Necrologia dell'avv. Giovacchino Benini di Prato
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NECROLOGIA
dell’avv.
DI PRATO
PER CESARE GUASTI
Chi faceva tanto d’arrivare a Firenze quando il viaggiare era meno agevole (parlo d’un trenta o quarantanni addietro), una mezza giornata a Prato la passava; che le solite Guide vi notavano qualcosa da vedere per chi amasse le arti del bello e dell’utile. I viaggiatori poi, che a Firenze avvicinavano il Vieusseux (ed erano molti e diversi), a Prato cercavano dell’Avvocato Benini; e alle commendatizie del signor Giampietro era fatto buon viso. Poi dalle conoscenze nascevano altre conoscenze; ai viaggiatori geniali o studiosi subentravano i politici; quando la Toscana divenne rifugio a’ cacciati d’ogni Governo italiano, e gli esuli celebravano quel mitissimo reggimento. Molti a quest’ora non son più; ma ne debbono restare non pochi, i quali, ove leggessero queste pagine, si risovverrebbero dell’ospite pratese. Egli tenne certamente ricordo di tutti; chè fin da giovane ebbe quel costume bello degli antichi, di far cronaca de’ menomi particolari, che diventano col tempo elementi di storia: e parecchi avranno registrato ne’ loro diarii il nome di lui con parole di riconoscenza, non tanto per aver fatto, come diciamo, gli onori della città al forestiere, e aperta la propria casa cordialmente, quanto per essere stato largo di notizie a coloro che viaggiando studiavano. Niccolò Tommaseo, che visitò Prato fra il 33 e il 34, e, osservatore acuto non men che amorevole, giudicò quanto vide o seppe, così parlava del nostro Benini. «Ama d’esemplare amore la storia patria, e tutte le notizie che riguardano Prato, diligentemente raccoglie»: e lo diceva raccoglitore indefesso di quelle sentenze, in cui il popolo condensò, per così dire, la dottrina di molti volumi, andando al pratico, e fondandosi sulla esperienza de’ bisavi1. Il Benini, ricordando questa sua raccolta di Proverbi italiani col confronto dell’altre lingue, notava con una certa compiacenza: «lavoro che lodò Tommasèo». E lì pure registrando una sua traduzione dal francese, che lo stesso Tommasèo aveva desiderato «più italianamente fatta»2, con molta schiettezza scriveva: «parola severa, che anche subito trovai giusta». Questo prova, che non meno della lode gli piaceva la verità: come prova, che pur vedendo di non scrivere castigato, riconosceva il dovere che lo scrittore ha di curare lo stile e la lingua. Ma il difetto in lui venne prima dallo scuole; poi, non riparato da uno studio particolare, si confermò nell’uso degl’idiomi stranieri.
Delle scuole parlando in alcuni suoi ricordi, non dice il Benini d’esser passato sotto la disciplina d’un tal maestro, ma «sotto il nerbo»; e fino all’umanità, confessa, «da nessuno imparai cosa alcuna». Nato a’ 23 di febbraio del 1799, ebbe i maestri che davano i tempi; ma la piccola Prato, in confronto d’altre città, non si poteva dire sfornita di precettori valenti. «Avevo circa dodici anni (egli scrive) quando passai alle scuole comunali, dove insegnava allora il Silvestri. Quivi trovai un po’ di gara, e la maggior parte studiavano di buona voglia. La memoria principalmente era esercitata: tutto si faceva a mente». Chiamato il Silvestri a Brescia, gli toccò per maestro di rettorica nel collegio Cicognini un abate Lepri, che «sapeva il suo mestiero, aveva buon gusto, e adoperava per la scuola i migliori libri che allora si conoscessero. Ivi conobbi Dante; ivi imparai qualche regola di grammatica; ivi, senz’aver mai saputo fare un verso (ciò che in que’ tempi era un torto gravissimo), passai per uno de’ migliori scolari». Fatta la geometria dal canonico Sacchi e la filosofia dal Ciardini, andò nel 1815 all’università di Pisa, «Comproprietario (sono sue parole) di due accreditate farmacie, vissuto fino da bambino in una di esse; avendo assistito ad alcune sperienze del Carradori in storia naturale, specialmente sulle testuggini; avendo fatto alla peggio un corso di chimica sotto il dottor Sacchi; il mio interesse mi voleva medico». Ma studiò legge, e a’ 7 di giugno 1819 prese il grado di dottore. Negli anni dello pratiche in Firenze contrasse amicizia con vari giovani coetanei, noti sin d’allora al foro e alle lettere (ricorderò il Salvagnoli, fra gli altri); e al dotto giureconsulto Vincenzio Giannini, poi presidente del Consiglio di Stato, si legò d’un affetto che aveva qualcosa della riverenza. Ebbe titolo di avvocato, ma non so che ne imprendesse mai l’esercizio.
