Nella nebbia/Una istitutrice
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UNA ISTITUTRICE.
Gli ultimi giorni tutto era stato messo sotto sopra per gli esami, per l’accademia finale, per l’esposizione dei lavori. Il bell’ordine, la vantata tranquilità, di cui la direttrice andava superba, erano messi in fuga dal via vai dei professori, delle ripulitrici, dei facchini; più ancora da quell’agitazione nervosa che s’impadronisce verso la fine dell’anno di tutta la scolaresca, ma specialmente delle fanciulle che devono abbandonare il collegio per sempre.
La ressa degli invitati poi era stata enorme per l’accademia. Si sapeva che la Regina avrebbe onorata la festa della sua presenza, e tutte le signore dell’aristocrazia e della borghesia, alta e grassa, volevano assolutamente essere della partita.
La direttrice e la sua prima aiutante, la signora Maggi, fecero miracoli di abilità e di finezza per non offendere nessuno; i più piccoli ritagli di spazio furono utilizzati nella grande aula, e, spalancando tutte le porte, fu possibile collocare un certo numero di sedie anche nelle stanze attigue. Insomma, un avvenimento colossale, che aveva messo la febbre addosso a tutto il collegio, dalla vecchia direttrice alla giovane moglie del portiere; e del quale doveva restar memoria negli annali delle glorie scolastiche.
E le ragazze che da fare davano! C’era da perder la testa a sentirle, specialmente l’ultimo corso. La povera Ernestina Maggi ci rimetteva quel po’ di forza.
Le alunne di canto, le musiciste che studiavano il loro pezzo da quattro mesi, man mano che s’avvicinava il momento di farsi sentire in pubblico, lo suonavano peggio: parevano malate. Non mangiavano, avevano dei tremiti, dei capogiri. Senza l’esperienza di tutti gli anni ci sarebbe stato di che disperarsi. Ma quando arrivò il gran giorno, accadde quello che accadeva tutti gli anni: all’ora precisa, si trovarono tutte al loro posto, vispe, gaie, eccitate, con gli occhi lucenti, avide di trionfi, di occhiate; piene di curiosità e di civetteria.
La signora Maggi che prima aveva creduto necessario di incoraggiarle, di spingerle, ora non sapeva come fare a tenerle in freno. Del resto, ne aveva appena il tempo, poichè ogni cosa metteva capo a lei e tutti la chiamavano.
Lei accorreva dappertutto; cercava di bastare all’enorme bisogna: perchè era l’ultimo anno, anche per lei che se ne andava da quel collegio. Ad ogni cosa che le richiedevano, le maestrine sue compagne e la direttrice stessa, non mancavano di farle osservare ch’era l’ultima volta, che tanto lei le abbandonava per sempre e non l’avrebbero più seccata.
Le giovinette sue alunne uscivano tutte per entrare nel mondo, e lei partiva per andare a Napoli, a dirigere la scuola normale.
Le sue compagne la invidiavano. La Margheritina, una brunetta adorabile, che insegnava calligrafia, e aveva in consegna il primo corso, quello delle piccine, diceva arrovesciando leggermente il labbro inferiore: — Eh! lei va a far fortuna! Entra nel mondo come le signorine!
Finalmente anche quel giorno venne a sera; e poi spuntò il giorno ultimo, quello degli addii. Il collegio fu pieno di singhiozzi e di frasi appassionate. Le amiche intime, le indivisibili, forzate alla separazione, si abbracciavano disperatamente. Si serravano petto contro petto, piangendo come Maddalene, mandando gridi strazianti di dolore passeggiero, trovando un piacere nuovo, inebbriante, in quella forte scossa dei nervi.
Anche a lei, alla maestra che se ne andava, toccò la sua porzione di carezze rumorose, di lagrime senza conseguenze. Alcune si lagnarono ch’era fredda e che non rispondeva con espansione ai loro trasporti.
Dopo partite le grandi, gli altri cinque corsi uscirono tutti insieme con le loro maestre e presero posto in tre grandi omnibus, per andare alla stazione e di là col vapore alla Spezia, a fare i bagni di mare.
L’ultimo grido argentino morì sulla soglia dell’antico palazzo, e gli omnibus partirono allegramente.
Ernestina Maggi rimase sola, con la famiglia del portiere e il domestico incaricato di custodire gli appartamenti. Sola sul limitare di un altro periodo scuro della sua vita malinconica. Domani sarebbe partita anche lei; partita alla volta di una nuova scuola, dove altre alunne l’aspettavano, mutabili e obliose come quelle che lasciava.
