Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XXXIV
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Assai più proprio de la vertù è da tutti i savii del mondo riputato il far beneficio altrui e riparar ai danni d’altri, che ricever beneficio ed esser nei bisogni suoi soccorso. E come assai più difficile e rara cosa è allargar la mano e donar via il suo che non è pigliar ciò che n’è donato, così assai meno son quelli che donano che non saranno quelli che ricevano. Onde si può dire la vera liberalità consister più nel ben donare che nel ricevere. La quale liberalità consiste per modo di mediocrità circa le ricchezze, o vero intorno al piacere che si prende nel donare o nel ritener le cose con le quali si può altrui far giovamento, e per le quali più si conosce l’atto del liberale; vertù nel vero sempre lodevole, che ha luogo tra il prodigo e l’avaro. E quando si devesse travarcare dal mezzo e cascar in uno degli estremi, io porto ferma openione che sia assai minor male traboccar ne la prodigalità che ne l’avarizia: perciò che il più de le volte il prodigo, donando fuor di modo ed ove non deve, quando si vedrà scemar i beni proprii, aprirà gli occhi e facilmente s’accosterà al mezzo, divenendo liberale; ove l’avaro quanto più invecchierà, tanto più in lui accrescerà l’avarizia e mai non ritornerà al mezzo. Fu adunque sempre lodevol cosa la liberalità, e tanto più lodevol quanto che si truova in persone che meno sogliono usar de la liberalità, perciò che dà loro la natura di tener ordinariamente più de l’avaro che del liberale. E queste sono per il più le donne, le quali non sapendo generalmente guadagnar troppo in grosso, temono che non manchi loro il modo di viver agiatamente come vorrebbero, e per questo appetiscono più e sono meno liberali. Nondimeno se ne trovano di quelle che hanno il cor generoso e magnifico, e di gran lunga avanzano gli uomini, le quali quanto siano degne d’esser commendate e messe in cima d’ogni loda, coloro che conoscono di quanta lode e gloria è degna la vertù lo sanno benissimo. Ora, se ne l’età nostra ci è stata donna alcuna che abbia per propria vertù meritato il titolo di liberale, credo io che la felice memoria de la signora Bianca Bentivoglia vostra onorata madre sia stata una di quelle e forse la principale. La quale mentre che visse attese largamente a donare ed usar senza fine cortesie a ciascuna persona. E tra l’altre cose, non si sa egli che la casa vostra fu publico ricetto di chiunque per Modena passava, o fosse d’Italia od oltramontano? Ma chi tacerà le generose e liberali accoglienze che ella fece a Giovanni de’ Medici cardinale, che poi fu Leone decimo, quando egli fuggì di prigione, essendo stato preso a la rotta memorabile di Ravenna e ritornando a Roma? Capitò il cardinale senza servidori a senza comodità alcuna a Modena, e conoscendo la cortesia e liberalità di vostra madre, se ne venne di primo volo a casa vostra, ove fu con sì benigne accoglienze raccolto che vostra madre lo rimise in arnese del tutto, vestendolo onoratamente da cardinale, dandogli danari, cavalcature, muli ed una credenza di vasi d’argento molto ricca e bella. Essendovi di quelli i quali di queste sue smisurate cortesie la riprendevano, dicendole che mettesse mente che ella era carca di figliuoli, avendo otto maschi e due femine, e che deveva moltiplicar loro il patrimonio e non così prodigamente buttarlo via; ella prudentemente rispondeva loro che non voleva in modo alcuno mancar d’esser cortese e liberale ove poteva, perciò che sperava in Dio che un dì solo una de le sue cortesie produrrebbe tal frutto che ristorarebbe tutte l’altre, e tutto quello che si donava era un perfetto acquisto, accumulando tutto il dì amici ai suoi figliuoli. E così sempre perseverò di bene in meglio. Onde si può dire che ella fu profetessa, perciò che Giovanni de Medici cardinale, come fu fatto papa, ricordevole dei beneficii ricevuti, la mandò a pigliare ed onoratamente a Roma la fece condurre, ove le diede di continovo una onesta pensione, le fece un figliuolo