Nella nebbia/La Cristina
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LA CRISTINA.
Ma l'unico lato ancora esistente del portico faceva sfondo a una corte lurida, dai muri scrostati, trasudanti l’umidità, una corte nella quale il puzzo di stalla e di spazzatura si alternava alle esalazioni delle verdure andate a male nella bottega dell’inquilino erbivendolo e a quelle del cattivo petrolio adoperato dal padrone di casa per rischiarare il superbo scalone e la schifosa portineria. Ma la sala da ballo era stata divisa in due piani e in piccole camerette. Ma sotto il portico erano tante piccole tane umide, basse, alcune rischiarate a mala pena da certe finestrine rotonde formanti parte del vecchio insieme architettonico. Ma lo stesso scalone, eternamente umido, tanto che serviva da barometro agli inquilini, si mutava dopo il primo piano in una scaletta a chiocciola, vero precipizio.
La Cristina abitava appunto in cima alla scaletta in una soffitta ridotta a tana per bestie umane.
Essa era come la casa, una decadenza. Un poeta avrebbe potuto fantasticare che erano nate insieme e che insieme deperivano.
Sulla scaletta il tanfo generale mutava carattere.
E se qualcuno ne chiedeva l'origine, le vicine in coro gridavano:
— I gatti della Cristina.... quella vecchiaccia!...
L’avrò sentita a nominare così venti volte prima di averla veduta.
Non era facile vederla; aveva qualcosa di misterioso. Usciva all’alba per recarsi alla prima messa in San Pietro in Gessate, poi si rinchiudeva nella sua soffitta; altre volte stava fuori tutto il giorno: andava a lavorare — così dicevano — da sarta da uomo in certe case lontane — nessuno sapeva precisamente dove.
Lei proteggeva tutti i gatti in genere, specialmente gli abbandonati; ma due erano i suoi prediletti; uno rosso ed uno nero, grassi, lucidi, insolenti.
Non è a dire quante volte i vicini stanchi, attentassero alla vita di quelle due bestie, col bastone, col laccio e col veleno. Ma avevano finito col crederli invulnerabili, talmente i due furbi sfuggivano a tutti i tranelli. E dopo ogni attentato la Cristina appariva più tragica, più minacciosa.
Un inverno, alcuni anni or sono, essa rimase due giorni e due notti senza rincasare.
Da principio si scherzò.
La Cristina si era fatta l’amante!...
L’avevano rapita al veglione!
No, era il diavolo che se l’era portata via con tutti i suoi gatti!...
Il gatto rosso diffatti non si vedeva, ma il gatto nero saliva la scaletta miagolando spaventosamente.
Si tentò di aprire la camera; era chiusa a chiave.
Una donna insinuò lo sguardo nel buco della serratura e credè di vedere la chiave dalla parte interna.
Dunque la Cristina non era uscita!
Dunque era chiusa dentro insieme al gatto rosso che forse l’aveva strozzata!
Certo era indisposta — forse morta!
Per tutta la sera e la mattina di poi vi fu una processione di esploratori alla serratura di quell’uscio.
E tutti se ne ritornavano col viso sconvolto, affermando che la chiave c’era e che si sentiva un gran puzzo, un puzzo di cadavere!
In quell’occasione, le bocche più timorose si aprirono e le lingue più restie si sciolsero sul conto della Cristina.
Che cos’era veramente?
Ma!... Una poco di buono certo!
Quell’occhio torvo — quel perpetuo silenzio — quella schiena piegata ad arco — quella cupa religiosità e quella sfrenata passione pei gatti, erano brutti indizi!...
Doveva aver commesso qualche nero delitto.
Ammazzato l’amante.... cinquant’anni addietro!...
Strozzato il marito....
Fatto la spia....
Tenuto mano a una associazione di malfattori....
In fondo, non si sapeva nulla, e le immaginazioni si sbrigliavano inutilmente.
Intanto qualcuno andò a chiamare le guardie. Il fatto della morte parve sicuro: l’uscio fu atterrato.
Il gatto rosso spaventato saltò dal letto — un lurido mucchio di cenci; ma la Cristina non apparve nè viva nè morta.
Improvvisamente i monelli che giuocavano nella corte si misero a gridare:
— È qui!... È qui!...
— Arrivaaa!... Arrivaaa!...
Il gatto rosso le corse incontro: il nero l’aspettava come di solito sulla finestrella rotonda in fondo allo scalone.
Ella saliva lentamente, raccolta nello scialle, la testa coperta da un piccolo velo di tulle nero.
Era una figura alta di donna non vecchia ma distrutta dalla malattia e dai patimenti.... la sua schiena curva la faceva apparire schiacciata da immane peso. Erano forse i rimorsi che i vicini le attribuivano....
Allorchè pose il piede sull’ultimo brano della scaletta a chiocciola, e vide la sua camera aperta e la gente curiosa che la guardava, cominciò a tremare, e sulle sue guancie del color della cera apparve un lieve rossore, e nei suoi grandi occhi vuoti si accese un pallido lampo.