Avendo dinanzi a sè alcune ore di libertà, ne approfittò per recarsi da una sua parente, presso la quale rimase a pranzo.
Quando ritornò, era già notte. La portinaia le rimise un biglietto scritto col lapis che una delle maestre le aveva mandato dalla stazione. Ernestina lo aprì lentamente; era della Margherita, la maestrina del primo corso, e conteneva una preghiera vivissima per alcuni pizzi dimenticati in fondo a un cassetto, in uno dei dormitorii: ne facesse un pacco postale e glielo mandasse alla Spezia. Poi, con indifferenza, come se la cosa le premesse meno, le diceva di mandarle anche una scatola di fiori fatti seccare nella bambagia, che aveva lasciati nel banco di scuola. Ernestina sorrise, si fece dare un lume, salì, si levò il velo, e cominciò a girare gli appartamenti per vedere se non ci lasciava anche lei qualche cosa.
Lentamente, fermandosi ad ogni istante, pensando ch’era per l’ultima volta, e facendosi suo malgrado sempre più triste, quantunque in fondo non gliene importasse tanto, ella andava su e giù per le sale, attraversava gli anditi, frugava i dormitori. Il lume con cui ella si rischiarava, faceva apparir più vaste le sale abbandonate, più cupi e misteriosi i fondi lontani, gettando sprazzi di luce viva su alcuni punti vicini.
Ella guardava intorno a sè come sorpresa di quel silenzio; posava il candeliere sur una mensola o un cassettone, si chinava a raccattare un nastro polveroso, un fiore gualcito, un foglio caduto da un vecchio libro di scuola, strappato. Poi apriva i cassetti, vi metteva le mani allungandole fino in fondo con un fare astratto, tirandone sempre qualche cencio, qualche gingillo, un brindello di stoffa, qualche brano di lettera; qua e là qualche accenno al principio di un idillio interrotto, di una visione di peccato, che avrebbe potuto interessarla, se in quel momento ella avesse avuto voglia di indagare gli affari delle altre, e se la partenza dal collegio non avesse come sospesa la sua responsabilità. Benefica sospensione, di cui le giovava approfittare completamente per rifarsi le forze.
Quando aveva ben frugato, sicura di non aver dimenticato nulla di ciò che cercava, s’abbandonava un momento con fare stanco e abbattuto, per riposarsi e fantasticare.
Si sentiva come più vicina a sè stessa, al suo passato, alle sue memorie, nella vasta solitudine silenziosa in cui si trovava improvvisamente come in un sogno. Da un pezzo non era stata così completamente padrona di sè. Ne provava un sollievo. Realmente, era sola nel mondo da molti anni. Ma la vita nella comunità ha questo di particolarmente increscioso, che l’anima vi si sente sola, senza la libertà della solitudine, senza il suo benefico raccoglimento.
Ora pensava con più abbandono; riandava sugli avvenimenti del passato; e le immagini l’assalivano a frotte. Le reminiscenze s’ingrossavano, si chiarivano; in quella penombra delle cose presenti, il suo cervello s’illuminava di una luce retrospettiva. Vedeva la sua vita svolgersi lentamente dinanzi ai suoi occhi, come una larga fascia dai toni sbiaditi e uniformi. Era proprio una esistenza monotona la sua, senza tempeste e senza sole; somigliava a un lungo autunno nebbioso.
Suo padre aveva fatto il segretario comunale in una piccola borgata, sua madre la maestra inferiore nella scuola rurale. Riesciti faticosamente a riunire queste due occupazioni nello stesso Comune, non s’erano più mossi, non avevano tentato alcun miglioramento, per timore del peggio. Vivevano rassegnati nella loro miseria; ma senza gioie. Si amavano?... Ella interrogava le sue memorie più lontane, e non sapeva decidere; propendeva per il no. Si tolleravano con una certa tranquillità apatica dalla parte di lui; mentre la donna pareva sostenuta dal sentimento religioso. Forse non avevano mai trovato il buon momento per intendersi più profondamente, trascinati com’erano dalle preoccupazioni materiali!
Comunque fosse, avevano fatto tutti e due sforzi indicibili per darle una educazione che le aprisse una carriera meno meschina della loro.
