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dato modo; portieri allampanati e musoni, alti personaggi dall’aria falsamente aristocratica; qua e là qualche rara faccia simpatica di anima buona.

La prima volta, allorchè sua madre la condusse in città per fare il corso superiore, tutta quella fantasmagoria, nuova per lei, di persone e di cose, l’aveva come intontita.

Quelle lunghe gite a piedi per le strade interminabili della grande città; quelle uggiosissime ore di anticamera, cui dovevano sottomettersi tutti i giorni, la eccitavano e la sgominavano volta a volta. La mamma le diceva di portarsi sempre un libro con sè, per ripassare una delle materie su cui dovevano interrogarla agli esami; così il tempo le sarebbe parso meno lungo quando c’era da aspettare.

Lei si sforzava di obbedire, ma non ci riesciva. Era distratta, inquieta.

Aveva allora sedici anni, e il suo cuoricino cominciava a risvegliarsi, come le farfalle che si preparano a uscire dal bozzolo al principio di primavera.

E il suo briciolo di poesia l’aveva letto anche lei!

La vita elegante e lussuosa della città le faceva impressione; i suoi occhietti vispi, lucenti, si fermavano con molto piacere sulle meraviglie delle vetrine e s’imbattevano con altri occhi giovani e avidi di piacere.

Le anticamere fredde, scure, con quella impronta di noia ch’è la caratteristica degli uffici, le mettevano l’uggia addosso. Pensava alle sartine, alle modiste eleganti che vedeva girare liberamente per le vie affollate, entrare nei grandi negozi, scegliere le belle stoffe, i ricchi ornamenti, chiacchierando, ridendo, senza sopraccapi di studi; e le invidiava nel suo segreto. Ma non avrebbe osato palesare