Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XLIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte seconda - Capitolo XLII | Parte seconda - Capitolo XLIV | ► |
CAPITOLO XLIII
Caso tragico di lieto fine.
In questo frattempo mio fratello Gasparo, reso spossato e infermo dallo studio e da’ pensieri molesti, era passato a Padova per proccurarsi della salute dalla virtú de’ medici di quella celebre universitá.
Quel fratello che quantunque da me diviso di abitazione e di patrimonio tenni sempre per amico e maestro, cadeva d’un male in altro male con tutta l’assistenza dell’arte medica piú raffinata, e le notizie del di lui pessimo stato m’affliggevano.
Una mattina un gondoliere della dama protettrice della mia troppo nota commedia mi recò una lettera ch’ella aveva ricevuta da Padova, del professore di botanica Giovanni Marsilii, e mi recò un viglietto della dama medesima. Il viglietto conteneva una premurosa chiamata di me da lei. La lettera conteneva cosa assai maggiore.
Ella dava il funesto ragguaglio a quella signora che il povero mio fratello, non si sapeva se per nere immagini ipocondriache o per il furore d’una febbre ardente da cui era stato assalito, acceso nella fantasia s’era scagliato da una finestra nel fiume Brenta, che aveva percosso col petto in un macigno, ch’egli era stato ricuperato dall’acqua, ma che aveva perduta la favella, sputava continuo sangue e che, immerso in un letargo insuperabile e abbattuto da una febbre mortale, gli restava poco tempo di vita.
Con tutta la mia filosofica costanza, alla lettura di quel foglio il dolore mi trasse quasi di me medesimo, e corsi velocemente mezzo balordo dalla dama.
Io che fui sempre acerrimo condannatore de’ capricci, delle bizzarrie, delle imprudenze, delle ingiustizie, della testa leggera di quella donna; io che niente ho mai ricercato dalla di lei protezione; io che pochi mesi prima dalla leggerezza e cattiveria del suo cervello muliebre vendicativo contro il Gratarol, con un inonesto raggiro e studio di baratti di parti in una mia commedia, in concerto con un comico, d’apparecchi di vestiario, di acconciature, di gesticolazione, di disseminazioni, ero stato posto al cimento di precipitare innocentemente, e che doveva abborrirla; sono giusto e devo separare il guasto del capo dalla sensibilitá del cuore di quella femmina. Se sono giusto, io che non ho avuto da lei che del male, molto piú giusti dovrebbero essere que’ molti che riceverono de’ benefizi dal suo cuore sensibile. Presento un picciolo quadro, agli animi ben fatti, di quella signora.
Giunto io nella sua stanza la trovai sopra un sofá immersa in un pianto dirotto. Appena mi vide si levò e volò a precipitarsi nelle mie braccia mezzo svenuta. Quando poté favellare, altro non poté dirmi se non che interrotta da’ singulti: — Caro amico, andate a Padova, ricuperatemi mio padre, ricuperatemi mio padre! — Ricadde nel suo sofá spargendo un fiume di lagrime.
Quantunque avessi bisogno d’esser confortato m’ingegnai a confortare quella desolata signora, promettendole di partire immediatamente e lusingandola colla mia debile lusinga che il male di mio fratello non sarebbe invincibile come si ragguagliava nella lettera.
Non narrerò niente del mio viaggio veloce da me fatto per Padova. M’incontrai a Fusina nel conte Carlo di Colloredo, il quale con somma dolcezza mi chiese se vi fosse niente di nuovo a Venezia. Credo d’aver risposto — Nulla — sgraziatamente, salendo in un legno e partendo.
La tetra immagine di trovare il mio povero fratello estinto, immagine che prendeva vigore crudelmente a misura ch’io m’appressava alle mura di Padova, mi tenne occupato per modo che non vidi né acqua né terra né alberi né bestie né persone in quel viaggio.
Giunto in Padova entrai nella solita cordiale abitazione dell’amico mio signor Innocenzio Massimo. Fui accolto co’ modi consueti di trasporto. Vedeva della mestizia negli occhi di tutta quella famiglia. Trepidava a chiedere notizia di mio fratello, temendo d’udire le fatali parole ch’egli era morto. Finalmente chiesi ragguaglio. Mi si rispose ch’egli era ancora vivo, ma in vero non molto lontano dalla morte.