Fino da quel tempo lo trovo inteso a promuovere in patria un’arte che i miei cittadini non avevano punto coltivata avanti al secolo decorso; dico la stampa, che il vescovo Ricci introdusse in Prato per meglio diffondere le sue novità: e l’episcopio fu la prima stamperia pratese. Brutte edizioni di libri facilmente dimenticati uscirono in que’ dieci anni; e il nome del Vestri con quello del Bracali di Pistoia fu allora spesso ripetuto o tartassato nell’effemeridi e nelle polemiche: poi non lo conobbero che i merciai di storie e di lunari. Un po’ dopo al Vestri rizzò torchi il Vannini; ma senz’ombra di gusto, nè scelta d’opere, nè correzione, produsse innumerabili dozzine di que’ libri che i fanciulli consumano provvidamente. Solo la ristampa del Malmantile, le prime trecento Iscrizioni del Muzzi e qualche opuscolo del Silvestri rammenteranno que’ torchi a’ nostri nepoti. Ma declinando il quarto lustro del secolo, Vincenzio Giachetti, chirurgo uscito dalla scuola del Nannoni, avviò pe’ figliuoli una tipografia, che coll’opere insigni del Winckelmann, del D’Agincourt e del Cicognara si rese tosto benemerita degli studi dell’arte, e con altre notevoli pubblicazioni (basti ricordare la Bibbia volgarizzata da monsignor Martini) acquistò nome anche fuori d’Italia. Io dirò che il Benini e il canonico Baldanzi contribuirono a formare la reputazione delle stampe Giachettiane; perchè la scelta delle opere e la emendata lezione, son pregi che superano quello stesso della nitidezza e dello splendore tipografico; ond’è che vediamo, a mo’ d’esempio, non poche Bodoniane, per la futilità dello scritture bellissimamente impresse, rimanere obliate negli scaffali delle biblioteche. Curò il Baldanzi (per tacere di minori fatiche) la edizione delle Storie di Giovambatista Adriani, non indegno continuatore del Guicciardini; e il Giordani, che fino dal 1816 l’aveva raccomandato a’ tipografi italiani, ne parve contento3. Al Benini toccò la parte del tradurre e del compilare; parte modesta, ma non facile; di cui neppure gli seppe grado quella che i vecchi chiamavano con serietà Repubblica letteraria. Perchè Stefano Ticozzi (autore di molti lavori più o meno abborracciati) metteva il nome su’ frontespizi; mentr’è certo che il Benini tradusse dal terzo al sesto volume del D’Agincourt, e voltò molti brani del Winckelmann dal tedesco, massime per le note prese dall’edizioni originali. E se il Ticozzi voltava la Storia della rigenerazione della Grecia di Pouqueville, che con la data d’Italia uscì dalle stampe de’ Giachetti negli anni dal 25 al 28, quando al grido degli Elleni rispondeva l’Europa, e i canti di Riga e di Solomos ridestavano un sospiro di libertà ne’ petti latini; il nostro compilava la Notizia sulle soscrizioni a favore de’ Greci, che si legge nel dodicesimo tomo, e l’intiero volume diciottesimo della Continuazione. Pe’ Giachetti, a preghiera dell’autore, tradusse nel 1830 il Ristretto della storia della Letteratura italiana di Francesco Salfi; se non che, permessane la stampa solo a patto di tagliare, uscì nell’anno dopo a Lugano in due volumetti.
