Merope (D'Annunzio)/La canzone della diana

La canzone della diana

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La canzone dei trofei La canzone d'Elena di Francia


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LA CANZONE
DELLA DIANA

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T
UTTI i cipressi fremono. O Canzone,

squilla! I corvi dall’arco tiburtino
3s’alzano andando verso il Teverone1.

Altrove è l’alba. Un pascolo marino
è l’Agro. L’Urbe è un’isola. Si spande
6la più gran luce sopra l’Aventino,

verso la Porta d’Ostia, in sette bande.
Nell’ombra del Gianicolo tre vele
9rosse rimontan verso Ripa Grande.

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Sul Mausoleo l’Arcangelo Michele
sfolgora. Ritto sta su l’altra mole
12a cavallo il secondo Emanuele.

Ninfa perenne dalle mille gole
l’acqua canta le origini del Lazio.
15Niuna cosa mai tu veda, o Sole,

maggior di Roma! Il numero d’Orazio
a quando a quando par, tra l’Arce e il Fòro,
18riecheggiato nel divino spazio.

Pieno di nume è l’aere sonoro.
Tronca la quercia un dio sul Celio? taglia
21un eroe sul Gianicolo l’alloro?

Riarde ai Quattro Vènti la battaglia
sublime? ancóra fumiga il Vascello?
24ancóra il sangue bulica e s’accaglia?

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ancóra ai giovinetti ebri il mantello
bianco del condottiere è l’ala intatta
27della Vittoria? il Dandolo l’appello

ultimo fa su la scalea scarlatta
ove sopra i cadaveri il cavallo
30del gran Masina dà l’ultima stratta?

Irto di furia è il muto piedestallo.
I bersaglieri di Lucian Manara
33disperati empion d’animo il metallo.

Laggiù, guatano il ciel che si rischiara
dietro il muro di fango, nel palmeto,
36i bersaglieri di Gustavo Fara.

Laggiù, sotto la cupola che sgretola,
arde l’araba lampada al bivacco
39e la vedetta sta sul minareto.

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Pietro Ari2 laggiù tra sacco e sacco
spia l’Oasi, con l’occhio a mira certa,
42tranquillo masticando il suo tabacco.

I mozzi, come fossero in coverta,
stanno alla guardia della batteria
45sopra il sabbione; e l’un per gioco “Allerta

a proda!„ grida. E vien dalla Menscìa,
con l’afa dei cadaveri, odor d’erbe
48arse nel vento, odore di gaggìa.

Poggiato al pezzo il morituro imberbe,
che morderà la sabbia, i denti bianchi
51ficca nel pane e nelle frutta acerbe.

Odesi il canto dei soldati stanchi
che scavan le trincere nelle tombe
54dei Caramanli. Il canto li rinfranchi.

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S’ode nel cielo un sibilo di frombe.
Passa nel cielo un pallido avvoltoio.
57Giulio Gavotti porta le sue bombe.

Laggiù, presso la mola d’un frantoio
o presso i tronchi d’un’antica noria
60onde pendon consunti e corda e cuoio,

sorride un morto all’invisibil gloria.
Il paradiso è all’ombra delle spade
63e la delizia è il fior della vittoria.

Ulula per i campi senza biade
il duolo delle donne beduine
66alterno, ed or s’inalza ed ora cade.

All’ombra d’una palma, sul confine
dell’Oasi, una croce rude è fitta
69in un tumulo cinto dalle spine.

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Nome inciso non v’è, non lode inscritta:
altro segno non v’è se non l’eterno.
72Sola una nudità vi splende invitta.

Un dal tuo più profondo sen materno
escito, Italia, un figlio tuo vi dorme;
75che s’ebbe anch’egli forse il pianto alterno

là nell’isola dove l’ombra enorme
del Passato covar sembra il nuraghe
78perché ne sorga un popolo conforme.

Non la madre mortal toccò le piaghe,
né le lavò, né le fasciò di bende,
81già consunta dall’ansie sue presaghe.

