Nella nebbia/Al pianoforte
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AL PIANOFORTE.
La sala, a terreno, in fondo a una corte, somigliava sempre un poco ad un magazzino, quantunque i soci avessero fatto sforzi incredibili per trasformarla e darle un aspetto elegante e gaio.
Tutti giovani, allegri, smaniosi di divertirsi, i soci del Se sa minga; non molto provvisti di denari, ma punto tirati nello spendere.
Avevano fatte le cose per benino; l’impiantito era coperto da un buon tappeto; l’illuminazione, se non sfarzosa, sufficente; e le nude pareti dipinte a calce, nascoste e decorate con stoffe, quadri, specchi, fiori e frondi. La decorazione rivelava la mano e lo spirito di alcuni artisti — pittori e scultori — sparsi tra i soci, i quali nella maggioranza erano impiegati governativi o municipali o ferroviarii, od anche semplici negozianti di stoffe, nastri, colori ed altre cose.
Ma la parte meglio riescita, quella che dava maggiori compiacenze al direttore del Se sa minga, — un buon giovinotto che faceva le prime armi nella critica teatrale — era la musica. Un eccellente piano, un Erard dalla voce sonora, pa stosa e squillante; e una suonatrice.... oh! una vera artista e una vera signora per di più.... poverina!
L’istrumento era di un socio negoziante di pianoforti, il quale lo dava a nolo — quasi per niente — contando sulla réclame del direttore giornalista.
La suonatrice — chi sa come l’avevano trovata — era capace di stare al piano dalle nove di sera alle cinque del mattino per sole quattro lire!... È vero che i Cirenei non le mancavano per quella croce. Ad ogni tratto un dilettante più o meno abile si offriva a sostituirla, perchè ella potesse riposarsi da quella fatica, e ballare un poco, e divertirsi anche lei, che diamine!
Un pittore giovanissimo dagli occhi fiammeggianti, dalla fisonomia espressiva, avrebbe voluto che la bella Noemi ballasse sempre e lasciasse suonare gli altri.
Ma lei, ligia all’impegno preso, appena fatti alcuni giri, si sottraeva gentilmente alle amabili insistenze dei danzatori e ritornava al suo posto.
Chi era?... Che cosa faceva?... E come mai aveva bisogno di un sì meschino guadagno, con quell’aria così distinta?...
Queste domande circolavano le prime sere. Ma ben presto tutti furono informati: la signora Noemi era la moglie infelice di un vecchio, già impiegato alle strade ferrate, ora infermo da parecchi anni, e ridotto a vivere con una misera pensione, appena di che sfamarsi, se la signora non avesse lavorato accanitamente.
E tutti l’ammiravano, povera donnina sacrificata; e molti avrebbero voluto consolarla. Ma lei sapeva frenare gli audaci, senza pedanterie, col suo calmo sorriso, coi suoi motti arguti.
Quella sera le nove erano suonate da un pezzo, e la pianista sempre così puntuale, non giungeva ancora.
I giovinotti, tutti presenti, formavano in mezzo alla sala un gruppo di teste brune, bionde, castagne e di abiti... non tutti neri... Oh! no, davvero. I soci del Se sa minga si ribellavano alla tirannia dell’abito nero e dei relativi accessori.
Le signore arrivavano alla spicciolata, a gruppi, a flotte. Un padre di famiglia conduceva una mezza dozzina di ballerine nei loro semplici abiti della festa. Un negoziante di chincaglie, magrissimo, accompagnava la moglie, enorme, ma allegra, simpaticona. Alcuni pittori introducevano francamente le loro amanti, belle ragazze dal viso fresco, dagli abiti attillati. E nel medesimo tempo la ex-direttrice di un collegio in voga, la quale ora teneva in pensione alcune future maestrine, arrivava tranquillamente con le sue dozzinanti, buone fanciulle, dai vezzi ingenui, smaniose di ballare.
Tutte entravano allo stesso modo, tra irate e ridenti, gemendo o scherzando coraggiosamente, come chi viene dall’avere attraversato un pericolo; e chi si levava le soprascarpe di gomma, chi cercava di pulirsi in qualche modo gli stivalini.
Gli è che la casa si trovava come in un deserto, in fondo a una via in costruzione, dove le vetture non potevano passare. Quando la pioggia o la neve avevano inumidito il terreno, bisognava camminare sulle pietre sparse in mezzo al fango, facendo salti e sgambetti che non sempre riescivano bene.
Appena in sala, le signorine guardavano il pianoforte ancora muto e la sedia vuota della pianista.
— Non si balla stasera?
— Non è arrivata la signora Gili!
— Oh! Oh! Oh!
E il malumore offuscava i visini.
Un dilettante suonò una polca tanto per farle sgranchire. Finalmente Noemi Gili apparve sulla soglia, e tutti le furono intorno per acclamarla, mentre lei si scusava dolcemente per quel ritardo.