cardinale de la Santa Chiesa con grossa rendita, e diede onorati titoli ne la milizia al conte Guido, ricca e nobilissima moglie al conte Annibale ed il capitanato de la guardia de la sua persona, e molti altri beneficii e grazie a casa vostra. Le cui vestigie imitando, Clemente settimo, che anch’egli era da lei stato raccolto e nei bisogni aiutato, attese sempre a la grandezza di casa Rangona. Ora ragionandosi a la presenza di vostra sorella la signora Gostanza Fregosa, qui in Bassens, de le cortesie che vostra madre usava, vi si ritrovò Giovanni di Nello fiorentino che era lungo tempo praticato ne l’isola de l’Inghilterra, il quale a simil proposito narrò una istoria che assai agli ascoltanti dilettò. Parendomi che meritasse d’esser annoverata con l’altre mie, poi che io l’ebbi scritta, le posi il nome vostro per scudo. E così a voi la mando a dono. State sano.
Ne la famiglia nobile ed antica dei Frescobaldi in Firenze fu non sono molti anni un Francesco, mercadante molto leale ed onorevole, il quale, secondo la costuma de la patria, essendo assai ricco, trafficava in diversi luoghi e faceva di gran faccende, e quasi per l’ordinario dimorava in Ponente, in Inghilterra, e teneva la stanza in Londra, ove viveva splendidissimamente ed usava cortesia assai, non la veggendo sì per minuto come molti mercadanti fanno che la contano fin a un picciolo quattrino, come intendo dire che fa Ansaldo Grimaldo genovese che tien conto fin d’un minimo foglio di carta e d’un palmo di cordella da legar i pacchetti de le lettere. Avvenne un giorno che essendo Francesco Frescobaldi in Firenze, se gli parò dinanzi un povero giovine e gli domandò elemosina per l’amor di Dio. Veggendolo il Frescobaldo sì mal in arnese e che in viso mostrava aver del gentile, si mosse a pietà, e tanto più quanto che lo conobbe esser inglese. Onde gli domandò di che contrada di oltra monti fosse. Egli gli rispose che era inglese, e chiedendogli alcune particolarità, il Frescobaldo, d’Inghilterra, come colui che assai pratico n’era, il giovine molto accomodatamente al tutto sodisfece dicendogli: – Io mi chiamo Tomaso Cremonello, figliuolo d’un povero cimatore di panni, che fuggendo da mio padre son venuto in Italia col campo dei francesi che è stato rotto al Garigliano, e stavo con un fante a piedi, portandoli dietro la picca. – Il Frescobaldo lo menò in casa molto domesticamente e quivi alcuni dì se lo tenne per amor de la nazione inglese, da la quale egli aveva ricevuti di molti piaceri; lo trattò umanamente, lo vestì e, quando volse partirsi per ritornar ne la patria, gli diede sedici ducati d’oro in oro fiorentini ed un buon ronzino. Il giovine veggendosi esser stato messo in arnese sì bene, rese al Frescobaldo quelle grazie che seppe le maggiori, se n’andò ne l’isola a casa. Egli, come è ottimo costume di quasi tutti gli oltramontani, sapeva leggere e scriveva al modo d’inglesi molto accomodatamente. Era poi giovine di grandissimo spirito, avveduto, pronto ai partiti e' 'che si sapeva ottimamente con gli altrui voleri accomodare, sapendo, quando gli pareva esser a proposito, dissimular le sue passioni meglio che uomo del mondo: era poi quello che sopportava pazientemente tutte le fatiche corporali. Di modo che essendosi acconcio per consegliero col cardinale Eboracense, prelato di grandissima autorità, in poco tempo appo quello crebbe in ottima riputazione e da lui era molto adoperato in tutti i maneggi. Era alora il cardinale in grandissimo credito appo il re inglese a governava tutta l’isola, tenendo una corte così grande e di tanta nobiltà che sarebbe bastato a un potentissimo prencipe. Onde avvenne che il cardinale mandò più volte il Cremonello a parlar al re di affari di grandissima importanza, e sempre il Cremonello fece sì bene l’ufficio suo e sì seppesi adattare ne la domestichezza del re, che egli cominciò a fargli buon viso, parendogli che fosse uomo da governar ogni grandissimo maneggio. Aveva alora il re col conseglio del cardinale repudiata Caterina sua moglie, figliuola di Ferrando