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in fondo, sotto a un arruffio di fogli, trovò la scatola coi fiori conservati nella bambagia. Una impercettibile curiosità gliela fece aprire. Vi era una bella rosa rossa, alcune gaggie, un mazzetto di viole ancora olezzanti, e in fondo, sotto all’ultimo strato di bambagia, un biglietto di visita con un nome d’uomo: Carlo Metelli. In terra, presso al tavolino, giaceva un abecedario che s’era aperto da sè al posto più tormentato, e mostrava una quantità di fregacci fatti colla matita da una manina nervosa.

Ernestina lo raccattò, lo chiuse, lo pose sul banco, e, presa con sè la scatola che doveva essere spedita, ritornò indietro per la medesima strada, riattraversando ancora una volta tutte le sale di scuola. Nel sesto corso, dove ella aveva passate tante ore tutti i giorni per sette anni di fila, il suo passo si rifece lento, mentre il suo sguardo si andava fermando qua e là, come per rianimare certe memorie impallidite, e riassorbire le emanazioni ancora distinte della vita, della gioventù, che aveva consumata là dentro.

Quando uscì nel corridoio pareva più pallida, e un sorriso amaro errava intorno alla sua bocca.

Non le restava che attraversare le sale di parlatorio, le sale di ricevimento, e la grand’aula dei concerti, ancora in pieno addobbo per la recente solennità. La sua cameretta era dall’altra parte, nell’angolo estremo dell’edificio.

Il parlatorio non le destò alcun ricordo interessante. Osservò per la millesima volta che le mobilie moderne addossate ai muri, stonavano maledettamente col carattere grandioso della decorazione, così poco adatta per un collegio; e tirò innanzi verso le altre sale, egualmente mancanti d’insieme, egualmente desolate del loro lusso freddo e senza carattere.