Ma tu guardasti le ferite orrende
e componesti il corpo in quel sepolcro.
84Sola una invitta nudità vi splende.

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E la terra fu tua per quel sepolcro,
tutta la terra inclusa tra la Sirte
87e il Deserto fu tua per quel sepolcro!

Canto l’azzurro e l'oro della Sirte,
l’azzurro che nel grande oro s’insena,
90ove non dagli scogli ma dall’irte

navi con l’urlo lungo la sirena
lacera l’aria pregna dell’aroma
93che inebria i prodi; e bianca su l’arena

Tripoli infida cui la guerra schioma
come femmina presa per le trecce
96dalle pugna del maschio che la doma.

Le sue palme schiantate, le sue brecce
fumide canto; canto i suoi villaggi
99rasi che brucian come in luglio secce

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di Maremma, onde fiutano i selvaggi
poledri il dubbio odore delle chiatte
102ben costrutte e nitriscono ai foraggi

salini che pascean lungo le fratte
di tamerici, presso i sepolcreti
105sonori dove il mare etrusco batte.

O terra di sepolcri e di forteti,
Maremma, canto la tua razza equina,
108la ben crinita razza che disseti

nel sarcofago tolto alla ruina
di Saturnia o di Volci e che rinfreschi
111con un germoglio roscido di brina.

Salute, o terra degli Aldobrandeschi!
Pioggia e sole ai tuoi bradi la criniera,
114come l’ocra e la robbia ai barbereschi,

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arrossano finché di primavera
tu non li marchi all’anca e alla ganascia
117per arrolarli sotto la bandiera.

La chiatta a fondo stagno il mastro d’ascia
chioda, coi sacchi d’aria e con le botti
120l’aiuta, con i canapi la fascia.

I cavalli s’impennano, condotti
alla gru; cinti dell’imbraca, appesi
123al paranco, paventano. Interrotti

sibili, canti di fatica ai tesi
canapi, voci di comando, liti
126di battellieri, gergo di Maltesi,

schianti d’assi e di tavole, nitriti
e scàlpiti nel vento che ridonda,
129sudore e schiuma, urti d’abbordo, attriti

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di ferramenta; e tutta l’aria è bionda
come su Talamone; ed agli approdi
132i maremmani giungono con l'onda.

Maremma, canto i tuoi cavalli prodi.
Tra sangue e fuoco ecco un galoppo come
135un nembo. È la cavalleria di Lodi,

la schiera della morte. So il tuo nome,
o buon cavalleggere Mario Sola.
138Giovanni Redaelli, so il tuo nome;

Agide Ghezzi, e il tuo. “Lodi„ s’immola.
E veggo i vostri visi di ventenni
141ardere tra l’elmetto e il sottogola

o dentro i crini se il cavai s’impenni
contra il mucchio. Gandolfo, Landolina,
144alla riscossa! Tuona verso Henni.

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Tuona, da Gargarèsch alla salina
di Mellah, su le dune e le trincere,
147su le cubbe, su i fondachi, a ruina,

su i pozzi, su le vie carovaniere.
La casa di Giammìl ha una cintura
150di fiamma. Appiè, appiè, cavalleggere!

Vengono di Taruna e di Tagiura,
vengon di Gariàn e di Misrata;
153e dal Deserto un’altra massa oscura

s’avanza già sotto la cannonata.
Or biancheggiano al vento i baracani:
156s’arrossano se scoppia la granata.

Occhio alla mira ferma, o cristiani.
Solo chi sbaglia il colpo è peccatore.
159Vi sovvenga! Non uomini ma cani.

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Per secoli e per secoli d’orrore,
vi sovvenga! Dilaniano i feriti,
162sgozzan gli inermi, corrono all’odore

dei cadaveri, i corpi seppelliti
disotterrano, mùtilano i morti,
165scempiano i morti. Straziano i feriti,

gli inermi, i prigionieri, i nostri morti!
Vi sovvenga. Dovunque è il tradimento,
168nelle case, nei fondachi, negli orti,

nel verde d’ogni palma, nell’argento
d’ogni olivo, allo svolto d’ogni via.
171I marinai lo fiutan sottovento.

