Nella nebbia/Una ballerina
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Al pianoforte | Una istitutrice | ► |
UNA BALLERINA.
Nelle case invece, una grande vivacità, poichè era l’ora del desinare e giorno di festa. Uno di quei momenti in cui la sensualità soddisfatta assorge quasi a serenità ideale; momenti che spingono gli uomini alle disposizioni benefiche col fumo appetitoso delle vivande, e il profumo eccitante dei vini.
Matilde Sozzi aveva forse calcolato sulla particolare disposizione alla benevolenza che una buona minestra può sviluppare in un cuore umano, scegliendo appunto quell’ora per la sua questua; o piuttosto ella seguiva semplicemente lo stimolo della fame, che diveniva più acuto in lei verso l’ora comune del desinare.
A occhi bassi, senza guardarsi intorno, scivolando quasi lungo la fila delle case, ella procedeva in mezzo alla nebbia. Veniva dal fondo di un sobborgo e si dirigeva al centro della città. Non aveva mangiato dal giorno innanzi, ma in quel momento sentiva più il freddo che la fame. Provava un grande sbalordimento e mille immagini confuse si affollavano nella sua mente. Erano memorie lontane di tempi migliori: una casa agiata; dei visi cari al suo cuore; abiti eleganti e capaci di ripararla dal freddo; una tavola preparata; una allegra famigliuola seduta intorno. Altre immagini, più lontane, più vaghe: una scena sfavillante di colori e di luce, dove lei era ammirata e festeggiata, bellissima tra le belle.
Ma le quattro lettere che teneva strette in mano, sotto allo scialletto lacero e leggiero come un ragnatelo, riconducevano i suoi pensieri all’angoscioso presente. Le rileggeva dentro di sè quelle lettere scritte con tanta pena e ch’ella sapeva a memoria. La prima era per l’impresario. Quest’anno anche lui l’aveva abbandonata. Perchè le aveva rifiutato quel misero posto di figurante dell’ultima fila, che l’anno scorso le aveva impedito di morir di fame? Era brutta, secca... oh! lo sapeva benissimo! glielo dicevano per la strada, fino i monelli.... tuttavia, siccome era svelta ancora, con un po’ di rossetto, per «frega scene» le pareva di poter passare.
Alla Canobbiana la gente non ci badava tanto, e fra le coriste ce n’erano di quelle!... Epperò lo supplicava che non l’abbandonasse. Non sapeva come andare avanti a campare; se l’avessero scritturata per il ballo nuovo, avrebbero fatto un’opera di misericordia!..... Intanto la soccorresse di qualche cosa per quella sera.... Non aveva nulla, nulla!...
Si fermò. Era arrivata. Restò un momento con gli occhi fissi nella corrente luminosa che usciva dal portone. L’idea di mettere il suo profilo miserabile sotto la luce sfacciata la sbigottiva. Ma infine, il coraggio non le mancava. Si slanciò risoluta e presentò la sua lettera al portiere: sarebbe ritornata fra un’ora per la risposta. E scappò via senza badare al sorriso ironico del portiere. La seconda lettera era per una compagna d’arte, una vecchia amica, ora indifferente.
Non le chiedeva che un piccolo prestito. Sperava di essere scritturata e avrebbe fatto subito il suo dovere. Questo scriveva, ma in fondo non sperava di avere del denaro da quella donna, tutt’al più qualche cencio.
Per consegnare le due ultime lettere doveva recarsi sul corso di Porta Venezia e in via Monte Napoleone. Sul Corso stava una sua sorella che spesso la soccorreva, sebbene non vivesse nell’abbondanza nemmeno lei. Se Matilde fosse salita a quell’ora e avesse detto che non aveva desinato, non le sarebbe mancata una scodella di minestra e qualche altra cosa. Ma ella non osava salire quel giorno perchè sapeva di meritarsi dei rimproveri.
Al principio dell’inverno vedendola così nuda, la Rachele le aveva regalato una sottana di flanella quasi nuova e pesante, che era una grazia di Dio. Matilde aveva visto che se l’era levata di dosso in un momento di tenerezza; e: tienla almeno di conto, le aveva detto.
