Merope (D'Annunzio)/La canzone d'Elena di Francia

La canzone d'Elena di Francia

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La canzone d'Elena di Francia
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LA CANZONE
D’ELENA DI
FRANCIA

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S
TELLE dell’Orsa, Guardie dei piloti1,

e voi, Pleiadi, lacrime divine
3d’amori eterni e di dolori ignoti;

e tu, fra le sorelle oceanine,
che sola amasti un triste eroe mortale,
6e ti celi il tuo volto nel tuo crine,

o Merope d’Atlante, mia navale
Musa2; e tu, Vega, e tu, bacca di luce,
9Perla della corona boreale;

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o Sirio, Sirra, Aldebaràn, Polluce,
Càstore, plenitudine di spirti
12che la corusca melodia conduce;

Notte, e Galàssia effusa per crinirti,
Nube, e il dio che ti lacera, scorgete
15la bianca nave uscente dalle Sirti!

Sul guerreggiato mare alta quiete
regna. Il silenzio del Risorto incombe,
18come quando Simon gittò la rete.

Quasi un dolce candore di colombe
illumina la tolda della nave
21che reca i morti alle materne tombe.

E su l’assi che chiudono il cadavere
e sul letto ove sanguina il ferito
24arde una sola santità soave.

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La figura di prua non è scolpito
legno ma un sovrumano Essere intento,
27con un sorriso eguale all’Infinito.

E quegli ch’ebbe stritolato il mento
dalla mitraglia e rotta la ganascia,
30e su la branda sta sanguinolento

e taciturno, e i neri grumi biascia,
anch’egli ha l’indicibile sorriso
33all’orlo della benda che lo fascia,

quando un pio viso di sorella, un viso
d’oro si china verso la sua guancia,
36un viso d’oro come il Fiordaliso.

Sii benedetta, o Elena di Francia,
nel mar nostro che vide San Luigi3
39armato della croce e della lancia

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fare il passaggio coi baroni ligi
su le navi di Genova e prostrato
42sotto i suoi gigli attendere i prodigi,

sii benedetta; ché ritorna il fato
d’amore all’acque istesse e in te rigiura
45il santo Re di lacrime beato.

Ti sovviene dei morti di Mansura
che putivan nel limo, su le rive
48del Nilo, ignudi, senza sepoltura,

mentre per tutta l’oste le malvive
genti ululavan come donne in parto
51di tra il marciume delle lor gencive,

e i feriti, colcati su lo sparto
come buoi, la Cappella e il suo Tesoro
54deprecavano in van pel sangue sparto

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e lungi travedean dal lor martoro
splendere, dietro la criniera ardente
57di fuoco greco, la celata d’oro,

la gran spada alemanna ben tagliente,
e udian sonar la prece su la zuffa:
60“Bel sire Iddio, tu guarda la mia gente!„

Allora il Re levavasi la buffa
dal viso smunto; e, sceso degli arcioni,
63sfangava solo per l’orribil muffa.

Per quel carnaio givasi carponi
piangendo, a riconoscere i suoi cari
66morti, i suoi fanti come i suoi baroni.

E i vescovi, che in campo dagli altari
assolvevano l’anime, al divino
69officio si turavano le nari.

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Ma il Re, toltosi l’elmo e il gorzerino,
portava i corpi in su le braccia e in dosso
72quand’altri li traeva per l’uncino.

E con quella pia man che avea riscosso
Carlo d’Angiò di sotto il fuoco greco
75(in arme d’oro sul cavallo rosso

che ardea per la criniera, ei fatto cieco
e invitto dal suo Dio corse a traverso
78l’inferno avendo un grande Angelo seco)

con quella mano l’ulcero perverso
medicava, tagliava intorno ai denti
81la carne enfiata, ungeva il taglio asterso.

Pane afflitto partia con le sue genti
nelle fami. Parlava col lebbroso.
84Portava invidia agli uomini piangenti.