Era una figurina di media altezza, di proporzioni squisite. Il semplice abito di casimir bianco, guernito in velluto nero, l’allungava un po’ e dava alle sue forme delicate un rilievo statuario. Nel viso, non perfettamente regolare, e un po’ estenuato, brillavano due grandi occhi azzurri, profondi, contornati da lunghe ciglia e da sopracciglia vellutate e abbondanti.
Quella sera, le sue guancie morbide apparivano più pallide del solito; e la sua bocca, un po’ larga ma fornita di denti magnifici, era un po’ stirata da una interna amarezza.
Arturo Dalpi, il giovine pittore dai vividi occhi, la guardava in silenzio e notava quei segni di sofferenze segrete eroicamente sopportate.
Ella andò diritta al pianoforte e cominciò un valzer come faceva sempre.
Le coppie si slanciarono. Era una gioia ballare quando suonava la signora Gili!
E lei suonava anche quella sera; apparentemente tranquilla. Le mani abili e abituate andavano da sè.
Ma quanto le sarebbe durata quella forza fittizia?
Noemi si rivolgeva con terrore questa domanda; e rabbrividiva accorgendosi che tremava tutta di dentro: che le sue dita, di solito così spedite, s’irrigidivano, che la testa le girava.
Oh! Che cosa aveva fatto!... Dio! Dio!... Che cosa aveva fatto!
Era la morte! la più atroce delle morti che le torceva le viscere a quel modo!...
No!... Passava ancora... Poteva resistere ancora... Voleva resistere! Lottava con tutte le sue forze contro il male che la rodeva. E mentre le sue mani convulse volavano sui tasti, mentre le dolci melodie del valzer si spandevano nella sala, e le coppie giovani e gaie si abbandonavano con voluttà al vertiginoso piacere della danza, la povera pianista rivedeva la scena tetra a cui si era tolta e soffocava i gemiti che le angoscie della vicina morte strappavano al suo petto.
Il veleno serpeggiava nelle sue vene...
Tutto il giorno aveva girato per le lezioni; per raggranellare un po’ di danaro; perchè a casa non c’era un soldo e mancava la legna, e mancava il vino vecchio per l’infermo, e bisognava provvedere il desinare coi piatti fini e i dolci ch’egli esigeva... Tutto il giorno a correre da una casa all’altra, da un punto all’altro della città, sotto la pioggia e la neve! Finalmente rientrava recando al marito la bottiglia di Medoc, la pernice ch’egli le aveva chiesta fin dal mattino e un cartoccio di dolci. E si consolava pensando che il vecchio sarebbe stato contento e l’avrebbe lasciata tranquilla.
Entrando in cucina vide un gran bagliore, e allora si ricordò che non aveva ordinata la legna...
Ma che cosa bruciava nel caminetto del salottino?...
Suo marito si riscaldava tranquillamente a una bella fiammata... Due sedie ardevano, due buone sedie del salottino...
Ella cacciò un urlo... Il vecchio si voltò ridendo. — Hai la pernice?... Hai il Medoc?... Brava!...
Meccanicamente ella depose ogni cosa sulla tavola e scoppiò in singhiozzi.
— Perchè... piangi? — balbettò il vecchio levandosi in piedi.
Egli era una grande carcassa di uomo robusto fiaccato dagli acciacchi. Le mascelle larghe sporgenti, le labbra gonfie, le linee dure, rivelavano una di quelle tempre di egoisti tenaci, che nei frangenti della vita pensano sempre alla propria conservazione.
— Ah! Ah! Ah! Piangi perchè ho bruciato le sedie!... Oh bella! se tu non pensi alla legna... io brucio quello che trovo... Non voglio crepar di freddo!...
I mobili!... anche quelli!... Mentre lei lavorava come una martire, per lui, per mantenergli la vita inutile, per accontentargli i vizi, egli le bruciava i mobili, le distruggeva la casa!...
Non bastava averla ingannata, sposandola, quando lui era già malato, rifinito; non bastava maltrattarla, avvilirla, perseguitarla in tutte le sue inclinazioni!...
Così, dal cuore oppresso della infelice erompevano i lamenti insieme ai singhiozzi.
Ma al vecchio quei lamenti e quei singhiozzi urtavano i nervi.
— Taci... — le andava dicendo — taci, maledetta smorfiosa!... i tuoi amanti ti ricompreranno la mobilia nuova... io sono un povero vecchio!... Io ho freddo!...
All’atroce insulto Noemi scattò.
Amanti?... A lui sarebbe forse convenuto, ma a lei no!... Aveva la pazzia dell’onestà, lei!...
Allora il vecchio brandì il bastone sul quale s’appoggiava nel camminare e le menò un colpo sulle spalle.
Noemi restò un momento come impietrita. Una disperazione indicibile la schiacciava. Era giunta al limite della sofferenza umana.
Si scosse. Alzò gli occhi fieri in faccia al marito, gli strappò il bastone e lo gittò a terra, poi si allontanò.