Ora lei non l’aveva già più. La sua miseria era più grande che non potesse dire: tanto grande che cercava sempre di nasconderla un poco. Un giorno che le era ancora balenata la speranza di una scrittura discreta, aveva impegnata quella sottana — l’unico capo buono che possedesse — per mangiare un poco, senza cercare la carità. Poi, la scrittura essendo andata in fumo, aveva venduta la polizza per pochi soldi. — Tornerò a momenti per la risposta — gridò anche qui, senza fermarsi per non essere interrogata dalla portinaia che la conosceva.
Affrettò il passo verso l’ultima meta della sua questua. Era la più penosa: là, in quella casa di un aspetto assai decente, stava suo marito, con due figliuoli di lei e un’altra donna! Era veramente un fatto troppo doloroso, chiedere un pezzo di pane a quell’uomo! Eppure Matilde non era spinta dal solo bisogno a portare in quella casa la sua miseria. Era una specie di vendetta, di persecuzione impotente, e il solo mezzo di accostarsi alle sue creature. Pensare che dopo di averla spogliata di tutto, quell’uomo le aveva portato via anche i bambini, cacciandola ignominiosamente! E lei doveva tacere.
La ragione legale era per lui: poteva farla andare in prigione se voleva. Era così la legge che lei non intendeva e chiamava assassina.
La portinaia stava sull’uscio. Vista Matilde non le lasciò il tempo di entrare dicendole subito: — Quelli che lei cerca, non stanno più qui. Sono andati via... fuori di Milano.
Matilde restò sbalordita, poi replicò:
— Andati via... Dove?... Non per sempre certo?...
La portinaia si strinse nelle spalle: non era affare suo: non sapeva: ma avevano portato via ogni cosa ed erano andati alla stazione.
Colpita al cuore Matilde restò senza parole. Non sapeva come staccarsi da quella casa: non poteva persuadersi che la sua disgrazia fosse così completa.
Non contenti di averla cacciata, dunque, si sottraevano perfino ai suoi lagni, alla sua vendetta, alle sue preghiere!
Un singhiozzo le sollevò il petto. Per quanto abbrutita, il dolore poteva in lei ancora più della collera, più della fame. L’assaliva una corrente di tenerezza retrospettiva che la trasportava. Quelle due creature che erano sue, nate da lei, nudrite da lei, e che ora andavano via... lontano... con la ganza di suo marito... Quelle faccine delicate, quei sorrisi ingenui, quei grandi occhi dolci, che tanto l’avevano confortata nei primi anni..., quei tepidi baci... quelle sante carezze... oh! come tornavano alla sua memoria, come la straziavano!... Se avesse potuto rivederle un momento, baciare quelle testine ricciute, esalar l’anima ai loro piedi!
La portinaia le aveva voltate le spalle, ed ella rimaneva là, ritta sul marciapiedi, sotto al becco del gas che metteva in risalto tutta la sua miseria.... In quel momento non pensava a nascondersi — non sentiva il freddo acuto... nulla.
Una guardia, che da qualche tempo la sorvegliava per sorprenderla in delitto flagrante di accattonaggio, visto che non ci riusciva, le intimò bruscamente di andare avanti, chè disturbava la gente.
Matilde non si scosse, non fece alcun gesto di sorpresa nè di protesta, si asciugò gli occhi pieni di lagrime e lentamente, quasi inconsciamente obbedì al comando.
Tornò a camminare, o meglio a scivolare rasentando i muri, come un’ombra. Così rifece la sua penosa Via Crucis, per raccogliere le risposte ai suoi tre biglietti, pensando a tutt’altro, o non pensando affatto come una macchina che compie il suo giro.
Tornavano i ricordi ad assalirla e le immagini si cozzavano confuse: le due bimbe con le braccia tese verso di lei; suo marito a braccetto di un’altra donna — lei stessa colpevole, vilipesa, scacciata — poi balestrata di giorno in giorno fino all’ultima miseria: un cencio sudicio adoperato ai più vili mestieri. E in mezzo a queste lugubri fantasie tornava, per tormentarla di più, la prima visione luminosa: una figura di donna raggiante di gioventù e di bellezza, punto di mira a migliaia di sguardi, desiderata, applaudita da una folla di uomini. Quella donna era lei stessa, lei stessa, felice di sentirsi bella e giovine, esaltata da quei trionfi, ma onesta.
