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Quella sera le nove erano suonate da un pezzo, e la pianista sempre così puntuale, non giungeva ancora.

I giovinotti, tutti presenti, formavano in mezzo alla sala un gruppo di teste brune, bionde, castagne e di abiti... non tutti neri... Oh! no, davvero. I soci del Se sa minga si ribellavano alla tirannia dell’abito nero e dei relativi accessori.

Le signore arrivavano alla spicciolata, a gruppi, a flotte. Un padre di famiglia conduceva una mezza dozzina di ballerine nei loro semplici abiti della festa. Un negoziante di chincaglie, magrissimo, accompagnava la moglie, enorme, ma allegra, simpaticona. Alcuni pittori introducevano francamente le loro amanti, belle ragazze dal viso fresco, dagli abiti attillati. E nel medesimo tempo la ex-direttrice di un collegio in voga, la quale ora teneva in pensione alcune future maestrine, arrivava tranquillamente con le sue dozzinanti, buone fanciulle, dai vezzi ingenui, smaniose di ballare.

Tutte entravano allo stesso modo, tra irate e ridenti, gemendo o scherzando coraggiosamente, come chi viene dall’avere attraversato un pericolo; e chi si levava le soprascarpe di gomma, chi cercava di pulirsi in qualche modo gli stivalini.

Gli è che la casa si trovava come in un deserto, in fondo a una via in costruzione, dove le vetture non potevano passare. Quando la pioggia o la neve avevano inumidito il terreno, bisognava camminare sulle pietre sparse in mezzo al fango, facendo salti e sgambetti che non sempre riescivano bene.

Appena in sala, le signorine guardavano il pianoforte ancora muto e la sedia vuota della pianista.

— Non si balla stasera?