Il caso di quell’infelice era l’argomento de’ discorsi di tutta quella cittá. Si raccontava con parecchie alterazioni. L’amico Massimo me lo narrò colle vere circostanze. Nella mia afflizione egli mi confortava con tutti i buoni riflessi e tutte le sincere esibizioni della liberalitá d’un vero amico.
Col cuore lacerato passai all’abitazione dell’infermo, ch’era nel Prato della Valle. Ivi trovai madama Giovanna Sara Cenet francese, donna di circa cinquantacinqu’anni, pelle ed ossa, affaticatissima all’assistenza indefessa dell’ammalato e mezza ammazzata dal dolore, dal pianto e dalle veglie.
Ella mi rese conto dello stato di mio fratello. Egli era un cadavere che ancora respirava, con una violente febbre continua. Non favellava, non prendeva alcun nutrimento e non inghiottiva che qualche sorso d’acqua. I sputi di sangue abbondanti erano cessati e ridotti una tintura sanguigna.
Chiesi chi fosse il medico: mi si rispose che i medici erano quattro. Senza sprezzare la virtú di quelli, il numero mi fece spavento. Mi si disse che in aggiunta era stato anche ad una consultazione il quinto medico, celebre professore Dalla Bona, il quale aveva dati alcuni suggerimenti di medicine, ma che i quattro altri medici li avevano considerati frivolezze e che non se n’era eseguito nessuno. — Buono! — diss’io.
Mi fu riferto che l’ammalato udendo la mia voce fuori dalla sua stanza aveva aperti alquanto gli occhi, pronunziando con voce debile queste uniche parole: — Mio fratello Carlo.
Passai al suo letto. Proccurai di animarlo. Sprofondato egli nel suo letargo non mi rispose mai. Scòrsi però nella sua faccia dileguarsi qualche scintilla della sua profonda tristezza.
Uno de’ quattro medici si vantava d’averlo ricuperato allor quando fu tratto dal fiume, co’ suoi pronti non so quali sperimenti suggeriti e prescritti dal magistrato sopra la sanitá per la risurrezione degli annegati. Lo cercai per rimunerarlo con alcuni zecchini. Trovai quel zelante dottore con de’ testimoni da lui radunati, affaccendatissimo ad estendere un memoriale zelante da presentare al grave magistrato sopra la sanitá, onde fosse intesa la sua zelante attenzione nell’usare i suggerimenti prescritti sopra la persona del conte Gasparo Gozzi, tratto dal fiume annegato e dal di lui zelo prodigiosamente risuscitato, chiedendo infine zelantemente la medaglia d’oro di quattro zecchini, premio destinato dal Principe a’ zelanti esecutori degli esperimenti.
Egli volle narrarmi il caso, i suoi meriti e leggermi anche il suo eloquente zelante memoriale. Lo pregai a tacere e a non leggermi cose che rinforzassero nella mia fantasia anche di troppo amareggiata immagini funeste. Gli posi in mano quegli alcuni zecchini che gli aveva destinati, ringraziandolo partendo e lasciandolo occupato co’ suoi testimoni a formare il suo zelante memoriale. Mi fu detto che lo aveva anche presentato e che aveva espugnata la medaglia da’ quattro zecchini zelantemente, ed io scusai la necessitá della dottrina zelante e povera.
Mio fratello scorse alcuni giorni e alcune notti né vivo né morto, nel suo letargo e nella sua febbre infuocata, senza prendere nutrimento. La sollecita affannata madama Cenet schiavandogli i denti a forza, s’ingegnava a cacciargli di quando in quando nella bocca alcune pallottoline di butirro con un cucchiaiuzzo da caffè. Questo era tutto il cibo ch’egli lambendo inghiottiva senza avvedersi.
I quattro medici venivano gentilmente due volte il giorno a visitarlo, perocché avevano tutti caldissime raccomandazioni dalle lettere della dama accennata. Osservavano le orine, esaminavano gli sputi dell’infermo, gli toccavano il polso, assicuravano ch’egli aveva una febbre micidiale e si stringevano nelle spalle partendo.