O Tripoli, città di fellonìa,
tu proverai se Roma abbia calcagna
174di bronzo e se il suo giogo ferreo sia.

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Avanti, o Bracciaferri, Adorni, Bagna,
Pergolesi, Coralli! Il maschio Fara
177vi guarda. Cresce il sangue e mai non stagna.

Tutti in piedi. Nessuno si ripara.
Chi cade, si rialza; e poi stramazza.
180La spalla del soldato è la sua bara.

Immune su la grandine che spazza
l’Oasi atroce, splendido nell’alto
183cielo un alato spia. Salute, o Piazza,

Mòizo, Gavotti dal tuo lieve spalto
chinato nel pericolo dei vènti
186sul nemico che ignora il nuovo assalto!

Anche la morte or ha le sue sementi.
La bisogna con una mano sola
189tratti, e strappi la molla con i denti.

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Poi, come il tessitor lancia la spola
o come il frombolier lancia la fromba
192(gli attoniti la grande ala sorvola)

di su l’ala tu scagli la tua bomba
alla sùbita strage; e par che t’arda
195il cuor vivo nel filo della romba.

Non guarda il cielo Pietro Ari. Guarda
tra sacco e sacco. Pelle non scarseggia.
198Sceglie, tira, non falla. È testa sarda.

Non si volta, non grida né motteggia.
Mira e tira. Una palla squarcia un sacco.
201Una rimbalza su la canna e scheggia

la cassa. Un’altra viene a tiro stracco
e un po’ lo pesta. Un’altra vien di schiàncio
204e lo strina. Egli morde il suo tabacco.

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È a testa nuda, testa quadra. A un gancio
pende l’elmetto. Intorno è pien di bòssoli.
207Ancor nella gamella è caldo il rancio.

Anima, corpo e patria son nel fosso
come in un focolare più capace
210che l’arborense. Una man sacra ha smosso

col ferro nella cenere la brace
dentro il cerchio dei sassi. Le sorelle
213cuciono in sogno il suo gabban d’orbace.

Ei dormirà, come le prime stelle
tremino, su la stuoia stesa in terra.
216Or è nella mislèa. “Pelle per pelle„

dai padri suoi che dormono sotterra
fu comandato. Or contro questi cani
219sta con fegato buono a mala guerra.

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Quante gandùre, quanti baracani
colcò, sotto la grandine che scroscia!
222Ancor uno! Ancor uno! Oggi e domani

e mai sempre. Una palla nella coscia
gli spezza il taglio della baionetta
225cinta al fianco, e nell’osso della coscia

il mozzicon del ferro gli s’imbietta
forte così che sola una tanaglia
228o la mano del Sardo in una stretta

cruda lo possa svellere. Ei travaglia
seduto su lo zàino. Alfin lo svelle.
231S’alza nel sangue, e torna alla battaglia.

Non torna al focolare? Le sorelle
cuciono in sogno il suo gabban d’orbace.
234Or tinto è il panno, e l’opre son più belle.

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Ancor uno! Ancor uno! Non è pace
ancóra. In piedi nel suo sangue, ammazza.
237Il sangue scorre e l’anima è tenace;

ché rugge in piedi tutta la sua razza
ora nel suo coraggio, su quell’osso
240scheggiato, e del suo sangue egli la chiazza.

Ancor uno! Due tre gli sono addosso,
lo prendono, gli strappano il fucile,
243lo forzano, lo traggono dal fosso.

Non son que’ cani, sono i suoi! Le file
de’ suoi vede in ginocchio ai parapetti,
246i pacchi di cartucce nel barile;

gli scatti ode, gli scocchi dei moschetti;
ode il tonfo d’un corpo che si piega,
249la rabbia che stridisce su gli elmetti.

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E il taciturno supplica, diniega,
minaccia, si dibatte. Il sangue scorre
252per la barella. Ei rugge ancóra, e prega!