catolico re de le Spagne e sorella de la madre di Carlo d’Austria imperador romano, con speranza che il papa devesse confermar il libello del dato repudio e separar il matrimonio loro, per quelle ragioni che il re al detto repudio pretendeva. Ma il papa, non ritrovando il repudio giuridicamente fatto, non lo volle confermare; il perchè il cardinale Eboracense venne in disgrazia del re e fu licenziato da la corte. Partito che fu di corte, il cardinale diminuì la sua famiglia, tenendo picciolo numero di gente appo sè, ed ogni dì più si alleggeriva di servidori. Il re, ricordatosi del Cremonello che già tanto gli sodisfaceva, lo fece domandare e gli disse: – Cremonello, come tu vedi, il cardinale s’è ritirato e non ha più bisogno di tanti servidori come teneva quando maneggiava le cose del mio regno, e tu ora sei scioperato, non avendo che negoziar per lui. Mi vuoi tu servire? – Signore, – rispose egli, – io ho servito il cardinale sempre fedelissimamente ed il medesimo farò anco voi, se degnate volervi servir di me. – Or sta bene,– disse il re, – così vo’ che tu faccia, perciò che tale è la speranza che ho dei fatti tuoi. – Con questo il re lo fece suo principal segretario, prevalendosi di lui nei più importanti bisogni che occorrevano, nei quali egli sì bene si diportò che il re gli diede in guardia il suo suggello privato, di maniera che pochi nel regno erano che appo il re quello potessero che poteva il Cremonello, perchè al parer del re egli valeva tutti quelli che in corte erano. Ora perciò che non pareva a quella ceca de la Fortuna aver fatto assai d’aver levato dal basso de la terra il Cremonello e levatolo in alto a tanta grandezza, volle anco alzarlo molto più e fece che il re lo creò contestabile del regno, degnità suprema ed a la quale nessun’altra dopo il re s’agguaglia. Fatto che fu contestabile, il re tutto il governo del regno in mano gli diede, di modo che il Cremonello venne in tanta altezza che era cosa incredibile. Cresciuto ch’egli fu a tanta grandezza, si scoperse nemico a spada tratta di tutta quanta la nobiltà de l’isola, ed ove poteva a qualche gentiluomo nuocere, non mancava, e se il re alcuno ne pigliava in odio, egli aggiungeva stipa al fuoco. In quei dì il re si deliberò, vivendo ancora Caterina di Spagna sua moglie, prenderne per ogni modo un’altra, e non possendo per via alcuna impetrar la dispensa dal papa, si dispensò da se stesso. Onde nacquero disordini infiniti in quel reame, e del tutto si smembrò da la catolica santa madre Chiesa romana, di tal modo che infiniti frati e monachi, non volendo consentir a questo suo appetito, furono decapitati, e morti assai gentiluomini e baroni. Furono anco decapitati molti grandi prelati di santissima vita, ed il fatto andava di tal maniera che pochi giorni passavano che il capo a chi si fosse non si mozzasse, rimanendo quasi tutta la nobiltà d’Inghilterra estinta, essendo assai più i nobili che gli uomini di basso legnaggio perseguitati. Di tutti questi mali era general openione' 'che il Cremonello fosse l’incitatore, come colui che senza fine odiava la nobiltà e cercava che tutta fosse estinta, conoscendo se stesso, che di vilissimo sangue era procreato. Ma io non mi mossi a dire per volervi ora metter innanzi agli occhi le crudeltà ed omicidii che fuor di ragione in Inghilterra si fecero; ma cominciai questa novella per narrarvi ciò che al Frescobaldo de la sua cortesia usata al Cremonello avvenne. Dico adunque che in quei dì che il Cremonello era padrone e governatore de l’isola, che Francesco Frescobaldo si ritrovava in Italia ove, come spesso a’ mercadanti interviene, avendo patiti molti disastri e di gran danni ne la perdita de le sue mercadanzie, restò molto povero, perciò che essendo uomo leale e da bene pagò tutti quelli a cui era debitore e non puotè ricuperar ciò che dagli altri gli era devuto. Veggendosi egli ridutto a così povero stato e fatto i suoi conti e benissimo calculati, trovò che in Inghilterra aveva crediti per più di quindici migliaia di ducati; onde si deliberò passar