— Chi è stato?... — mormorò — Perchè?... Ma un singhiozzo le troncò la parola.
Tornò a chinare la testa — una testa ossuta da uccellaccio spennacchiato — che aveva drizzata un istante, e ricominciò e salire lenta e curva, con evidente fatica.
Come sempre, i due gatti camminavano alle sue calcagna, misurando il passo su quello di lei, fermandosi quand’essa si fermava per pigliar fiato.
Le guardie la interrogarono.
Era stata a lavorare in casa tale, via tale, e perchè pioveva e perchè lei non si sentiva bene, l’avevano trattenuta a dormire.
Le guardie se ne andarono.
Rimasta sola la Cristina si levò il velo e lo scialle, aprì un cartoccio che aveva portato seco, ne trasse un pezzo d’interiora che tagliò in minuzzoli, mentre i due gatti le facevano festa intorno. Poi sedette sul letto con un’aria di sfinimento e stette a guardare le sue bestie che mangiavano ingordamente.
Di tratto in tratto, un lungo tremito la faceva riscuotere e nei suoi occhi morti brillava una lagrima che inavvertita scendeva sulle scarne guancie.
*
* *
Quest’inverno, una mattina in cui il freddo imperversava più crudelmente, le persone che andavano alla prima messa trovarono la Cristina esanime sui gradini della chiesa.
Fu portata all’Ospedale Maggiore dove spirò poco dopo.
Alcuni giorni appresso, un uomo con una faccia torva, da inveterato ubbriacone e un puzzo di zozza che appestava, si presentò alla portinaia per portar via la roba lasciata dalla defunta. — Era il marito.
Per risparmiare ogni spesa, disse che avrebbe fatto lo sgombero da sè a poco a poco.
Così le povere masserizie della Cristina furono portate in processione dall’omaccio avido, per sette giorni di fila; oggi un tavolino bucherellato, domani due sedie zoppe, dopodomani il vecchio materasso....
I gatti, pareva che non potessero persuadersi di tale sperpero: fiutavano i vecchi mobili tanto noti, miagolavano, fiutavano l’uomo, inquieti. Ma l’ubbriacone li cacciava a pedate.
Quando ebbe portato via ogni cosa frugò tutti gli angoli della soffitta, alzò alcuni mattoni, visitò le travi....
Inutile! La Cristina non vi aveva nascosto nulla.
Se ne andò bestemmiando e imprecando alla povera morta perchè non gli aveva lasciato altro che degli stracci.
Intanto, non si sa come, la vera storia della morta cominciò a circolare di bocca in bocca. No, non aveva ammazzato l’amante, nè strozzato il marito, nè commessa alcun’altra ribalderia. Era stata semplicemente una vittima, la vittima di quell’uomo.
Si narrava di dieci figliuoli portati da lui alla ruota, senza un segno, senza un indizio, perchè la madre non potesse ritirarli.
Si descrivevano i particolari di scene orrende, di mali trattamenti d’ogni genere.
Nell’ultima gravidanza la sventurata donna si era giurata di salvare la sua creatura; e per essere più sicura andò a rifugiarsi in casa di un’amica.
Ma il marito la trovò e la picchiò tanto che le fece mettere al mondo una bimba morta.
Da quel giorno non si curò più di lei.
Egli stesso confessava di non aver mai più saputo cosa fosse divenuta, fino al giorno in cui sentì dire che una certa Cristina era stata trovata morta davanti alla chiesa di San Pietro in Gessate. Allora gli era venuto in mente di andare a vedere se era veramente «quella fannullona» e se gli aveva lasciato un poco di roba!...
E rideva, cinicamente, crollando il capo.
⁂
Dopo queste relazioni i vicini parlavano molto pietosamente della vecchia Cristina, della Cristina dei gatti; e quelli stessi che le avevano trovata una faccia di birbona, si vantavano ora di averla sempre stimata e indovinata buona, per quel non so che di dolce che aveva nel sorriso, per la pietà verso le povere bestie.
Ma di questo ritorno dell’opinione pubblica, nell’antica villa decaduta, approfittano soltanto il gatto rosso ed il gatto nero.
Quegli stessi uomini e quelle stesse donne che tante volte attentarono alla loro vita, ora si sono messi a nutrirli amorosamente in omaggio alla morta.
Pare però che i due gatti non vogliano più affezionarsi a nessuno e rimanere indipendenti nel loro naturale egoismo.
Non seguono nessuno, non vanno incontro a nessuno. Si vedono quasi sempre allo stesso posto, sulla finestrella rotonda in fondo allo scalone, ritti sulle zampine davanti, quelle di dietro ripiegate sotto il corpo, immobili, col musino sporgente, nella loro posa di bestie monumentali. Forse aspettano sempre la vecchia. Forse filosofeggiano sulla tristezza e la mutabilità delle cose umane.
Sembrano gli dèi lari dell’antica casa.