La stampa fu per il Benini una nobile passione. Dopo d’aver lavorato per la nuova tipografia sorta in Prato col nome di Aldina, finì coll’esserne comproprietario. Ne io voglio qui ricordarne che tre imprese: la ristampa di tutte l’opere di Papa Lambertini: la collezione de’ Classici latini per le scuole con note italiane, cominciata sotto gli auspici del canonico Silvestri da’ Professori del collegio Cicognini, illustrata poi da’ commenti del Bindi e d’altri filologi: il Lessico e l’Onomastico latino, opere insigni del De Vit, a cui deve l’Italia (ma par che appena se n’accorga) se l’eredità dei Forcellini e dei Facciolati non è passata negli stranieri. E questo pensiero dovè animare il Benini a entrare in un’impresa, dalla quale non poteva attendere subiti guadagni: come son certo che v’ebbe parte il desiderio di procurare questo nuovo vanto alla tipografia pratese; giacchè sempre, in ogni alto della sua vita, e giungo a dire negli stessi sdegni, traspariva un affetto generoso di patria.
Quando i Pratesi vollero murare un teatro, fu il Benini de’ promotori: fondandosi la Cassa di risparmio, anch’egli fu de’ primi a concorrere: quando il Magnolfi (l’uomo venerando, che tuttora vive tra’ figliuoli di quel popolo di cui egli pure è figliuolo) apriva un asilo all’infanzia e una cosa agli orfani, il Benini e il Baldanzi gli erano accanto a consigliarlo e a difenderlo (poich’è fatale che le buone opere abbian d’uopo di chi lo difenda): languendo l’Accademia di lettere fra’ sospiri di Nico e di Fille, il Benini e pochi altri la richiamavano a studi più seri. «La pratese Accademia (scriveva il Tommasèo nel 34) potrebbe volgersi tutta all’illustrazione delle cose patrie, e al miglioramento de’ patrii istituti; che ve n’ha di bellissimi. E alcuni giovani già cominciano a trattare con cura simili studii». Era allora segretario dell’Accademia lo stesso Benini, che nel 1835 vi leggeva la Proposta d’una Società di mutuo soccorso fra gli operai di Prato: ma i desiderii del Tommasèo non furono così tosto appagati; e quando gli accademici Infecondi (malaugurale parola) s’adunarono a parlare degli antichi Pratesi, i moderni non vi badarono. Vero è, che in quegli anni il Baldanzi illustrava i dipinti del Gaddi e del Lippi, le sculture de Maiano (più tardi pubblicò in maggior volume la Descrizione della Cattedrale): e il nostro Benini mandava al Tipaldo, perchè la inserisse nella sua Biografia degli illustri Italiani del secolo XVIII, la Vita del celebre Carradori, con alcuni appunti bibliografici sul Pacchiani; mandava al Bowring la Statistica di Prato, che si trova in un libro di quell’inghilese, stampato con la falsa data di Londra nel 18384.
In quel lavoro accurato parve allo stesso Bowring troppo severo il giudizio sulla moralità del popolo; nè io, parlandone nella Bibliografia Pratese5, potei tenermi dal farne un po’ di lamento all’autore anonimo. Ora io debbo tener conto di alcune cose, che poi seppi. Il Bowring fu a Prato nel 36, e condotto dal Benini a vederne gli opificii e gl’istituti, potè formarsene un’idea sufficiente: ma di lì a qualche giorno, mandò dei quesiti; a’ quali il Pratese replicò subito, senza pensare al pubblico; pensando anzi, che lo straniero ne userebbe discretamente. Lo straniero, invece, notando pur la severità di alcune sentenze, stampava tal quale lo scritto; da cui pur traspare, nella stessa esagerazione del male, un affetto accorato.
