Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XLII
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CAPITOLO XLII
Ciò che avvenne intorno al viglietto cattolico.
Il giorno diciannove del gennaio accennato uscii dal letto a mente serena, e condannando me stesso della imprudenza e del caldo del giorno anteriore, cominciava a ravvivare il mio naturale risibile.
Al cicaleccio risvegliato per la cittá dalla pioggia de’ viglietti del mio iracondo odiatore, un buon numero di signori, di parenti, d’amici si crederono in una cortese necessitá d’affollarsi alla mia abitazione.
Tutti amici veraci e che conoscevano il mio carattere erano maravigliati che fosse avvenuta a me un’avventura di quella specie, e desiderosi di sapere il caso mi stimolarono a narrarlo loro. Lo narrai con ilaritá, puritá e con de’ tratti comici in me naturali senza malizia, ed è certo che la pulcinellesca affettazione, il frasario e le attitudini del Gratarol ragionatore nel colloquio tenuto nella mia casa, da me al vivo espressi e dipinti, fecero ridere senza mia colpa la brigata.
Non so ciò che passasse nel casino del mio schiccheratore d’infami viglietti. Da me si rideva sgangheratamente di lui e delle sue mosse. Le risa terminavano con delle esclamazioni unissone, delle quali io non aveva pure nessuna colpa.
Il signor Carlo Maffei solo, ch’era degli astanti, aveva faccia di mortificato e d’afflitto, temendo soltanto ch’io fossi in disgusto con lui per avermi egli imbrogliato per bontá di cuore con un ente de’ piú irragionevoli e velenosi. Lo consolai al possibile co’ miei scherzi, e gli feci comprendere che da un uomo riscaldato il cerebro, artifizioso, e per natura, per riflessione, per ostinazione e per volontá superbo e vendicativo non poteva uscire che ciò ch’era uscito; ch’egli non s’era valso del di lui mezzo per volere da me un impossibile, che per macchinare de’ tranelli di vendicativa solennitá; e che il contegno del signor Francesco Contarini, con cui venne a dare la risposta del nipote che l’aveva sedotto, aveva spiegata abbastanza la intenzione del Gratarol.
Giunse mio fratello Gasparo, il quale mi condusse dal senatore Paolo Renier che fu poscia doge di Venezia e ch’io non conosceva.
Quel signore volle sapere dalla mia voce la ingenua serie de’ fatti relativi alla commedia, al Gratarol e alla di lui comparsa nella mia abitazione. Gli narrai tutto colla piú scrupolosa candidezza. — Ebbene — diss’egli — estendete con puritá e la possibile brevitá la storia de’ casi che mi narraste, in forma di memoriale da presentare al tribunale supremo, supplicando d’avere risarcimento all’onor vostro annerito dal proditorio viglietto del Gratarol. Unite al memoriale il viglietto aggressore, le testimonianze che nominaste, quanto avete in quest’argomento; e recate a me ogni cosa.
Ho ciecamente obbedito. Non credo che ci sia sciocco il quale possa dubitare ch’io abbia posto in apparecchio nella mia storia, in forma di memoriale, cose che avessero ombra di falsa querela o di menzogna da presentare ad un tribunale di cui non v’è chi non tremi. L’indole mia non farebbe ciò con la piú inconsiderabile persona. Chi può immaginarsi ch’io abbia alterata la veritá innanzi a tre giudici che fanno spavento a tutti e che a qualunque picciola falsitá rilevata m’avrebbero folgorato? Il mio memoriale storico è quello che segue.
SERENISSIMO PRINCIPE
Illustrissimi ed eccellentissimi signori inquisitori di Stato,
Esibita a me Carlo Gozzi, suddito fedele di questo serenissimo dominio, dalla compagnia comica del teatro Vendramini sin dall’anno 1775 una commedia spagnola di Tirso de Molina intitolata: Celos con celos se curan, da ridurre ad uso de’ nostri teatri, condiscesi alle preghiere di quella comica compagnia da me gratuitamente beneficata di generi teatrali da sedici anni.
Divisa questa in tre atti, fu da me scritta co’ medesimi personaggi della spagnola e con caratteri universalissimi, sino dal carnovale dell’anno scaduto 1776, e letti alla compagnia stessa, terminato il carnovale, il primo, il secondo e parte del terzo atto a cui diedi fine nell’estate trascorso, intitolando quest’opera: Le droghe d’amore.