Oltre al peso de’ pensieri afflittivi, delle fatiche, de’ passi, del bollore della stagione, aveva l’altro quotidiano di leggere lunghissime lettere di Venezia e di dover rispondere lungamente alla dama tenera per la vita di mio fratello, all’umanissimo signor Davide Marchesini secretario de’ riformatori di Padova e ad altri.
Al magistrato de’ riformatori aveva mio fratello un uffizio d’ispezione per cui la munificenza del Principe gli contribuiva non so se sette o ottocento ducati annuali.
Mi vidi giugnere una lettera efficacissima della dama sopraddetta, la quale mi ragguagliava essersi suscitati molti concorrenti alla carica di mio fratello, e che sulla notizia sparsa della inevitabile di lui morte correvano de’ caldi maneggi e bucheramenti per la elezione a quell’uffizio. Ella mi suggeriva, in accordo col cavaliere di lei consorte che presiedeva a quella magistratura, di spedire un sollecito memoriale supplichevole, chiedente d’essere io eletto in sostituzione al fratello. M’assicurava che tutti i concorrenti si sarebbero ritirati e ch’io sarei l’eletto.
Questa lettera in iscambio di sollevare l’animo mio, accrebbe le mie amarezze.
Risposi a quella signora ch’io la ringraziava de’ suoi consigli e delle sue generose promesse; ch’ella doveva conoscere il mio istinto e risovvenirsi che m’aveva alcun anno prima stimolato con fervore a concorrere all’incarco grandioso, nobile e fertile di mastro della posta di Vienna che allora era vacante, promettendo il sostegno della mia concorrenza con tutte le valide protezioni de’ suoi aderenti e di quella del possente cavaliere di lei consorte, e che senza mancare di rispetto e di riconoscenza verso a’ suoi stimoli liberali, aveva io con fermezza ricusate le sue grazie; ch’io ero stato indefesso sempre a proccurare del bene a tutta la mia famiglia, ma che non aveva voluto giammai caricare gli omeri miei aspirando a cariche di lucro dipendenti da pesi di soggezione e di responsabilitá; ch’io non era di temperamento da soffrire altre catene che le mie volontarie; ch’io non aveva né moglie né figli, né brama di grandeggiare né di adulazioni né di inchini né d’esser ricco, e ch’era contentissimo del mio tenue stato unito alla mia libertá; che il detto di Seneca: — «Tutto possiede chi del nulla è pago» — non era in vero combinabile co’ bisogni indispensabili dell’umanitá, ma che riflettendo alla veritá che conteneva il detto di quel gran filosofo, aveva ridotto il mio cervello ad essere moderato e contento non dirò del nulla, ma del poco e della frugalitá; che per la ricupera di mio fratello averei volontieri dato sino alla camicia; ch’io ero riverente e buon suddito del mio Principe, ma che morirei piuttosto di addossarmi la catena degli affari d’una grave magistratura circuita da’ raggiri, dominata dalle private passioni, schermendomi perpetuamente da’ lacci degl’insidiatori, studiando caratteri di giudici spesso cambiati, spesso tra loro discordi, sottomettendomi a delle immense fatiche con frequenza rimproverate a torto e sfortunate frequentemente; le quali cose credeva io che avessero molto contribuito allo stato infelice in cui si trovava il mio infelice fratello. Terminava la mia risposta con quel sentimento di Francesco Berni, riguardo all’indole mia:
Voleva far da sé non comandato.
Una nuova lettera di quella dama mi trattava da eroe romanzesco. Mi stimolava con delle punture a spedir tosto il mio memoriale di supplicazione per essere eletto sostituto al fratello, assicurandomi che sarei rimasto al possesso di quella lucrosa ispezione s’egli mancasse di vita. M’adduceva che i molti desiderosi di quell’uffizio sollecitavano con de’ forti maneggi la elezione d’un sostituto per entrare nel possesso di quello. Terminava la lettera facendo a me un debito di coscienza il dover non rifiutare un onorario che serviva di soccorso alla famiglia di mio fratello.
La chiusa di quella lettera mi fece conoscere con qualche fastidio che la dama era pressata a consigliarmi piú da quella famiglia che l’adulava che dalla sua premura, e risvegliò i miei riflessi da osservatore sulla umanitá.
