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lettere, che non finivano più. Chi poteva averle scritto tanto?... Certe calligrafie le riescivano incomprensibili. Apriva le lettere, guardava le firme. Appartenevano alle innumerevoli amiche, alle compagne di collegio, ai professori, alle allieve.... Non una lettera d’amore fra tutte! Doveva portarsele ancora dietro?... Non osava distruggerle. Era, così, un’abitudine di sentimentalità collegiale di cui non aveva saputo liberarsi, pur sentendone la vanità.

Una fotografia, che aveva staccata dalla parete, fermò lungamente i suoi sguardi. Rappresentava una bella giovane sui ventiquattro anni, nel pieno sviluppo delle sue forme.

Era stata la sua più cara amica.

Con lei aveva imparato a pensare; a discorrere liberamente senza quell’eterna affettazione di falsa innocenza, che il galateo sociale impone alle non maritate. Tutti i tristi problemi, tutte le ingiustizie, tutte le angoscie della vita femminile, tutti i pregindizi di cui si sentivano schiave, furono passati in rivista, analizzati, discussi dalle loro intelligenze risvegliate e che si ribellavano, in quelle ore di confidenza morbida, di espansione prorompente, in cui si consuma l’esuberanza delle forze d’un cuore giovane e vigoroso, condannato all’inerzia.

Ma adesso, la bella Erminia, non era più quella d’allora.

Aveva ispirato un sincero amore ad un giovane medico, che se l’era sposata, portata via con sè, in un altro paese, lontano dalla povera Ernesta.

Per qualche tempo una corrispondenza epistolare, ben nudrita, aveva ancora tenuta viva l’amicizia e recato qualche conforto all’abbandonata. Ma a poco a poco le lettere si erano fatte più rade, più fredde. Erminia era amata e amava;