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“Bel sire Iddio, richieder non son oso
fonte di pianto. Alcuna stilla basta
87all’alidore del mio cor penoso.„

Le lacrime colando per la casta
bocca, ei gustava nell’amaro sale
90la dolcezza che ad ogni altra sovrasta.

Ma non tu piangi, o Amazone regale.
Una intrepida forza t’azzurreggia
93negli occhi, sotto il lino monacale,

se il braccio lacerato dalla scheggia
sostieni o la man tronca fasci o bagni
96le labbra al sitibondo che vaneggia.

Non lacrime, non gemiti, non lagni.
Quegli che vinse fuor della trincera,
99vuol col silenzio vincere i compagni.

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E quegli che di vivere non spera
già fiammeggiar nel gelido lenzuolo
102sente i tre ferzi della sua bandiera.

Qual novo giorno splenderà sul molo
popoloso, laggiù? La Patria è tutta
105pallida, in piedi, con un volto solo.

Pallida, in piedi, con la gota asciutta,
serra nel petto i nomi de’ suoi morti.
108Guarda lontano. E il mar non li ributta.

Quale mistico approdo è atteso? I porti
sono solenni come cattedrali.
111Donna di Francia, or sai quel che tu porti.

Tu porti con la nave i sogni e l’ali
e le rose future e il novo canto
114in quel cumulo d’anime e di mali.

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L’angioino vascello non più santo
era allorché recava il grande spoglio
117del Re che volse in cenere il suo manto.

Ben ti sovviene. Il fùnebre convoglio
venia così pel Mar siciliano
120con l'oste e col navile in gran cordoglio.

E il Re col suo soave Gian Tristano
stavasi in bara; e, qual lo pinse Giotto
123in Fiorenza, il cordiglio francescano

nell’una man tenea forse e di sotto
al drappo azzurro e al vaio e a’ fiordiligi
126avea su l’ossa il camice incorrotto.

Era lontano in Santo Dionigi
il sepolcro, guardata dalla morte
129la via lunga di Trapani a Parigi.

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Re Tibaldo morivasi alle porte
dell’Invitta, Isabella d’Aragona
132sentiva già l’orrore della sorte

imboscata ne’ monti ove risuona
giù per la costa calabra il maligno
135guado che lei travolse e la corona.

E il Nasuto4, il carnefice ulivigno
de’ biondi Svevi, in terra di baldoria
138gli usci franceschi tinti di sanguigno

non si sognava già, né la sua boria
vedeva il lunedì di Risurresso
141e le galere di Rugger di Loria,

quand’ebbe offerto in pegno di possesso
eterno a Monreale il Cor beato
144e in Palermo il Lambello ebbe rimpresso5.

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Ora a Palermo per divino fato
il Fiordaliso ed il Lambel vermiglio
147raddotto hai tu, non in vessillo issato,

o Elena di Francia, ma in naviglio
ricrociato d’amore e di dolore,
150ove tu splendi come il più gran giglio.

“Così è germinato questo fiore!„
par sorrida colui che su la roccia
153del sacro balzo, ove l’umano errore

si purga, Ugo Ciapetta che rimproccia
suo seme ha visto tutto volto in giuso
156fonder per gli occhi il male a goccia a goccia.

“Nuova luce percote il viso chiuso„
dice la Voce. E dice: “Qui si monta.„
159Ed ovunque il suo spirito è diffuso.

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La sua forza gentile austera e pronta
è la tempra dell’aria. O Italia bella,
162or sei fissa al tuo Sol che non tramonta.

O dolce Francia, o unica sorella,
per la muta speranza che s’inclina
165su le chiare acque della tua Mosella,

per la memoria pia di Valentina
che, fedele al suo lutto, patir volle
168senza tregua nel cor l’acuta spina,

pei campi onde l’allodola tua folle
balza chiamando, e i pioppi della Mosa
171fremono, e il sangue grida nelle zolle,

Francia, ricevi e serba la gioiosa
promessa che ti fa, d’una vendetta
174più grande, questa carne sanguinosa.