Ella si rivedeva piccina alla scuola comunale; rivedeva le faccie rosee delle compagne più care, delle maestre che la pigliavano a proteggere; una bambina, la figlia del medico, con dei bei vestitini a colori vivi, che le aveva fatto tanta pena non volendola per amica. Questi particolari prendevano nuovo interesse nella sua memoria. Ci si perdeva a ricostruirli. Ma tutto a un tratto si rammentava di quello che doveva fare e del tempo che perdeva, e s’alzava con premura per rimettersi in cammino. Il suo passo produceva un rumore particolare sui pavimenti lucidi nel silenzio delle stanze vuote; ed essa lo ascoltava involontariamente, seguendo col pensiero le nuove immagini che per analogia si destavano nella sua mente. Erano anticamere fredde, lunghi corridoi di uffici, dove i passi risuonavano appunto in quel dato modo; portieri allampanati e musoni, alti personaggi dall’aria falsamente aristocratica; qua e là qualche rara faccia simpatica di anima buona.
La prima volta, allorchè sua madre la condusse in città per fare il corso superiore, tutta quella fantasmagoria, nuova per lei, di persone e di cose, l’aveva come intontita.
Quelle lunghe gite a piedi per le strade interminabili della grande città; quelle uggiosissime ore di anticamera, cui dovevano sottomettersi tutti i giorni, la eccitavano e la sgominavano volta a volta. La mamma le diceva di portarsi sempre un libro con sè, per ripassare una delle materie su cui dovevano interrogarla agli esami; così il tempo le sarebbe parso meno lungo quando c’era da aspettare.
Lei si sforzava di obbedire, ma non ci riesciva. Era distratta, inquieta.
Aveva allora sedici anni, e il suo cuoricino cominciava a risvegliarsi, come le farfalle che si preparano a uscire dal bozzolo al principio di primavera.
E il suo briciolo di poesia l’aveva letto anche lei!
La vita elegante e lussuosa della città le faceva impressione; i suoi occhietti vispi, lucenti, si fermavano con molto piacere sulle meraviglie delle vetrine e s’imbattevano con altri occhi giovani e avidi di piacere.
Le anticamere fredde, scure, con quella impronta di noia ch’è la caratteristica degli uffici, le mettevano l’uggia addosso. Pensava alle sartine, alle modiste eleganti che vedeva girare liberamente per le vie affollate, entrare nei grandi negozi, scegliere le belle stoffe, i ricchi ornamenti, chiacchierando, ridendo, senza sopraccapi di studi; e le invidiava nel suo segreto. Ma non avrebbe osato palesare quest’invidia alla mamma, che parlava con disprezzo di quella gente.
Una mattina s’erano alzate presto per recarsi dal Direttore della Normale, cui erano specialmente raccomandate, e poter discorrere con lui solo prima che arrivassero i professori, le altre concorrenti con le loro mamme, le maestre, i bidelli, che formavano l’interminabile processione di tutti i giorni.
Rivedeva distintamente la saletta dove il bidello le aveva introdotte perchè aspettassero. Fra le due finestre, una larga tavola nera; lungo le pareti, un fila di sedie fitte fitte; in alto, per ornamento, tanti piccoli quadri dalle cornici nere, coi disegni delle alunne più distinte, e diplomi d’onore ottenuti dalla Scuola stessa nelle esposizioni didattiche nazionali. Molto tempo ella s’era fermata a guardare le rose pavonazze dai contorni duri, le frutta di gesso, le foglie cincischiate, dove l’impazienza e l’incapacità artistica delle allieve e degli insegnanti erano rimaste impresse in una maniera indelebile.
Ma il Direttore tardò tanto che quelle glorie scolastiche finirono col nausearla, e non la fece sorridere nemmeno un certo diploma dove c’era un genietto che minacciava uno schiaffo ad ogni spettatore.
Intanto la saletta si era popolata di altre persone. Una signora grassa, molto espansiva, raccontava ad alta voce che lei aveva avuto l’onore di presentare a S. M. il Re Vittorio Emanuele un lavoro delle sue mani, cioè un ritratto del Re stesso ricamato a punto di litografia sopra gros bianco. Non faceva per vantarsi, ma gl’intelligenti avevano attribuito a quel lavoro un valore di diecimila lire. Sua Maestà le aveva mandato in cambio un piccolo brillante, di cui ella non aveva mai cercato il prezzo: che le importava? era per l’onore!
Nessuno rispondeva a questi discorsi, poichè ciascuno pensava a sè, come accade ordinariamente in simili luoghi. Solo due buone donne della campagna l’ascoltavano a bocca aperta: Ernestina e sua madre. E la madre, forse ancora più ingenua della figliuola, guardava la sua diletta con un sorriso beato, che parea dirle: sii brava, studia, così ti farai onore anche tu, non si sa mai: è dolce poter dire: io ho scambiato un dono con Sua Maestà.