quindi e veder di ricuperar più che gli fosse possibile, e mettersi a viver il rimanente de la sua vita quietamente. Così con questo pensiero passò d’Italia in Francia e di Francia in Inghilterra, e si fermò in Londra, non gli sovvenendo perciò mai del beneficio che egli fatto già in Firenze aveva al Cremonello; cosa veramente degna d’un vero liberale che de le cortesie, che altrui fa, memoria mai non tiene, sculpendo in marmo quelle che riceve per pagarle ogni volta che l’occasione se gli offerisce. Attendendo adunque in Londra a negoziar i fatti suoi e caminando un giorno in una contrada, avvenne che il contestabile passava anch’egli per la strada medesima, venendo a l’incontro del Frescobaldo. Così subito che il contestabile lo vide e gli ebbe gli occhi fermati nel viso, si ricordò costui certamente esser quello dal quale così gran cortesia aveva in Firenze ricevuta, ed essendo a cavallo dismontò, e con meraviglia grandissima di quelli che seco erano, – chè v’erano più di cento a cavallo dei primi del regno che gli facevano coda, – l’abbracciò con grande amorevolezza e quasi lagrimando gli disse: – Non sète voi Francesco Frescobaldo fiorentino? – Sì sono, signor mio, – rispose egli, – e vostro umil servidore. – Mio servidore, – disse il contestabile, – non sète già voi nè per tal vi voglio, ma bene per mio grande amico, avvisandovi che di voi ho giusta ragione di molto dolermi, perchè sapendo voi ciò che io sono e dove era, devevate farmi sapere la venuta vostra qui, chè certamente io averei pagato qualche parte del debito che confesso aver con voi. Ora lodato Iddio che ancor sono a tempo. Voi siate il benissimo venuto. Io vado ora per affari del mio re e non posso far più lunga dimora vosco, e m’averete per iscusato. Ma fate per ogni modo che in questa matina vegnate a desinar meco, e non fate fallo. – Così rimontò il contestabile a cavallo e se n’andò in sorte al re. Il Frescobaldo, partito che fu il contestabile, s’andò ricordando che cotestui era quel giovine inglese che egli già in Firenze in casa sua raccolse, a cominciò a sperar bene, pensando che il mezzo di così grand’uomo molto gli giovarebbe a ricuperar i suoi danari. Essendo poi l’ora di desinare, se n’andò al palazzo del contestabile, a quivi nel cortile poco attese che egli rivenne. Il quale, smontato che fu, di nuovo amicabilmente riabbracciò il Frescobaldo e, vòlto a l’armiraglio e ad altri prencipi e signori che con lui erano venuti a desinare, disse: – Signori, non vi meravigliate de le amorevoli dimostrazioni che io faccio a questo gentiluomo fiorentino, perchè queste sono parte di pagamento d’infiniti oblighi che io conosco e confesso di avergli, essendo nel grado che sono per mezzo suo. E udite come. – Alora a la presenza di tutti, tenendo sempre per mano il gentiluomo fiorentino, narrò loro in che modo era capitato a Firenze e le carezze che da lui aveva ricevute. E così tenendolo sempre per mano, se ne salirono le scale, e giunti in sala si misero a tavola. Volle il contestabile che il Frescobaldo' 'gli stesse appresso e sempre l’accarezzò amorevolissimamente. Desinato che si fu e quei signori partiti, volle il contestabile saper la cagione per la quale era il Frescobaldo ritornato a Londra. Narrògli alora tutta la sua disgrazia il Frescobaldo e che non gli essendo rimaso, da la casa in fuori in Firenze ed un podere in contado quasi niente se non quei quindicimila ducati che in Inghilterra deveva avere a forse duo mila in Ispagna, che per ricuperargli s’era ne l’isola trasferito. – Or bene sta, – disse il contestabile. – A le cose passate, che fatte non sieno non si può trovar rimedio: ben mi posso con voi dolere degli infortunii vostri, come con il core faccio. Al rimanente si darà tal ordine che voi ricuperare tutti i vostri danari che qui devete avere, e non vi si mancherà di quello che io potrò, assicurandovi che la cortesia che m’usaste non mi conoscendo altamente, mi vi rende di modo ubligato che sempre sarò vostro e di me e de le mie facultà potrete disporre come io proprio. E non