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CAPITOLO XLIII

Caso tragico di lieto fine.

In questo frattempo mio fratello Gasparo, reso spossato e infermo dallo studio e da’ pensieri molesti, era passato a Padova per proccurarsi della salute dalla virtú de’ medici di quella celebre universitá.

Quel fratello che quantunque da me diviso di abitazione e di patrimonio tenni sempre per amico e maestro, cadeva d’un male in altro male con tutta l’assistenza dell’arte medica piú raffinata, e le notizie del di lui pessimo stato m’affliggevano.

Una mattina un gondoliere della dama protettrice della mia troppo nota commedia mi recò una lettera ch’ella aveva ricevuta da Padova, del professore di botanica Giovanni Marsilii, e mi recò un viglietto della dama medesima. Il viglietto conteneva una premurosa chiamata di me da lei. La lettera conteneva cosa assai maggiore.

Ella dava il funesto ragguaglio a quella signora che il povero mio fratello, non si sapeva se per nere immagini ipocondriache o per il furore d’una febbre ardente da cui era stato assalito, acceso nella fantasia s’era scagliato da una finestra nel fiume Brenta, che aveva percosso col petto in un macigno, ch’egli era stato ricuperato dall’acqua, ma che aveva perduta la favella, sputava continuo sangue e che, immerso in un letargo insuperabile e abbattuto da una febbre mortale, gli restava poco tempo di vita.

Con tutta la mia filosofica costanza, alla lettura di quel foglio il dolore mi trasse quasi di me medesimo, e corsi velocemente mezzo balordo dalla dama.

Io che fui sempre acerrimo condannatore de’ capricci, delle bizzarrie, delle imprudenze, delle ingiustizie, della testa leggera