Tutti glielo dicevano; era una brava ragazza, non voleva saperne di raggiri: voleva maritarsi: faceva bene. Proprio così: lei era fidanzata a un negoziante del suo paese e non aveva raggiri. E si stimava savia e disprezzava le altre. Chi le avrebbe detto che di là appunto doveva nascere la sua rovina? Chi le avrebbe detto che, dopo smesso di ballare per dedicarsi tutta alla famigliuola, le sarebbe toccato di ricominciare, per far fronte alla miseria, con le gambe rese pesanti dal riposo, le carni floscie, la faccia scarna, i capelli brizzolati? e la crudele memoria numerava ad una ad una le infinite amarezze di quel ricominciamento. Gli antichi ammiratori che affettavano di non riconoscerla; le faccie dure e fredde degli impresari che le facevano la limosina di una miserissima scrittura; le faccie maligne delle rivali atteggiate a beffarda pietà.
Ma si fa il callo a tutto. Ella si era avvezzata a quella vita, come da giovinetta a ballare mezza nuda sotto al fuoco dei cannocchiali. Si consolava che almeno poteva dare un pezzo di pane ai suoi bambini, quando il marito rimaneva lontano le settimane e i mesi senza ricordarsi della famiglia. Così avvenne che la paga non bastando, si lasciò trascinare e fu sorpresa e cacciata da lui che aspettava quel momento per metterla fuori dell’uscio. Quante lagrime, che disperazione! Ma la sera stessa, con quel peso sul cuore, le toccò ben di ballare in un costume di follia, col viso impiastricciato di rossetto e di biacca, la parrucca bionda e gli occhi tinti! Le lagrime che si sforzava a trattenere per non disfarsi il viso, le gonfiavano le tempie e le serravano la gola. Le persone ridevano a vederla così goffa e brutta.
Dopo il teatro, uscita nella strada, con un freddo intenso, ella andò errando per le vie, non sapendo dove dormire. A casa, il marito non la voleva e lei non aveva un soldo. Girò tutta la notte, così, mezza pazza, e finalmente accettò l’invito di un suo collega, che in capo di un mese la pregò poi di andarsene.
O che vita! Che miserabile vita era stata la sua da quel giorno!
Quanta fame aveva patita e che freddo atroce nei lunghi inverni!
Fame e freddo, queste due sensazioni sempre più acute in lei, si confondevano coi ricordi e assorbivano a poco a poco tutte le sue facoltà.
La nebbia pesava sulla città come una coltre mortuaria.
Matilde camminava a scatti, sospinta dai brividi.
Arrivata alla porta dell’impresario trovò la sua lettera respinta, con l’ordine espresso di non portarne altre.
Già dall’amica non aveva trovato nulla e da sua sorella, un biglietto scritto col lapis e venti centesimi: tutto il denaro che si trovava in casa in quel momento. L’impresario le dava il colpo di grazia. Un colpo tanto forte che Matilde non potè sostenerlo. Spezzata in tutte le membra, con le ginocchia che le si piegavano, si lasciò cadere e si rannicchiò tutta ridosso al muro. Non ne poteva più.
Le lagrime l’acciecavano, la febbre la faceva sussultare. Così finiva, disprezzata, rejetta. E i suoi figliuoli non sapevano ch’ella moriva come un cane, in fondo a una strada. Chi sa cosa facevano in quel momento?
Le pareva di vederli piangenti, maltrattati.... Oh! la tetra visione!
Un branco di giovinotti, usciti da una vicina osteria videro quella figura di donna accovacciata nell’ombra, e s’avanzarono verso di lei per curiosità.
— È briaca fradicia! — esclamò uno.
— È brutta come il peccato! — ribattè un altro. E si allontanarono sghignazzando.
Più tardi le guardie di città portarono la povera Matilde in Questura; e di là all’Ospedale.