Verso Messri, un eroe nomato Astorre
ha tolto all’orda lo stendardo verde;
255e tutto il fronte alla riscossa accorre.

Su, compagnia dello stendardo verde,
Ottava! Su, la Settima, col prode
258Orsi! L’inferno di Giammìl si perde.

Spinelli, alla riscossa! Ala dell’Ode,
non batti se non come il chiuso cuore.
261Chiusa fremi, e il tuo numero non s’ode.

Come quella d’Atene, per amore
della mischia, t’allacci i tuoi calzari,
264Ode, e ricalchi l’orme del valore.

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Dal ciglio dei ridotti e dei ripari
sporgi, Gloria più giovine, ed irraggi
267gli oscuri eroi pel cor di Pietro Ari.

A corpo a corpo! Son tenuti i gaggi
della Corsina e quelli di Marsala.
270Su la mischia feroce, su i selvaggi

urli, sul mucchio, sul baglior ch’esala
dall’animo scagliato a tutta possa,
273subitamente par che passi l’ala

di quel mantello e la camicia rossa
rilampeggi e racceso per la duna
276il riverbero sia di Gibilrossa.

Croce d’argento contro mezzaluna!
Undecimo, con l’ugne riafferri
279pe’ capegli di dietro la fortuna.

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Chi balza con lo stuolo irto di ferri
di là dalle trincere e dai destini
282verso la sua bellezza? È Pietro Verri.

“Avanti, marinai, garibaldini
del mare!„ Par che su lo scarno viso
285l’ardente ombra del Sìrtori s’inclini.

Rotta la fronte che fu pura, ucciso
cade. Par che l’alfiere da Camogli
288su le spalle si carichi l’ucciso.

“Avanti!„ Non è tempo di cordogli.
Il pericolo ondeggia. Il tradimento
291è dietro i muri, è dietro i tronchi spogli

che la grandine schianta, è in tutto il vento
del Deserto e dell’Oasi. La sorte
294balena. Alla riscossa! Ei non son cento,

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e la bandiera sventola. Ora, o Morte,
ei son cinquanta. E la bandiera sventola.
297Dov’è Giacomo Medici? Ora, o Morte,

non son che dieci. E la bandiera sventola.



Note

  1. [p. 207 modifica]La Porta di San Lorenzo, in vicinanza della Basilica e del Campo Verano, è nel luogo dell’antica Porta Tiburtina. L’arco di travertino fu costruito, come dichiarano le iscrizioni, da Augusto e restaurato da Tito e da Caracalla per sopportare gli acquedotti delle acque Giulia Tepula e Marcia.
  2. [p. 207 modifica]Il soldato Pietro Ari nacque in Cuglieri, in terra arborense, in quello stesso circondario di Oristano ove nel cratere [p. 208 modifica]del vulcano estinto sta Santu Lusiurgiu, l’ardua città posta “fra il Logudoro e l’Arborea, tra i sepolcreti giganteschi delle più antiche stirpi, tutta chiusa in una chiostra di basalto e aperta soltanto a ostro libeccio, al soffio dell’Africa,„ là dove Corrado Brando trovò Rudu, homine de abbastu, e l’ebbe compagno intrepido “per seguire la vocazione d’oltremare.„ Il vituperato eroe aveva “una parola romana da rendere italica: Teneo te, Africa.„ Egli diceva, nel suo sogno di morituro: “Io potrei forse divenire un costruttore di città su terre di conquista, ritrovare quell’architettura coloniale che i Romani piantarono nell’Africa degli Scipioni. Guarda le Terme di Cherchell, il fòro di Thimgad, il pretorio di Lambesi. Intorno a un campo trincerato per contenere i nomadi, ecco sorgere di sùbito una città marziale, alzata dalle coorti dei veterani!„ Può essere che, per assistere alla sognata rinnovazione, domani egli risorga dal suo rogo meraviglioso. “Chi narrerà al mio figlio che, nella mia morte notturna, ho tenuto sul mio petto il mio Sole simile a una mola rovente? Via, cani, alla catena! La mia cenere è semenza.„