Donata l’opera ad Antonio Sacchi comico, fu licenziata dal magistrato eccellentissimo sopra la bestemmia.
Sono ignoti i motivi e ignote sono le riferte false per le quali il circospetto signor Pietro Antonio Gratarol fece de’ ricorsi perché fosse richiamata al magistrato stesso questa commedia, risvegliando de’ pubblici discorsi inconvenienti e perniziosi in di lui svantaggio.
Fu obbedito il magistrato eccellentissimo, fu riletta e restituita con ordine espresso di doverla esporre in teatro; il che avvenne la sera de’ dieci del corrente gennaio, e corsero quattro replicate recite.
Venendomi riferto che i falsi passi e i discorsi fatti e risvegliati dal signor Gratarol anteriormente, avevano cagionata illusione e che pareva ad alcuni di vedere il di lui carattere in un carattere universale d’indole galante della commedia, e sapendo ch’egli altamente si lagnava, mi mossi a chiedere in grazia di troncare le recite alla quinta; e ciò doveva succedere il martedí quattordici del corrente mese. Ma verso le due della notte a teatro pieno venne la nuova che la comica Teodora Ricci era caduta nella sua casa e, offesasi un piede, non poteva venire al suo dovere; il che espose quella povera truppa al tumulto e alle urla de’ radunati, gran parte de’ quali fece impeto alla porta e volle i danari indietro.
Fu per calmare il pubblico invitata la stessa commedia per il venerdí successivo, col consenso della Ricci stessa, visitata da un chirurgo per parte del nobil uomo Vendramini padrone del teatro, e replicato l’invito, la sera dietro, al pubblico dal marito della stessa comica Ricci in cui non appariva alcun male.
In tale stato di cose comparve il circospetto signor Pietro Antonio Gratarol alla mia abitazione la mattina del giovedí sedici corrente insieme col signor Carlo Maffei comune amico, e fu da me ricevuto con la dovuta cordialitá. M’espose con un lunghissimo discorso la sua circostanza. Mi palesò che ne’ giorni di tempo concesso dagli accidenti della comica Ricci s’era presentato a vari ossequiati tribunali per ottenere la sospensione della commedia, e ch’era stato rigettato. Mi provò con molte ragioni a suo modo ch’io era in ciò plenipotenziario e ch’io poteva impedire che la commedia non andasse piú nel teatro. Disse che il Sacchi capocomico, a me obbligato per benefizi avuti e sperati in progresso, sarebbe disceso, e che il nobil uomo Vendramini non aveva facoltá di astringere il Sacchi a riprodurre la commedia, e che perciò attendeva dalla mia da lui voluta autoritá tal sospensione.
Risposi che mi doleva la sua circostanza da lui solo proccurata; ch’io non mi credeva in facoltá di sospendere una commedia donata, licenziata e voluta da’ superiori, accolta e chiamata dal pubblico, troncata il martedí con tanto scandalo con un mendicato pretesto d’una comica, invitata e promessa replicatamente al pubblico che n’è in possesso; e che finalmente le sue istanze rigettate da’ riveribili tribunali avvaloravano i miei riflessi e la mia soggezione. Egli sprezzò tutte le mie ragioni, insistí nella mia da lui ideata «plenipotenza» e mi pregò a fare che la commedia non entrasse piú in iscena.
Proccurai di persuaderlo a soffrire che fosse riprodotta per una sera in soddisfazione del pubblico, ché tenterei che non andasse piú innanzi. Tutto fu vano, e rinnovando la sua dimanda, aggiunse che «se quella commedia ritornasse in teatro il venerdi egli, non curava piú la sua esistenza».
Mossa a compassione d’una mente riscaldata la mia amicizia, promisi di fare dal canto mio il possibile; che avrebbe riscontri del mio operare. Ed egli partí.