lo facendo, il danno sarà vostro. Nè più farò offerta alcuna, parendomi che sarebbe superflua. Basti che questo vi sia ora per sempre detto. Ma leviamoci e andiamo in camera. – Ove il contestabile, serrato l’uscio, aperse un gran coffano pieno di ducati, a pigliandone sedici gli diede al Frescobaldi e gli disse: – Eccovi, amico mio, i sedeci ducati che mi donaste al partir di Firenze; eccovi gli altri dieci che vi costò il ronzino che per me comperaste, ed eccovene altri dieci che spendeste in vestirmi. Ma perchè, essendo voi mercadante, non mi par onesto che i vostri danari debbiano esser stati tanto tempo morti, ma s’abbiano guadagnato come è il costume vostro, eccovi quattro sacchetti di ducati, in ciascuno dei quali sono quattro mila ducati. Voi in ricompensa dei vostri ve gli pigliarete, godendogli per amor mio. – Il Frescobaldo ancor che da grandissime ricchezze fosse caduto in gran povertà, nondimeno non aveva perduto la sua generosità d’animo e non gli voleva accettare, ringraziandolo tuttavia di tanta sua cortesia. Ma a la fine astretto per viva forza dal contestabile, li accettò, il quale volle che gli desse tutti i nomi in nota dei suoi debitori; il che il Frescobaldo fece molto volentieri, mettendo il nome dei debitori e la somma che gli devevano. Avuta questa cedula, chiamò il Cremonello un suo uomo di casa a gli disse: – Guarda chi sono costoro che su questa lista sono scritti, e fa che gli ritrovi tutti, siano dove si vogliano in questa isola, e farai loro intendere che se fra quindici giorni non hanno pagato tutto il lor debito, che io ci porrò la mano con lor dispiacere e danno, e che facciano pensiero che io sia il creditore. – Fece l’uomo il comandamento del suo padrone molto diligentemente, di maniera che al termine statuito furono ricuperati circa quindici mila ducati. E se il Frescobaldo avesse voluto gli interessi che in così lungo tempo erano corsi, tutti gli averebbe avuti fin ad un minimo denaio. Ma egli si contentò del capitale nè volse interesse alcuno; che di più in più gli acquistò credito e riputazione appresso tutti, massimamente sapendosi già da ciascuno de l’isola il favore che egli aveva appresso la persona del contestabile. In questo mezzo fu di continovo esso Frescobaldo commensale del Cremonello, il quale di giorno in giorno si sforzava d’onorarlo quanto più poteva. E desiderando che di continovo egli rimanesse in Londra, piacendogli molto la pratica sua, gli offerse di prestargli per quattro anni sessanta mila ducati, a ciò che mettesse casa e banco in Londra e gli trafficasse, senza volerne profitto d’un soldo, promettendogli oltra questo ogni favore ne le cose de la mercadanzia. Ma il Frescobaldo, che desiderava di ritirarsi a casa, e viver il resto de la sua vita in quiete e attender solamente a se stesso, infinitamente lo ringraziò di tanta suprema cortesia, e con buona grazia del contestabile, rimessi tutti i suoi danari in Firenze, a la desiderata patria se ne ritornò, dove essendo ritornato assai ricco si mise a viver una vita quietissima. Ma poco tempo visse in quiete,' 'perchè quell’anno istesso che da Londra era partito, in Firenze se ne morì. Che diremo noi de la gratitudine e liberalità di Cremonello? Certamente quanto a quello che col Frescobaldo operò, mi par degno di grandissima commendazione, il quale se così avesse amata la nobiltà del suo paese come mostrava amar i forestieri, forse che ancora sarebbe vivo. Ma egli odiò troppo la nobiltà d’Inghilterra, che al fine fu cagione de la sua morte. E poi che altro non ci è che dire, io dirò pur come morio. Egli stette parecchi anni in grazia appo il re, ed accecato dal favore era molto facile a far mozzar capi a questi e a quelli, e quanto erano più nobili e grandi tanto più volentieri mostrava il suo potere sopra loro, o fossero di chiesa o fossero secolari. Or avvenne che desiderando egli far morire il vescovo di Vincestre non so per quel cagione, che essendo nel conseglio privato del re, gli disse che si devesse andar a render prigione per parte del re ne la