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Ernestina infilò il suo ulster grigio, s’allacciò il cappellino di paglia, salutò un’ultima volta il portiere e la sua famiglia, compreso il micio, poi montò nella vettura.

Ma in quel momento arrivava don Antonio, il curato della parrocchia, cappellano e confessore del collegio, che andava a dire la sua messa.

Era un uomo alto e forte, che camminava col busto diritto, curvando la testa di tratto in tratto come sotto a un gran peso. Il suo viso scarno, pallido, con la fronte devastata, aveva una espressione penosa, gradevolmente modificata però dal suo buon sorriso, dagli occhi dolci e dai capelli bianchi finissimi, che gli s’inanellavano intorno alle tempie.

Egli andò diritto a lei e la salutò. Ernestina gli porse la mano. Erano buoni amici, quantunque nessuna maestra del collegio fosse meno devota di lei. Ma tutti e due s’erano incontrati nel sentimento di una grande rettitudine e di una profonda infelicità. E questa specie di gente finisce sempre con l’intendersi per quanto grande sia la diversità delle opinioni da cui sono divisi.

Il vecchio prete e la povera istitutrice ancora giovane, ma già invecchiata, scambiarono poche parole, pochi augurii; l’augurio più gradito, quello di esser presto liberati dalla loro catena, non avevano bisogno di esprimerlo, se lo leggevano negli occhi.

— Addio, — disse il prete quando la campana finì di suonare. — Si mantenga sempre così coraggiosa.

— E lei pure! — rispose Ernestina sommessamente. — Addio!

Il prete scomparve dietro la porta nera della sua chiesa;