— Come! — diss’io tra me. — Noi siamo quattro fratelli divisi da trenta e piú anni, e ognuno conosce il proprio patrimonio. Mio fratello Gasparo ebbe il suo partaggio per quelle legali divisioni. La ereditá non indifferente per parte della nostra madre, per una predilezione, cadde nella famiglia del fratello Gasparo. Non basta che per piú di trent’anni io mi sia dicervellato e consunto in litigi per preservazione ed accrescimento del di lui patrimonio, ch’io in’abbia addossato il peso di riscuotere con mille stenti ciò che fu destinato a’ comuni aggravi annuali e ad estinzione de’ debiti trovati, ch’io abbia supplito per il corso di piú di trent’anni e supplisca ancora con somma pena ad ogni cosa per tener lontani i disordini: si pretende in aggiunta che per debito di coscienza crepi sotto al peso degli affari d’una magistratura per corrispondere l’onorario alla famiglia di quel fratello, né potrò nemmeno avere il libero arbitrio di rifiutare una catena che posso non volere e non voglio?
Ammorzato possibilmente il calore che la mia umanitá cominciava a risentire, risposi con la dovuta civiltá alla dama ch’io non provava alcun rimordimento della coscienza a non aspirare a ciò ch’io non meritava e non voleva; che se alcuno si prendesse la libertá di presentare memoriali per conto mio senza mio consentimento, sarei forzato con dispiacere a notare un dissenso (sia detto tra due parentesi: sapeva benissimo che la moglie di mio fratello era capace di macchinare questa poetica impresa); ch’io era a Padova disposto a dare il sangue per ricattare dalla morte l’amato mio fratello; che se per favore di Dio egli rimanesse in vita, credeva clemente abbastanza il magistrato per non privarlo d’una carica sostenuta da lui per tanti anni con un servigio indefesso; che s’egli mancasse di vita con mio dolore, egli non avrebbe avuto piú bisogno di quell’uffizio, e che quel tribunale l’avrebbe potuto disporre per una persona piú di me capace ed opportuna. Sperai con questa risoluta risposta d’essermi sollevato da una generosa molestia, e sperai invano.
Comparve a Padova il dottore Bartolommeo Bevilacqua rettore delle pubbliche scuole di Venezia, mio amico, spedito in poste dalla dama perch’egli mi persuadesse a fare il passo consigliato e mi guarisse da ciò ch’ella giudicava follia.
Risposi a questo amico con mirabile ostinazione prima le cose medesime che aveva scritto alla signora, poscia altamente che non voleva impegni di servire a magistrature e che intendeva di rimanere un irremovibile pacifico matto. Per tal modo mi difesi e liberai finalmente da quella ostinata liberale protezione ch’io non voleva.
Saprò condannare da me medesimo nella pittura ch’io darò del mio carattere e del mio temperamento, le renitenze ch’io ebbi sempre di farmi schiavo de’ Grandi e dell’interesse, e addurrò le ragioni della mia condanna. Ma abbiamo tutti qualche difetto non sbarbicabile da’ nostri istinti. Tra le angustie, i pensieri, le afflizioni, le fatiche e il bollore della stagione, non potei difendermi dall’assalto d’una gagliarda febbre che mi sorprese e mi tenne obbligato a letto tre giorni. Bene per me ch’ella non fu che un’effimera e che potei nuovamente recarmi alla vigilanza sulla vita di mio fratello.
Le notizie ch’io ebbi in que’ tre giorni ch’io non potei visitarlo furono sempre maggiormente infelici. Quando fui in grado di andare a lui, trovai madama Cenet immersa nel pianto. Ella mi riferí che l’ammalato era ne’ suoi ultimi momenti della vita coll’assistenza d’un sacerdote; che due de’ medici visitatori esaminando la tazza degli sputi e trovandoli schietta marcia, avevano deciso esser giá la contusione per la percossa avuta nel petto nella sua caduta ridotta cancrena stabilita, e ch’egli averebbe vissuto pochi momenti.
Chiesi addoloratissimo se fosse mai stato il professore Dalla Bona dopo il consulto e dopo i di lui suggerimenti. Madama mi rispose di no. Vidi quel soggetto celebre passeggiare nel Prato della Valle e corsi a pregarlo di voler venire a dare un’occhiata al giudicato spirante. Si mostrò prontissimo gentilmente. Via facendo gli narrai la scoperta de’ due medici e la loro funesta sentenza.