— Povera mamma! — mormorò Ernestina, sorridendo malinconicamente a questo ricordo, mentre i suoi occhi si inumidivano.
Tre anni dopo quando ottenne la patente superiore, con tutti dieci in media, invidiata dalle compagne, festeggiata dai parenti, ella si credeva già molto esperta. Da lungo tempo aveva capito che le ragazze più belle od agiate si davano poco pensiero di studiare, e parlavano con molto più interesse degli amici dei loro fratelli, o dei loro cugini. Alcune raccontavano di essere fidanzate, e che aspettavano di compiere i diciotto anni per maritarsi. Ella non aveva fratelli e quindi neanche amici dei medesimi. I suoi cugini erano uomini maturi con moglie: e mai un giovane aspirante o sospirante s’era presentato nella povera casa di suo padre. Non era bella, ahimè! e le compagne glielo dicevano abbastanza chiaro. Era forse una rappresaglia a cui s’abbandonavano volentieri per umiliarla un poco, quando i professori la lodavano, citandola ad esempio, come un modello di diligenza.
Lei non sapeva vestirsi; lei faceva l’eccentrica; la donna superiore. Queste cose dicevano le ragazze per farla soffrire. E non era punto vero. Ella amava ingenuamente le fanciulle più belle; quelle che sapevano parere in gala con dei cencetti agghindati alla persona, le ispiravano una sincera ammirazione.
Ma non sapeva imitarle. Le sarebbe occorso troppo tempo; e nella sua coscienza di figliuola onesta, sapeva che il tempo non le apparteneva, che lo doveva ai suoi genitori, vale a dire allo studio.
Aveva fatto il suo dovere... almeno così le pareva. Ma dov’era andata la ricompensa su cui le avevano insegnato a sperare?
I suoi genitori erano morti con la convinzione di avere fatto, loro, tutti i sacrifizi possibili per la felicità di lei, e vedendola sempre seria e triste, l’avevano accusata d’ingratitudine.
— E forse avevano ragione! — sospirò chinando la fronte.
Ma che colpa ne aveva lei se il peso della sua esistenza le pareva troppo grave per mostrarsi lieta?
Ora era arrivata nel dormitorio delle grandi: nel noto stanzone dov’ella aveva dormito per ben sette anni, laggiù in fondo; in quel lettino nascosto dalle tendine bianche. Ella rimase un momento immobile con gli occhi fissi, senza deporre il lume. Quanta parte di sè lasciava fra quelle pareti, dove un’altra, probabilmente una infelice come lei, sarebbe venuta a prendere il suo posto. Quante volte aveva pianto dietro a quelle tende, nascondendo la faccia sotto il lenzuolo, per non essere intesa da qualche educanda curiosa e di sonno leggiero. I primi anni specialmente, quando non poteva abituarsi a dormire in mezzo alle alunne, quante volte era stata sul punto di dare le sue dimissioni. L’aveva trattenuta una sorda paura dell’ignoto. Suo padre — la madre se n’era già andata da alcuni anni! — era morto allora allora; perciò, non avendo più da pensare altro che per sè, ella aveva lasciato la direzione di una scuola mista, in una città della Calabria, dove guadagnava assai più, ma dove le sue forze si consumavano in una eccessiva fatica.
Il nuovo posto, quantunque meno lucroso, era più signorile per l’importanza del collegio e per le comodità materiali di cui erano circondate le maestre, o meglio, le istitutrici, poichè questo era il titolo che qui avevano. Ed era appunto ciò di cui ella sentiva maggior bisogno, con la sua salute delicata. Così si rassegnò; e a poco a poco finì con l’abituarsi alla nuova vita, e si fece benvolere da tutti, perfino dal cappellano, quantunque i suoi principii, ch’ella non sapeva nascondere, fossero poco favorevoli alle pratiche esteriori del cattolicismo.
E ora... trach!... nella sua vita si faceva un nuovo strappo, mille tenui legami si frangevano; ella doveva cominciare un nuovo tirocinio per approdare — chi sa! — forse a meglio, forse a peggio!
Uscì dal dormitorio, dove non sarebbe più ritornata, mandando ancora un saluto al suo lettuccio bianco, immerso nell’ombra; poi traversò il corridoio per arrivare allo scalone che conduceva alle stanze di scuola e alle grandi sale di ricevimento.