Torre, luogo ove mai nessuno entrò che non fosse ucciso, per quello che dicono i paesani. Smarrito il vescovo di tal comandamento, rispose che non sapeva per qual cagione se gli facesse questo e che voleva prima parlar al re. – Voi non potete, – disse il contestabile, – parlargli. Andate pur ove io vi dico, – e comandò a quattro dei suoi che lo menassero prigione. E quivi furono a le contese. Il duca di Suffoco, nemico del Cremonello, andò in quello a parlar al re che era in una camera vicina, e gli disse la contesa che era tra il contestabile e il vescovo. Il re, che nulla ne sapeva, mandò un suo gentiluomo di camera a domandar il vescovo. Sentendo questo, il contestabile forte si sdegnò e andò a casa, ove stette quattro dì che non si vide in corte nè in conseglio. Il vescovo, presentatosi al re, disse che non sapeva d’esser colpevole e che era in mano di quello, il quale facesse far di lui giustizia se aveva fallito. Veggendo il re che il Cremonello non compariva in corte e che niente si trovava contra il vescovo, lo liberò e disse, che da tutta la corte fu sentito: – Io vo’ pur veder chi saperà più tener la sua còlera, o io che sono re o Tomaso Cremonello. – In questo mezzo conoscendosi il re esser turbato, gli furono date di molte querele contra il contestabile, e si trovò che di molti misfatti era colpevole e massimamente circa il fatto de la giustizia. Passati che furono quattro dì, andò il contestabile al conseglio privato, ed essendo serrato il luogo ove era congregato il conseglio, il re mandò un cameriero a dire a la famiglia del Cremonello come egli quella matina desinava col re e che andassero a desinare e poi tornassero. Partirono tutti, e il re fece venir i suoi arcieri e star dinanzi a la porta del conseglio. Il quale finito che fu, il contestabile uscì e fu preso dagli arcieri e dettogli che era prigione del re. E così fu menato a la Torre e ben guardato. Si fece il processo ed indi a pochi dì gli fu per commissione del re ne la piazza del castello una matina mózzo il capo. Che se egli avesse saputo por il chiodo a la rota de la Fortuna, cioè viver da gentiluomo e non esser così ingordo del sangue umano, forse che averebbe avuto megliore e più onorato fine che non ebbe.
Spesse fiate sogliono avvenire casi così strani che, quando poi sono narrati, par che più tosto favole si dicano che istorie, e nondimeno son pur avvenuti e son veri. Per questo io credo che nascesse quel volgato proverbio: che «il vero che ha faccia di menzogna non si deverebbe dire». Ma dicasi ciò che si vuole, ch’io sono di parer contrario, e parmi che chiunque prende piacer a scriver i varii accidenti che talora accader si veggiono, quando alcuno gliene vien detto da persona degna di fede, ancor che paia una favola, che per questo non deve restar di scriverlo, perciò che, secondo la regola aristotelica, ogni volta che il caso è possibile deve esser ammesso. Per questo io che per preghiere di chi comandar mi poteva mi son messo a scriver tutti quegli accidenti e casi che mi paiono degni di memoria e dai quali si può cavar utile o piacere, non resto d’affaticar la penna, ancora che le cose che mi vengono dette paion difficili ad esser credute. Onde al presente una novella ho deliberato annotare, la quale parrà a chi la leggerà molto strana. Era madama Gostanza Rangona e Fregosa mia padrona a Bassens, ove già da molto tempo se ne sta, invitata da l’amenità de l’aria. Questo luglio prossimamente passato ci venne madama Maria di Navarra, la quale sovente ci suol venire e diportarvisi; onde un dì, parlandosi di varie cose, ella narrò a madama nostra alora e a tutti noi altri che di brigata eravamo, come un gentiluomo ignorantemente prese per moglie una sua figliuola e sorella: il che parve a tutti stupendissimo e miserabil accidente. Avendo adunque io descritta questa istoria secondo che essa madama Maria narrò, quella al nome vostro ho intitolata, a ciò che essendo poco che una mia novella mandai al signor Marco Antonio Giglio, tanto nostro, voi anco ne abbiate un’altra. State sano.