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Taglia per noi con la tua vecchia accetta
un ramo della quercia di Lorena,
177sul colle ove Giovanna è alla vedetta,

intreccia al ramo rude la verbena
già sacra ai nostri padri, ed a noi manda.
180Su le Statue velate il ciel balena.

Balena anche per noi da quella banda.
Sul Campidoglio senza Feziali
183sospenderemo noi la tua ghirlanda.

E tu òccupa il ciel con le tue ali,
guerriera alata. Noi le navi forti
186spingeremo nel mar dai nostri scali.

O Elena, che in fronte ai nostri morti
impressa vedi la virtù di Roma,
189pel gran patto latino oggi tu porti

la verbena augurale entro la chioma.

Note

  1. [p. 208 modifica]Chiamano Guardie i piloti le sette stelle dell’Orsa minore, i sette trioni degli antichi; perché esse scorgono e dirigono il loro cammino nella notte.
  2. [p. 208 modifica]Tragiche favole si formarono intorno alle Pleiadi. Sono esse la costellazione nautica per eccellenza; poiché gli antichi non ardivano dar principio alla navigazione prima del nascere eliaco delle Pleiadi nel mattino insieme col sole. Al lor tramonto incominciava il tempo delle tempeste, e il nocchiero [p. 209 modifica]schivava il mare. Sei delle Pleiadi sono visibili, la settima, Merope, quella che protegge questo libro, è oscura; e la favola narra ch’ella si nasconda per essersi congiunta, sola fra le sorelle, con un eroe mortale. 🙦 San Luigi re di Francia fece su navi genovesi il primo e il secondo passaggio d’oltremare. Quando a Damiata, dopo la disfatta dell’esercito, essendo prigioniero il Re, Margherita di Provenza si sgravò del figliuolo Gianni a cui fu in segno di cordoglio aggiunto il nome di Tristano, vennero nella stanza della regina alcuni cavalieri a dirle che le genti di Genova e di Pisa erano in punto di abbandonare il campo. Allora la puerpera animosa convocò nella sua stanza i Genovesi e i Pisani che vennero e stettero accalcati intorno al suo letto. Ella li supplicò di non partire. “Signour, pour Dieu merci, ne laissiés pas ceste ville...„ La scena è ingenuamente colorita nella prosa del sire di Joinville, del Siniscalco. “Come faremo noi, Dama?„ risposero gli Italiani. “Ché in questa città noi moriamo di fame. Dame, comment ferons-nous ce? Que nous mourons de fain en ceste ville.„ La regina promise di comperare tutta la vettovaglia. “Car je ferai acheter toutes les viandes en ceste ville...„ Genovesi e Pisani fecero consiglio, e restarono. Nell’avanzata verso Mansura, l’esercito era stremato dalle malattie e dalle ferite. Ogni giorno s’accresceva il numero degli infermi. Le esalazioni pestilenziali del limo ingrassato dai cadaveri generavano orribili morbi. La carne delle gambe si disseccava tutta, e la pelle si maculava di nero e di color terreo come una vecchia uosa; e le gencive si gonfiavano e marcivano. “La chars de nos jambes devenoit tavelés de noir et de terre, aussi comme une vieille heuse: et à nous qui aviens tel maladie, venoit chars pourrie es gencives..,„
  3. [p. 209 modifica]San Luigi re di Francia fece su navi genovesi il primo e il secondo passaggio d’oltremare. Quando a Damiata, dopo la disfatta dell’esercito, essendo prigioniero il Re, Margherita di Provenza si sgravò del figliuolo Gianni a cui fu in segno di cordoglio aggiunto il nome di Tristano, vennero nella stanza della regina alcuni cavalieri a dirle che le genti di Genova e di Pisa erano in punto di abbandonare il campo. Allora la puerpera animosa convocò nella sua stanza i Genovesi e i Pisani che vennero e stettero accalcati intorno al suo letto. Ella li supplicò di non partire. “Signour, pour Dieu merci, ne laissiés pas ceste ville...