Nel corridoio riscontrò il domestico, che si presentava in una maniera molto curiosa sul fondo buio dello scalone, con un materasso in ispalla, un lumino in mano, e il grosso cane bastardo dal pelo lungo che camminava gravemente dietro le sue gambe.
— Oh, Pietro! — esclamò — m’avete quasi fatto paura! dove andate con quel materasso?
Allora l’uomo alzò il viso sotto al suo carico e le spiegò, che per maggior sicurezza non dormiva mai nella stessa stanza, e nessuno doveva mai sapere dove egli dormisse.
— Di questo passo, vado a scegliere la mia reggia! — soggiunse, scoppiando in una risata sonora da uomo contento e ben nudrito, che rumoreggiò allegramente sotto l’ampia vôlta dello scalone.
Ernestina gli rammentò che partiva col diretto della mattina, e che lui doveva farle trovar pronta una vettura per le cinque e mezzo, e aiutarla a discendere le valigie. Poi si salutarono e si allontanarono in direzione opposta, e sprofondarono coi loro lumini nella vasta oscurità del corridoio e dello scalone.
Entrando nelle scuole, Ernestina non potè frenare un gesto di meraviglia davanti a quell’enorme disordine. Le ragazze, per far più presto a prendere i loro libri, i loro quaderni e le mille bazzecole di cui le collegiali fanno gran conto, avevano arrovesciati i loro cassetti sui banchi e buttati tutti i fogli inutili per terra, sparpagliandoli poi coi loro piedini inquieti e saltellanti.
Più tardi qualcuno dei servi doveva essere entrato, poichè gli scanni si trovavano tutti ammonticchiati in fondo a ciascuna sala, come esempi di barricate; ma nessuno s’era sentito l’animo di dare una spazzata e portar via quel grosso tappeto di carta, forse per la paura di rimetterci troppo tempo e accorciar la vacanza di qualche giorno.
Ernestina camminava lenta in punta di piedi, guardando attentamente se scorgeva qualche oggetto dimenticato.
Nella sala delle piccine andò diritta al tavolino della maestra, aprì il cassetto che chiudeva a molla, vi frugò dentro e in fondo, sotto a un arruffio di fogli, trovò la scatola coi fiori conservati nella bambagia. Una impercettibile curiosità gliela fece aprire. Vi era una bella rosa rossa, alcune gaggie, un mazzetto di viole ancora olezzanti, e in fondo, sotto all’ultimo strato di bambagia, un biglietto di visita con un nome d’uomo: Carlo Metelli. In terra, presso al tavolino, giaceva un abecedario che s’era aperto da sè al posto più tormentato, e mostrava una quantità di fregacci fatti colla matita da una manina nervosa.
Ernestina lo raccattò, lo chiuse, lo pose sul banco, e, presa con sè la scatola che doveva essere spedita, ritornò indietro per la medesima strada, riattraversando ancora una volta tutte le sale di scuola. Nel sesto corso, dove ella aveva passate tante ore tutti i giorni per sette anni di fila, il suo passo si rifece lento, mentre il suo sguardo si andava fermando qua e là, come per rianimare certe memorie impallidite, e riassorbire le emanazioni ancora distinte della vita, della gioventù, che aveva consumata là dentro.
Quando uscì nel corridoio pareva più pallida, e un sorriso amaro errava intorno alla sua bocca.
Non le restava che attraversare le sale di parlatorio, le sale di ricevimento, e la grand’aula dei concerti, ancora in pieno addobbo per la recente solennità. La sua cameretta era dall’altra parte, nell’angolo estremo dell’edificio.
Il parlatorio non le destò alcun ricordo interessante. Osservò per la millesima volta che le mobilie moderne addossate ai muri, stonavano maledettamente col carattere grandioso della decorazione, così poco adatta per un collegio; e tirò innanzi verso le altre sale, egualmente mancanti d’insieme, egualmente desolate del loro lusso freddo e senza carattere.
Involontariamente, ella pensò al tempo in cui quel palazzo non era ancora trasformato in collegio, ma abitato dalla nobile famiglia di cui portava tuttora il nome.
Le tappezzerie delle pareti, gli affreschi dei soffitti, i grandi specchi saldati nel muro, le statue innalzate sui loro piedestalli nel dolce riposo delle nicchie, tutto parlava dell’antica magnificenza e dell’uso cui quelle sale erano destinate.
