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quest’invidia alla mamma, che parlava con disprezzo di quella gente.

Una mattina s’erano alzate presto per recarsi dal Direttore della Normale, cui erano specialmente raccomandate, e poter discorrere con lui solo prima che arrivassero i professori, le altre concorrenti con le loro mamme, le maestre, i bidelli, che formavano l’interminabile processione di tutti i giorni.

Rivedeva distintamente la saletta dove il bidello le aveva introdotte perchè aspettassero. Fra le due finestre, una larga tavola nera; lungo le pareti, un fila di sedie fitte fitte; in alto, per ornamento, tanti piccoli quadri dalle cornici nere, coi disegni delle alunne più distinte, e diplomi d’onore ottenuti dalla Scuola stessa nelle esposizioni didattiche nazionali. Molto tempo ella s’era fermata a guardare le rose pavonazze dai contorni duri, le frutta di gesso, le foglie cincischiate, dove l’impazienza e l’incapacità artistica delle allieve e degli insegnanti erano rimaste impresse in una maniera indelebile.

Ma il Direttore tardò tanto che quelle glorie scolastiche finirono col nausearla, e non la fece sorridere nemmeno un certo diploma dove c’era un genietto che minacciava uno schiaffo ad ogni spettatore.

Intanto la saletta si era popolata di altre persone. Una signora grassa, molto espansiva, raccontava ad alta voce che lei aveva avuto l’onore di presentare a S. M. il Re Vittorio Emanuele un lavoro delle sue mani, cioè un ritratto del Re stesso ricamato a punto di litografia sopra gros bianco. Non faceva per vantarsi, ma gl’intelligenti avevano attribuito a quel lavoro un valore di diecimila lire. Sua Maestà le aveva mandato in cambio un piccolo brillante, di cui ella non aveva mai cercato il prezzo: che le importava? era per l’onore!