«Scrissi (dice egli stesso in certi suoi ricordi) currenti calamo quelle risposte». Ed è credibile, essendo tale il suo stile, ed avendo in pronto la materia: chè da vari anni, come segnava mattina e sera il nuvolo e il sereno, e ogni accidente del mondo fisico, così teneva dietro a’ cambiamenti del mondo morale; e la popolazione crescente o decrescente i commerci e le manifatture floride o incagliate, il lusso e la miseria, il vizio e l’ignoranza, la virtù e il sapere, bene e il male insomma, osservava di tempo in tempo; elevandosi dai dati statistici a quelle considerazioni che formano la scienza politica. Nomi nuovi allora, e studi sospetti: perchè si vedeva bene che i popoli, cominciando dal fare un po’ d’inventario e di bilancio, avrebbero finito col rivedere i conti agli amministratori. E il Benini sentiva lo spirito de’ tempi; onestamente lo secondava. Direi ancora, che un’aura del secolo passato fosse venuta fino a lui: ma la prima educazione (egli la ripeteva dalla madre, benefica donna, carattere risoluto e di molto buon senso); la conoscenza di tanti, che dà modo a paragonare, e fa stimare più i buoni; finalmente la sventura, ch’è scuola di perfezione; lo ritennero nelle regioni serene della cristiana sapienza, dove a piè del dubbio rampolla il vero, e l’ombre dan risalto alla luce.
Non scese il Benini propriamente nel campo della politica; sebbene suo fosse il Programma per il comitato elettorale del 48, sue in gran parte le Avvertenze sulla legge elettorale toscana, e sue le Istruzioni per il deputato pratese. Il Comune mandò altri a rappresentarlo: e se alcuno lo potè credere ambizioso d’esser prescelto, non si ricordò che bastava volere. Ma egli possedeva la signoria delle proprie idee, che ben fu detta più ammirabile e difficile di quella de’ propri affetti; e la costanza ne’ principii era tale in lui da parere difetto. Parve anzi a certuni, pe’ quali il mutar pensiero è come cambiar di panni. Il Benini era liberale: sdegnando però ugualmente cortigiani e settarii, non voleva la libertà nè data per balocco nè adoperata come flagello; e però non ebbe i favori delle anticamere, nè i suffragi della piazza: ma ogni governo lo tenne in conto d’onesto, e il popolo lo trovò sempre benefico. Quando un giornale democratico stampò nel 48, che non s’era fatto mai nulla per le così dette masse, il Benini prese a mostrare in un lungo scritto, quello che da’ nostri maggiori s’era fatto in Prato per cacciar dal popolo l’ignoranza e alleviar la miseria. Fu questo uno dei lavori ch’egli diede al Calendario Pratese; libro modestissimo, cominciato a pubblicare nel 1845 da una compagnia di cittadini, ch’io ebbi la sodisfazione di tenere uniti nel dolce studio delle patrie memorie. Tre generazioni vi concorsero: due eletti ingegni della nuova, il Fossi e il Costantini, si spensero prima dei più vecchi; e ora, trascorsi appena tre lustri, il numero dei morti agguaglia già quello de’ superstiti. Ne’ sei volumetti del Calendario tornò il Benini per sei volle a esporre la statistica della Popolazione; vi ristampò la Vita del Carradori; v’illustrò, a modo del Litta, una famiglia distinta; vi fece la storia del Monte di Pietà, a cui egli stesso presedè bene per molti anni, e propose un nuovo Regolamento.