A poco a poco la sua fantasia, eccitata dalla solitudine e dalla veglia, si popolò d’immagini fantastiche, e cercò di delineare a grandi tratti qualcuno dei quadri smaglianti e pieni di vita ch’erano stati chiusi in quelle cornici. Dalle ampie finestre, dagli splendidi affreschi, dalle ombre dei muri, uscivano voci che raccontavano di feste colossali, di banchetti, di avventure dolci e terribili. Chi sa quante coppie innamorate avevano sostato davanti a quel grande specchio, ora un po’ annerito! Chi sa quante belle ambiziose vi avevano ammirato il trionfo delle loro forme! Che cosa indefinibile è un ballo di signori!...
Ernestina, non aveva mai ballato; non sapeva ballare. Ma qualche volta, come spettatrice, aveva veduto, osservato e indovinato una quantità di cose. Si ricordava una certa coppia formata da due giovani, belli, che si tenevano stretti e volavano via come il vento. Ella aveva chiesto ingenuamente chi erano quei due sposi che si volevano tanto bene, e la gente intorno a lei s’era messa a ridere e a bisbigliare. Più tardi aveva saputo che non erano sposi, ma cugini, e che la signora era maritata con un altro e già madre.
Eppure, se certe cose non le avesse vedute, avrebbe potuto credere che fossero immaginazioni, fandonie da romanzieri, tanto a lei non era mai capitato nulla.
Nulla! Che vita noiosa!
Il solo romanzo della sua giovinezza non valeva la pena di essere raccontato, ed era rimasto in tronco al primo capitolo, come certi abbozzi malavviati, di cui il romanziere si disgusta fin dalle prime pagine.
Ella aveva allora vent’anni e stava aspettando l’esito di un concorso, poichè, malgrado il diploma superiore, non aveva trovato ancora da collocarsi, e viveva in casa sua aiutando la mamma. Una posizione assai penosa, con quel po’ po’ di miseria.
Un giovine del paese, metà possidente, metà contadino, s’era insinuato nell’amicizia del vecchio Maggi e frequentava la casa tutte le domeniche dopo pranzo. Non era un’aquila, ma nemmeno uno sciocco; e poi, un bel giovine. Le dimostrava una simpatia piena di rispetto, che la faceva sorridere molte volte in una serata. Allora era lui che arrossiva invece di lei, perchè era timido e un po’ in soggezione. Specialmente quando babbo Maggi parlava in lungo ed in largo della splendida educazione che aveva dato alla sua figliuola, del concorso che avrebbe vinto, della carriera lucrosa che si sarebbe aperta, il povero Giovanni Tortoli rimaneva come soffocato.
Tuttavia, qualche volta trovava il coraggio di osservare, che il posto era buono davvero con 1800 lire di stipendio, vale a dire più del pretore del capoluogo che ne aveva sole 1500; senza contare di più l’alloggio che la maestra avrebbe avuto gratis, ma che però c’erano degli inconvenienti: un paese di briganti e un da fare da cani, basti dire, otto ore di scuola tutti i santi giorni, a maschi e femmine e poi la sorveglianza di tutta la scuola e la responsabilità, laggiù, in quei paesi!...
Il vecchio rispondeva trionfalmente, che ci sarebbero andati anche loro, genitori, e che la sua figliuola nessuno l’avrebbe toccata.
Dopo ciò il giovine non osava replicare; ma incontrandosi, con gli occhi di Ernestina, i suoi occhi esprimevano la speranza vivissima che il famoso posto, nel paese dei briganti, non toccasse a lei....
Invece le toccò proprio. L’annunzio della nomina le arrivò per telegrafo, accompagnato dall’ordine di presentarsi entro otto giorni alla scuola.
Bisognò fare subito i bagagli, e mettersi in viaggio. Quanto a Giovanni, udita la muova, non si lasciò più vedere.
— L’unico uomo che abbia pensato a me! — mormorò Ernestina, che intanto era arrivata nella sua camera, dove tutto annunziava i preparativi della prossima partenza. La sua vita era tutta un patire!
— L’unico?... Mah! In ogni modo bisogna dire che si consolò presto — continuò mentalmente, sorridendo a metà del suo intenerimento retrospettivo.
Difatti, Giovanni aveva sposato poco dopo una ragazza di campagna, ed era ormai padre di sei o sette figlioli.
— Pover’uomo! chi sa che miseria! — pensò involontariamente, mentre i suoi sguardi si riposavano sui mobili eleganti della sua cameretta, sugli abiti che doveva mettere nella valigia. Tutti gli oggetti che le appartenevano annunziavano una modesta agiatezza e un gusto severo e delicato. Ora aveva imparato anche a vestirsi; peccato che era troppo tardi! La lunga abitudine della scuola, l’assenza assoluta di amore avevano dato a tutto il suo aspetto quel carattere indefinibile, fra d’istitutrice e di monaca, che in certe donne fa quasi sparire il sesso.