„ La scena è ingenuamente colorita nella prosa del sire di Joinville, del Siniscalco. “Come faremo noi, Dama?„ risposero gli Italiani. “Ché in questa città noi moriamo di fame. Dame, comment ferons-nous ce? Que nous mourons de fain en ceste ville.„ La regina promise di comperare tutta la vettovaglia. “Car je ferai acheter toutes les viandes en ceste ville...„ Genovesi e Pisani fecero consiglio, e restarono. Nell’avanzata verso Mansura, l’esercito era stremato dalle malattie e dalle ferite. Ogni giorno s’accresceva il numero degli infermi. Le esalazioni pestilenziali del limo ingrassato dai cadaveri generavano orribili morbi. La carne delle gambe si disseccava tutta, e la pelle si maculava di nero e di color terreo come una vecchia uosa; e le gencive si gonfiavano e marcivano. “La chars de nos jambes devenoit tavelés de noir et de terre, aussi comme une vieille heuse: et à nous qui aviens tel maladie, venoit chars pourrie es gencives..,„ [p. 210 modifica]Il Siniscalco narra come l’orribile male tanto peggiorasse che bisognava i barbieri tagliassero in bocca ai malati la carne morta perché potessero inghiottire il cibo. Ed era gran pietà udire gli urli degli straziati; che urlavano come le donne partorienti. “Grans pitiés estoit d’oïr braire les gens parmi l’ost ausquiex l’on copoit la char morte; car il bréoient comme femmes qui traveillent d’enfant.„ I morti rimanevano insepolti, perché ognuno temeva di toccarli e di sotterrarli. Invano il Re dava l’esempio e li portava e li seppelliva con le sue proprie mani. Il Confessore della regina Margherita racconta come, seppellendo il Re i morti, i Vescovi nell’officiare si turassero il naso, pel gran fetore: ma non fu mai visto il Re imitarli. “Ils estoupoient leur nez pour la puour; mais oncques ne fu veu au bon roy Loys estouper le sien, tant le foisoit fermement et dévotement.„ Mentre Roberto d’Artese, il fratello del Re, entrava in Mansura solo, lasciandosi indietro i Templari, e vi restava ucciso, San Luigi veniva alla riscossa con tutta la sua schiera al suono delle trombe e delle nacchere. Dice il Siniscalco che mai videsi più bel cavaliere, avanzante di tutta la spalla le genti sue, con un elmo d’oro in testa, con in pugno una spada alemanna. “Oncques si bel homme armé ne vis, car il paroissoit dessus toute sa gent des épaules en haut, un haume d’or à son chef, une épée d’Allemagne en sa main.„ Quando il conte d’Angiò su la via del Cairo fu assalito da due stuoli di Saraceni e oppresso dal getto dei fuochi lavorati, il Re lo salvò scagliandosi a cavallo contro gli assalitori. La criniera della sua bestia fiammeggiava, coperta di fuoco greco, nel vento della corsa. Il Confessore racconta con quale ardore il Re desiderasse la grazia delle lagrime e come si lamentasse d’esserne privo e come non osasse nella litania implorare fontana di lacrime [p. 211 modifica]ma sol qualche gocciola ad irrorare l’aridità del suo cuore. “Li sainz roi disoit dévotement: O sire Dieux, je n’ose requerre fontaine de lermes: ainçois me souffisissent petites goutes à arouser la secherèce de mon cuer... Lesqueles, quand il le sentoit courre par sa face, souef et entrer dans sa bouche, eles li sembloient si savoureuses et très-douces, non pas seulement au cuer, mès à la bouche.