Ho accennato a sventure: ma se non le debbo passare in silenzio, non oso descriverle, dopo che gentili spiriti, con elettissime rime e prose, ne fecero per l’Italia compianto 6. Carolina Bartolini a ventitre anni lasciava il Benini con due pargolette: ed egli, che non fece mai versi, per meglio scolpirselo nel cuore, versificò il ricordo ultimo della consorte:
Non lasciar mai le figlie insino al die |
che l’Arcangeli, in quell’Epistola pietosissima mandata allora all’amico, abbreviò in un solo:
Pensa alle figlie, ah! non lasciarle mai; |
e il Salvagnoli chiuse in un’epigrafe:
Serbati tutto alle figlie; |
più teneramente il Muzzi, nell’iscrizione che fu incisa sulla tomba:
Non lasciar mai le bambine!7 |
Questo mai, ripercosso come da tanti echi, s’impresse fortemente nel cuore di lui: e il voto della morente fu adempiuto. Pensò il Benini alle figliuole, crescendole alla virtù e al sapere; non le lasciò: ma esse nel giro di pochi mesi lasciarono lui, povero padre; che in quegli stessi giorni, nella sua propria casa, accoglieva l’ultimo respiro dell’Arcangeli. E due lustri sopravvisse all’Ebe e all’Ada; nei quali la loro nemoria per ogni guisa onorando, cercò sfogo più che sollievo al dolore. Può dunque a ragione affermarsi, che non lasciasse le figliuole mai: e il giorno decimoquinto del passato dicembre, colto repentinamente, ma non impreparato, dalla morte, le andò a ritrovare con la madre nella vita immortale.
Il pensiero nel mesto decennio si rivolse anche al paese nativo: e, senz’aspettare l’ultim’ora, donò ai cittadini quello che oramai gli restava di più caro, la scelta e copiosa librería8. «Mio principale studio (è un suo ricordo) è stata sempro la Biografia; par il che, avendo comprato quelle stampate, compatibilmente co’ miei mezzi pecuniarii, non son mai rimasto dall’aggiungervi, dall’annotarvi, dal correggervi; oltrechè ho riuniti già tre grossi volumi (questo scriveva venti anni addietro) di Biografia antica e moderna, ricopiando, estraendo e compilando tutto quanto faceva al mio scopo». Questi, con gli altri suoi manoscritti e la corrispondenza epistolare, saranno conservati nella Roncioniana, di cui il Benini fu bibliotecario d’onore.
Così alla città di Prato, in meno di due anni, son mancati quattro cittadini degnissimi di memoria. Il Silvestri, latinista de’ primi, per mezzo secolo educatore o maestro, che potè sicuramente chiamarsi L’amico della studiosa gioventù: il Muzzi, dotto filologo, e nella volgare epigrafia primo: monsignor Baldanzi, che nella illustrazione de’ monumenti d’arte seppe congiungere all’erudizione il vivo senso dal bello9: da ultimo l’avvocato Benini, che se fu, più degli altri, uomo di municipio, non fu meno degno, per l’animo e per gli studi, d’essere ricordato in questo periodico che s’occupa di storia nazionale e s’appella dal nome d’Italia. La quale, come non potrà mai disconoscere che la sua storia più bella sta scritta nelle memorie municipali, così dovrà dalle istituzioni che più ritengono della famiglia, dalla vita che più s’inspira alla natura, attendere nuova forza d’ingegni, temperanza d’animi, uso vero di libertà; quello, insomma, che non altrimenti che il puro aere e il sano nutrimento ne’ corpi, trasfonde nelle membra d’una nazione vigore e bellezza.
Monsignore illustrissimo e reverendissimo
È da quel tempo in cui un crudele destino mi tolse anche l’ultima delle mie carissime Figlie, che mi occupa più frequentemente la mente un’altra delle mie affezioni, quella della mia libreria. Mi ha sempre repugnato e mi repugna l’idea della di lei dispersione ed annientamento, dopo che essa mi è costata tanto denaro, e dopo che è stata sempre la più continua mia occupazione, e da qualche tempo in qua il mio unico conforto. Pensava sempre per conseguenza, al modo di conservarla permanentemente, per quanto è dato almeno di provvedere alla conservazione degli oggetti che il tempo deteriora o consuma. Riconosceva peraltro nel tempo stesso, che i miei libri non costituiscono per sè soli una biblioteca completa, e degna di esser conservata e mantenuta per se medesima. Quel più dunque ch’io potessi sperare per essa, sarebbe di vedere almeno la miglior parte di loro aggiunti a qualche biblioteca di gia esistente. Ed il mio pensiero non poteva meglio portarsi che alla biblioteca Roncioniana, co’ proprietari della quale, i signori Seniori, mi lega da quasi tutta la vita per alcun affetto e gratitudine sinceri, per tutta reverenza e rispetto
Vorrei dunque pregarli (e niuno migliore organo per esprimere questo mio desiderio poteva scegliere di Lei, pregiatissimo Monsignore, chiamato alla direzione ed alla suprema custodia di questo pregevolissimo fra i nostri patrii Istituti), vorrei dunque pregarli, ripeto, a volere esser cortesi della loro ospitalità indefettibile a quelli fra i miei libri, che credessero degni di tale onore; niun’altra condizione assegnando a questo passaggio, se non la riunione della loro sorte a quella degli altri precedentemente custoditi, e della loro conservazione ad uso e benefizio dei nostri concittadini.