Il pensiero della sua agiatezza le suggerì un conforto, ed ella, che in quel momento si sentiva discendere verso l’abbattimento, vi si attaccò col coraggio di chi è nato per la lotta. Era sola, lei, ma almeno non aveva il tormento di veder soffrire delle creature amate, non era condannata a domandare continui sacrifizi a delle creature giovani, vibranti di allegria, di espansione, come i suoi genitori avevano sempre dovuto fare con lei.
Risalendo la corrente della sua vita passata, ella si domandava quello che sarebbe accaduto se quel concorso fosse andato a vuoto; e si vedeva al fianco di Giovanni, in mezzo a un mucchio di figliuoli affamati, ch’ella doveva abituare al lavoro più affaticante, alle privazioni; e vedeva i visini smorti, come il suo, gli occhietti pesti, i sorrisi malinconici di quelle giovinezze stentate, come la sua.
Un profondo sospiro di soddisfazione sollevò il suo petto; la sua testa si drizzò, i suoi occhi s’illuminarono. — Meglio così! — ripetè orgogliosamente in uno slancio di egoismo sentimentale — il dolore è tutto per me.
Ora si sentiva piena di forza e di resistenza. Aveva i pomelli delle guance accesi, gli occhi sfavillanti. Febbrilmente si mise a preparare le sue valigie.
Ripiegava i vestiti, involgeva accuratamente gli oggetti piccoli e delicati nella carta velina; legava i libri in pacchi; chiudeva i manoscritti nelle grandi buste di marocchino. Poi venivano le fotografie; i grandi album pieni; i fasci di lettere, che non finivano più. Chi poteva averle scritto tanto?... Certe calligrafie le riescivano incomprensibili. Apriva le lettere, guardava le firme. Appartenevano alle innumerevoli amiche, alle compagne di collegio, ai professori, alle allieve.... Non una lettera d’amore fra tutte! Doveva portarsele ancora dietro?... Non osava distruggerle. Era, così, un’abitudine di sentimentalità collegiale di cui non aveva saputo liberarsi, pur sentendone la vanità.
Una fotografia, che aveva staccata dalla parete, fermò lungamente i suoi sguardi. Rappresentava una bella giovane sui ventiquattro anni, nel pieno sviluppo delle sue forme.
Era stata la sua più cara amica.
Con lei aveva imparato a pensare; a discorrere liberamente senza quell’eterna affettazione di falsa innocenza, che il galateo sociale impone alle non maritate. Tutti i tristi problemi, tutte le ingiustizie, tutte le angoscie della vita femminile, tutti i pregiudizi di cui si sentivano schiave, furono passati in rivista, analizzati, discussi dalle loro intelligenze risvegliate e che si ribellavano, in quelle ore di confidenza morbida, di espansione prorompente, in cui si consuma l’esuberanza delle forze d’un cuore giovane e vigoroso, condannato all’inerzia.
Ma adesso, la bella Erminia, non era più quella d’allora.
Aveva ispirato un sincero amore ad un giovane medico, che se l’era sposata, portata via con sè, in un altro paese, lontano dalla povera Ernesta.
Per qualche tempo una corrispondenza epistolare, ben nudrita, aveva ancora tenuta viva l’amicizia e recato qualche conforto all’abbandonata. Ma a poco a poco le lettere si erano fatte più rade, più fredde. Erminia era amata e amava; tutta la sua eloquenza naturale prorompeva in un inno all’amore, alla gioia di vivere. Un ottimismo intangibile si insinuava in tutti i suoi giudizi, in tutti i suoi pensieri. A poco, a poco Ernestina che non poteva seguirla su questo nuovo terreno, preferì il silenzio alle contestazioni, cui la sua fibra delicata non poteva reggere. E l’amicizia morì.
Eppure ora, ricontemplando quella fotografia, ch’ella credeva di avere dimenticata, si sentiva intenerire e penetrare come da un intendimento nuovo, che cancellava l’ultimo rimasuglio della sua collera.
— È giusto! — mormorò a fior di labbra: — se fossi amata anch’io! — E a questo pensiero, il cui fascino misterioso la investiva quasi improvvisamente, la commozione interna, ch’ella si forzava a frenare da tante ore, si manifestò finalmente in uno scoppio di lagrime.