„ Durante l’agonia, dopo il secondo infelicissimo passaggio, in prossimità di Cartagine, il Re volle esser tratto dal letto e disteso su la cenere. Il suo giovine figliuolo amatissimo, Gian Tristano, era già morto sul vascello. Carlo d’Angiò venne allora di Sicilia “con grande navilio e con molta gente e rinfrescamento„ come narra Giovanni Villani; patteggiò col soldano di Tunisi; e ripartì con le reliquie del fratello e del nipote. Giunto il convoglio a Trapani l’Invitta (Drepanum civitas invictissima, come fu scritto intorno al sigillo municipale) Tibaldo di Sciampagna re di Navarra, già infermo, si spense. Con le tre bare il corteo si mise in viaggio verso Palermo, per la via di terra. Quivi fece una sosta di due settimane. Il corpo di San Luigi fu collocato nella basilica palatina di Monreale, ove operò i primi miracoli. Il cuore fu anzi lasciato nel tempio dei re normanni. Poi il re di Sicilia, il re novello di Francia Filippo l’Ardito con sua moglie Isabella d’Aragona e i superstiti della tristissima impresa continuarono il viaggio sino a Messina, passarono lo stretto e s’internarono nella Calabria. Era di gennaio. Nevicava per le gole dei monti. Non lungi da Martirano, il corteo lugubre giunse al guado di un torrente tributario del Savuto. La giovane regina, benché incinta di sei mesi, spinse arditamente il cavallo tra i sassi sdrucciolevoli (“Praesunta quadam virili audacia pereundi„ dice Saba Malaspina); ma la bestia inciampicò e cadde trascinando Isabella nell’acqua [p. 212 modifica]ghiaccia. Fu sollevata, posta in lettiga, soccorsa; ma lo schianto era mortale. “Offensa lethaliter et in ipso casu confracta, læsus fuit uterus...„ Giunta a Cosenza, ella si sgravò di un bambino morto e rese l’anima. Saba Malaspina racconta come il cadavere fosse bollito, more maiorum, e come le carni fossero sepolte in gran pompa nel duomo di Cosenza e lo scheletro fosse portato in Francia a San Dionigi, con le tre altre spoglie reali. Un nobile mausoleo fu eretto nella cattedrale cosentina “perpulcra, digna memoria, materiæ ac artis concertatione glorifica„ presso l’altare dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, sul luogo della sepoltura. Rimesso in luce per recenti restauri, fu rivelato dall’acume di Nicola Arnone e illustrato da uno studio eccellente di Emilio Bertaux.
  4. [p. 212 modifica]Il Nasuto è chiamato da Dante Carlo d’Angiò nel canto settimo del Purgatorio.
    Anche al Nasuto vanno mie parole...
    E, poco innanzi:
    Quel che par sì membruto e che s’accorda,
    cantando, con colui dal maschio naso...
    E Giovanni Villani: “Grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso...„ Il Lambello è il nostro Rastrello. Dice Vincenzio Borghini: “Alla comune arma della casa di Fois aggiunse un rastrello, o, come essi dicono, lambello d’argento.„ E, a proposito di Carlo, il Villani: “La sua arme era di Francia, cioè il campo azzurro e fiordaliso d’oro, e di sopra uno rastrello vermiglio: tanto si divisava da quella del re di Francia.„
  5. [p. 212 modifica]L’allusione al cordiglio francescano tenuto da San Luigi è giustificata dalla pittura di Giotto nella Cappella dei Bardi [p. 213 modifica]in Santa Croce; la quale è certo inspirata dalla leggenda francescana che fa del Re di Francia un terziario dell’Ordine. Il capitolo XXXIII dei Fioretti racconta Come sancto Lodovico andò a visitare frate Egidio e mai non s’erano veduti. Et sança parlare si cognobbono insieme. Il San Luigi giottesco tiene in una mano lo scettro e nell’altra il cordiglio dei Terziarii; e il suo manto azzurro, col collare di vaio, è cosparso di fiordalisi. Facile è riconoscere il luogo del verso di Dante:
    Così è germinato questo fiore.
    L’altro verso e l’emistichio son derivati dal decimo settimo canto del Purgatorio, non perché vi sia rispondenza tra quel passo e il momento lirico della Canzone ma perché sembra che ogni alto e appropriato segno possa esser tratto per noi dalla Comedia a libro aperto come i responsi dai libri sibillini.