Un’idea disperata era sorta nel suo cervello; morire, finirla!...
Senza riflettere a quello che faceva, senza interrogarsi, sospinta da un impeto invincibile, ella afferrò un’ampolla, piena di un liquido velenoso che serviva all’infermo, se l’appressò alle labbra e la vuotò.
— È fatta! — mormorò con voce roca.
Il vecchio era ricaduto nella poltrona, stanco per lo sforzo insolito.
Noemi uscì dal salotto. Batteva i denti.
Credette morire subito. Rabbrividì pensando che sarebbe morta vicino al suo tormentatore, senza un conforto, una parola affettuosa.
Andò a rifugiarsi nella sua cameretta. Almeno là sarebbe morta in pace...
Ma il male orrendo del momento cominciò a calmarsi. Non le restò che un senso di nausea e di tratto in tratto un principio di vertigine. Allora intuì la morte lenta, angosciosa, terribile.
Ebbe paura.
Sarebbe morta... morta in mezzo ai tormenti... senza avere gustata un’ora di amore!...
Ah! almeno non voleva morire là! Voleva fuggire... Voleva morire fra persone più simpatiche, vedere presso di sè un volto amico... Sentirsi rimpianta, unica speranza ormai della sua fuggente vita.
Si vestì, con la febbre, scese le scale barcollando, non dimenticando però di pregare la solita buona vicina a prender cura del vecchio durante l’assenza di lei.
— Non ha ancora pranzato. Il brodo è sul fornello.
— Va bene — diceva la donna sorridendo. — Si diverta, signora Noemi! Ci penserò io alla sua casa!...
— Buon divertimento! — ripetevano i bambini della vicina.
In istrada ella fu presa da spasimi così atroci che dovette fermarsi, piegarsi in due...
La nebbia fitta mozzava il respiro.
— Dio! Dio! lasciatemi arrivare fin là!... Perdonatemi, Dio santo! Perdonatemi, e in prova del vostro perdono lasciatemi arrivare fin là!...
Ed ella era arrivata: Dio le aveva perdonato. Lei stessa non avrebbe saputo dire in qual modo ci era riescita. Una forza arcana, che era in lei, nella sua anima, l’aveva sostenuta in mezzo agli spasimi e alle vertigini. Quella forza la sosteneva ancora.
Ma ahimè, presto sarebbe esaurita! La sua testa si perdeva: sentiva il sudore diaccio della morte.
Di tratto in tratto alzava gli occhi e incontrava lo sguardo fisso del giovine pittore. Allora provava una strana sensazione di ritorno alla vita; le sue forze si rianimavano; gli era come se un’ondata nuova di sangue fresco e vigoroso fosse entrato nelle sue vene e ne avesse cacciato il veleno.
Ma dopo brevi istanti, il nemico occulto ritornava all’assalto, e lei era sempre più debole.
Finito! Finito!
La sua vista si annebbiava; per quanto si sforzasse a guardare, ora non li vedeva più quegli occhi neri e amorosi fissi nei suoi: non sentiva più la corrente magnetica di quello sguardo potente, che le ridava la vita.
Finito! La vertigine aveva vinto.
Il valzer fu interrotto. Le mani appesantite e inerti della pianista caddero sui tasti producendo un suono lugubre. Ella si piegò in avanti, e sarebbe caduta se il giovine pittore, che mai aveva cessato di osservarla, non si fosse trovato presso di lei per sostenerla.
Egli l’alzò di peso e la portò sur un divano, che le donne circondarono.
La festa finiva tragicamente, appena cominciata.
Il terrore imbiancava le faccie arrossite dal ballo.
— Muore!...
— Muore!... Madonna santissima!... Signore Iddio!... Muore!... — gridavano le danzatrici spaventate.
Sì, essa moriva. Il volto livido, le occhiaie profonde e nere, gli occhi sbarrati erano segni evidenti di morte.
Alcuni giovani corsero in cerca di un medico alle farmacie più vicine.
Altri tentarono di farle inghiottire dell’acqua calda nella speranza di provocare il vomito; poiché tutti intuivano la possibilità di un avvelenamento. Era tanto infelice la povera Noemi!...
Soltanto il pittore non faceva nulla. Inginocchiato ai piedi della morente, egli la guardava con gli occhi fissi, sbarrati, come quelli di lei e rimaneva immobile, silenzioso. Pareva fulminato.
Improvvisamente Noemi sembrò destarsi dal pesante torpore; girò intorno lo sguardo conscio. Vide il giovine inginocchiato e gli sorrise. L’ultimo sorriso.
La convulsione ritornò più terribile; i dolci occhi si velarono; si smarrirono.
Nello spasimo atroce, con le mani brancicanti, ella afferrò la testa del giovine e la strinse appassionatamente, poi cadde all’indietro, sfinita.
Era morta. E soltanto in quell’estremo istante, l’anima liberata dalla mortale schiavitù aveva rivelato il suo amore.