Con la testa arrovesciata sulla poltrona, con le braccia penzoloni, provava la voluttà del piangere senza ritegno, tanto somigliante alla più acuta voluttà dell’amore.
— Amare! amare! — diceva con voce rotta in mezzo alle lagrime. — Avere una creatura che ci accarezzi, che ci compatisca!... Un bambino! Oh! se avessi almeno un bambino da stringermi al cuore!...
Quando finalmente si calmò, le sovvenne che alcuni momenti prima s’era sentita fiera della sua vita coraggiosa e solitaria, soddisfatta di essere sola e sterile, piuttosto che causa di dolore ad altri; e sospirò profondamente, coprendosi il viso con le mani convulse.
Le valigie erano pronte. Sorgeva l’alba. Dalla finestra aperta entrava l’aria fresca e umida del giardino.
L’istitutrice, che si era finalmente assopita nella sua poltrona, dove stava rannicchiata, coi ginocchi alzati, i gomiti appoggiati sui ginocchi, e tutto l’alto del corpo abbandonato sopra le braccia in un accasciamento supremo, sentì il saluto frizzante dell’aurora e si svegliò con un brivido.
Si alzò a fatica: le pareva di avere tutte le ossa rotte. Guardò l’orologio. Erano le quattro e mezzo.
Il giardino, uscito dall’ombra della notte, pareva come velato da una nebbiolina sottile e diafana.
Ella finì di svegliarsi, e provando un gran bisogno di movimento, chiuse le sue valigie, poi cominciò a trascinarle, una a una, fuori della camera, lungo il corridoio e fin giù a piè della scala di servizio che metteva direttamente in porteria.
Qui tutto dormiva ancora. Il gattone nero, svegliato in sussulto, distese le membra intorpidite, allungando le zampette davanti e appuntandole sul pavimento, rientrando la testina e abbassando il collo, mentre le reni inarcate si spingevano indietro, si gonfiavano graziosamente, con una morbidezza voluttuosa, che mostrava tutto il dispiacere del bel micio, per quella interruzione del suo dolcissimo sonno.
Ernestina risalì e ridiscese parecchie volte, finchè tutte le sue valigie si trovarono riunite nell’atrio; intanto che il gatto la guardava con una cert’aria di stupore.
Questa ginnastica la rinvigorì. Il rossore della fatica cancellò dal suo viso le traccie del pianto e della veglia. Quando il portiere e sua moglie furono alzati, si congratularono con lei del suo buon aspetto. Aveva almeno dormito bene per l’ultima notte?
Suonava la prima messa alla chiesa vicina, quando il domestico arrivò insieme alla vettura.
Ernestina infilò il suo ulster grigio, s’allacciò il cappellino di paglia, salutò un’ultima volta il portiere e la sua famiglia, compreso il micio, poi montò nella vettura.
Ma in quel momento arrivava don Antonio, il curato della parrocchia, cappellano e confessore del collegio, che andava a dire la sua messa.
Era un uomo alto e forte, che camminava col busto diritto, curvando la testa di tratto in tratto come sotto a un gran peso. Il suo viso scarno, pallido, con la fronte devastata, aveva una espressione penosa, gradevolmente modificata però dal suo buon sorriso, dagli occhi dolci e dai capelli bianchi finissimi, che gli s’inanellavano intorno alle tempie.
Egli andò diritto a lei e la salutò. Ernestina gli porse la mano. Erano buoni amici, quantunque nessuna maestra del collegio fosse meno devota di lei. Ma tutti e due s’erano incontrati nel sentimento di una grande rettitudine e di una profonda infelicità. E questa specie di gente finisce sempre con l’intendersi per quanto grande sia la diversità delle opinioni da cui sono divisi.
Il vecchio prete e la povera istitutrice ancora giovane, ma già invecchiata, scambiarono poche parole, pochi augurii; l’augurio più gradito, quello di esser presto liberati dalla loro catena, non avevano bisogno di esprimerlo, se lo leggevano negli occhi.
— Addio, — disse il prete quando la campana finì di suonare. — Si mantenga sempre così coraggiosa.
— E lei pure! — rispose Ernestina sommessamente. — Addio!
Il prete scomparve dietro la porta nera della sua chiesa; il vetturino frustò la sua bestia, che per cominciar bene la giornata si slanciò di gran trotto.
Ernestina Maggi incrociò le braccia sul suo abito grigio, e volse gli occhi incontro al sole, che appariva in quel momento in fondo alla lunga strada diritta, come un gran disco di fuoco.