciò che l’appetito disfrenato d’avere astringe i miseri mortali a commetter mille enormi vizii. Quante maritate si trovano, che, abbagliate da lo splendore de l’oro, rompono la fede ai mariti? E quanti, non ardisco dire uomini quanti, dico, mariti, i quali, accecati dal lume di quel folgorante metallo, vendeno le proprie mogli e per ogni prezzo le figliuole dánno a vettura? Quell’altro scelerato, corrotto per danari, ammazza uno che mai non l’offese. Bernardino di Corte, da picciolo fanciullo da Lodovico Sforza nodrito e di molte degnitá e ricchezze fatto grande, senza occasione alcuna se gli scopre traditore, e per alquante migliaia di scudi vendette l’inespugnabil castello di Milano a Lodovico decimosecondo re cristianissimo. Battaglione anco, dal detto signor duca Lodovico Sforza di bassa condizione levato in alto e fatto castellano del fortissimo castello di Cremona, per ingordigia d’oro ed esser chiamato gentiluomo veneziano, quello diede a la Signoria di Vinegia. Infiniti altri sono che, tratti da la gola d’aver danari, hanno commesso sceleratissime sceleraggini. E di questo ragionandosi in casa del molto vertuoso e dotto messer