Se la mia domanda fosse accolta dai signori Seniori, si potrebbe sin d’ora estrarre dal catalogo de’ miei libri, quelli che dovessero passare nell’immediata proprietà dei signori rappresentanti la biblioteca Roncioniana, per ritenerne io, almeno di una gran parte di essi, l’uso, mia vita natural durante; dovendo essere alla mia morte restituiti dai miei eredi, come assoluta proprietà di quello stabilimento. Fin d’ora potrebbero esser tutti muniti del bollo e della etichetta propri della Biblioteca.
Queste sarebbero le mie intenzioni generiche. E quando esse vengano accolte, ci troveremo facilmente d’accordo sul medo di mandarle ad esecuzione.
Oso, per il caso di accettazione, raccomandare specialmente fin d’ora la conservazione delle parti biografica e bibliografica; e questo, tanto per la parte stampata, quanto per quella manoscritta; insieme con tutto quello che può servirle di corredo e di appoggio. E raccomando egualmente, e con vivo sentimento d’affetto e di rammarico raccomando, i manoscritti o la corrispondenza del mio carissimo amico professore abate Giuseppe Arcangioli, già legatimi, come pure i manoscritti, e tutto quello che si riferisce alla troppo breve esistenza delle mie dilettissime Figlie, cogli autografi che hanno servito per l’edizione del Ricordo da me consacrate alla loro memoria e a quella del mio nipote e genero dottor Giovanni Costantini.
Se questa mia proposta avrà favorevole accoglienza, lo dovrò principalmente alla sua valentissima interposizione; fidandomi nella quale, Le anticipo i ringraziamenti per il favore sperato, come se lo avessi già ricevuto. E passo a segnarmi con sentita venerazione di Lei, Monsignore illustrissimo e reverendissimo
Di Casa, li 25 dicembre 1858
dev obb servitore |
Estr. dall’Archivio Storico Italiano,
Terza Serie, T. V. P. I.
Note
- ↑ Tommaseo, Gita a Prato; nel giornale napoletano Il Progresso, an. III (1834), quaderno xvi.
- ↑ Antologia di Firenze, quaderno di Luglio 1831, pag. 116.
- ↑ Giordani, Opere, I, 145, edizione del Lemonnier
- ↑ Statistica della Toscana, di Lucca, degli Stati Pontifici ec.; Londra, 1838. (Firenze, tipografia Galileiana).
- ↑ Prato, 1844.
- ↑ Ricordo di Ebe e Ada Benini e di Giovanni Costantini. Prato, 1856. Seconda edizione accresciuta. Ivi, 1863; con sei Appendici. — Alcuni scritti editi e inediti di Ada Benini Costantini. Prato, 1864.
- ↑ Iscrizione e versi dettati in morte di Carolina Bertolini Benini. Prato, Giachetti, 1834.
- ↑ Reco in fine la lettera che contiene la donazione.
- ↑ Monsignor Ferdinando Baldanzi fu iscritto dal Vicusseux fra i Cooperatori dell’Archivio Storico Italiano. (Ved. Appendice all’A. S. I., tomo V, pag. 343) Era nato il 15 d’agosto 1789. Col Benini, suo amicissimo fino dalla prima gioventù, partecipò l’amore delle cose patrie, e ne diede splendide testimonianze con gli scritti. Eletto vescovo di Volterra del 1851, fu traslatato nel 1855 all’arcivescovado di Siena, dove morì nel marzo dell’anno decorso.