Mi duole di dover mescere con questa tragica narrazione, delle facezie comiche e di comparire satirico senza colpa. Quell’eccellente professore fu lungamente attento sulla respirazione dell’infermo e disse poscia: — Qui abbiamo il respiro bensí debile ma libero; dunque la sentenza della cancrena è sentenza ridicola. Dov’è questa marcia sputata? — diss’egli. — Gli fu recata la tazza degli sputi, ch’egli esaminò minutamente, dicendo infine: — Questa non è altrimenti marcia, ma è butirro.
Difatto era di quel butirro che la madama assistente cacciava a forza nella bocca dell’ammalato per dargli qualche nutrimento e ch’egli sputando talora rimandava nella tazza. — Quest’uomo — seguí il professore — non perisce per altro male che per quello d’una febbre acuta che l’uccide. Gli fu fatta bere — aggiunse — quell’acqua lunga con entro della manna e gli furono posti que’ frequenti serviziali di china, come aveva suggerito io nel consulto tenuto? — Non signore — rispose madama Cenet, — perché gli altri medici non ordinarono niente di ciò. — Bella! — diss’egli. — A che dunque mi vollero ad un consulto? Veramente non sono avvezzo a far la figura d’un Truffaldino. — Rivolto a me aggiunse: — Il di lei fratello è appeso a un solo filo di vita. Io non posso prometterle nulla nella estrema spossatezza in cui si è lasciato precipitare. Benché a caso disperato, si tentino le cose da me suggerite, con sollecitudine e con frequenza.
Lo pregai a non abbandonare l’ammalato. Mi promise le sue visite diligenti. Con l’uso de’ suoi ricordi a’ quali invigilai, la febbre divenne piú mite. Mio fratello cominciò ad aprire gli occhi, a dire qualche parola. Potè prendere qualche oncia di maggior nutrimento e qualche dramma di china mascherata per bocca. La sua infermitá fece una crisi crudele. Fu coperto dall’osofago sino al fondo del tubo intestinale da una serie di certe ulcere che i medici chiamano «afte». Il professore assistente confessò che quella era una crisi, ma una crisi che poteva essere micidiale. Tuttavia, fosse effetto di qualche rimasuglio di vigore della natura o effetto de’ rimedi ordinati dal professore, vidi in pochi giorni mio fratello rinforzato, sedere sul letto libero di febbre, barzellettare col medico; indi tra pochi altri giorni uscire dal letto, mangiare con buon appetito, comporre de’ sonetti e rientrare in quella sanitá di cui una macchina diroccata dalle applicazioni, dalle sventure, dall’etá avanzata e da una mortale infermitá era capace.
Fu anche in quella mia penosa permanenza in Padova che m’incontrai molte fiate nel Gratarol. Io desideroso della sua amicizia e di disingannarlo del suo errore, egli ostinato nell’inganno suo e nel suo ingiusto livore. I nostri cappelli rimasero saldi: il suo per una mal impiegata alterigia, il mio per i consigli del senatore.
Lasciai mio fratello a Padova ben raccomandato, ben provveduto, onde potesse rimettersi affatto o almeno in grado di poter venire senza disagio a Venezia a’ di lui doveri verso la magistratura de’ riformatori. Ringraziai il professore Dalla Bona col cuore, prima del mio partire. Volli porre un gruppetto di zecchini nella di lui mano benefica. Non devo tacere la generositá di quel grand’uomo. Furono vane tutte le mie ostinate insistenze per obbligarlo a ricevere il picciolo tributo, adducendo egli ch’era assai rimunerato dalla consolazione di veder involato alla morte un suo buon amico e che aveva troppe obbligazioni verso la dama sopra accennata, che glielo aveva raccomandato con delle efficaci lettere, per non volere altri premii.
Abbracciato l’amico Massimo da cui aveva ricevuti tutti i tratti cordiali dell’amicizia, partii da Padova trionfante d’aver ricuperato il fratello dalla morte e posto in grado di poter in breve agire nel magistrato a cui obbediva, colla contentezza di non essere piú assediato perch’io chiedessi sostituzione a un uffizio ch’io non voleva, e colla compiacenza di vedere i molti concorrenti a quella carica mortificati che mio fratello non fosse morto.