Scrissi tosto un viglietto a Sua Eccellenza Vendramini chiedendo in grazia che la commedia non andasse piú in teatro. Trovai il Sacchi, chiesi lo stesso favore, ed egli mi fece conoscere la indignazione del pubblico e la fatale sventura a cui s’esponeva, ma si espresse che si sarebbe sacrificato. Il nobil uomo Vendramini mi scrisse che non era possibile la grazia chiesta. Mi portai la sera del giovedí colla persona del signor Carlo Maffei dal signor Francesco Contarini zio del circospetto signor Gratarol, lo pregai a far nota al nipote la impossibilitá dell’esito de’ miei trattati e a calmarlo, promettendo che le recite non sarebbero corse oltre al venerdí. Ebbi in risposta ch’io poteva e doveva far sospendere la commedia.
Mi si rese anche impossibile il poter far troncare le recite la sera del venerdí. Un ordine degli eccellentissimi signori capi dell’Eccelso aveva comandato alla comica Ricci di portarsi al suo dovere, e il nobil uomo Vendramini aveva commesso di dover seguitare le recite della commedia sino che il pubblico le voleva. Tutto ciò seppi la mattina del sabato, non essendo io andato a quel teatro la sera del venerdí, lasciati avendo i miei impegni e le mie preghiere di sospensione.
Mentre la mattina del sabato mi rammaricava col nobil uomo Paolo Balbi quondam Barbarigo venuto ad onorarmi alla mia casa e col signor Raffael Todeschini mio amico, del cartello di nuovo esposto e di non aver potuto servire il circospetto signor Gratarol, comparve un servo del medesimo e mi consegnò un viglietto. Trovai il foglio calunnioso, minaccevole e ripieno de’ piú aggravanti insulti d’ignominia perché io non aveva fatta sospendere la commedia né il venerdí né il sabato.
Minacciato ed offeso ingiustamente nella fama con inaudita sopraffazione, obbediente alle leggi di Dio e a’ voleri di questo provvido governo pietoso che comanda la pace a’ suoi sudditi, ricorro genuflesso a’ piedi di Vostre Eccellenze, e presentando annesso all’umilissima mia esposizione supplichevole le testimonianze del mio operare e la carta giá vantata dall’insultatore ingiuriosa oltremodo, chiedo prostrato riparo all’onore e salvezza dalle molestie. Ché della grazia, eccetera.
Avrei voluto essere assai piú breve nella mia storica esposizione, ma la lunga serie della veritá de’ fatti e la lunga catena delle stravaganze del Gratarol non mi permisero la brevitá. Si troverá che le veritá relative al Gratarol ed a me esposte in quello storico memoriale supplichevole sono in compendio quelle medesime che diffusamente si leggono nelle Memorie della mia vita intorno alla vicenda avvenuta tra me e quell’infelice riscaldato la fantasia.
Recai quel mio foglio, unito a’ viglietti Vendramini e Gratarol e alle testimonianze nominate in esso, sotto il maturo riflesso del senatore accennato, a cui nel porgere il mio fardelletto aggiunsi con la voce: — Questa, o Eccellenza, è la prima volta che per conto mio con somma mia amarezza vengono disturbati i tribunali Eccelso e Supremo. Non v’è uomo che piú di me brami la pace, fugga le gare e i contrasti. Mi convien dire che per quanto si proccuri d’aver la propria quiete, sia impossibile il possederla. — Da’ cervelli alterati e spezialmenti superbi — rispose il grave senatore — non è possibile indovinare ciò che possa uscire.
Egli lesse la mia storica esposizione supplichevole con attenzione, indi mi disse: — Veramente al tribunale dove va prodotta questa carta non v’è costume di leggere tali fogli della lunghezza del vostro. Tuttavia egli non contiene niente di soperfluo e però sta a dovere.
Non saprei rendere altri conti sul mio storico memoriale. La mattina de’ dí ventitré di quel gennaio mentr’era ancora a letto, mi fu condotto il medesimo staffiere che aveva recato il foglio ingiurioso de’ dí diciotto. Mi presentò un viglietto sigillato dicendomi: — Il mio padrone m’ha incaricato di dar questa carta nelle sue proprie mani. — Aperto il viglietto lessi le parole e i sentimenti che seguono.
Signor conte, amico riveritissimo,
In tutto opposti a’ sentimenti espressi nel mio viglietto dell’altro giorno Ella riceva i sensi del presente; li quali niente dissimili da quelli della sincera estimazione e benevolenza che per molti anni ho nodriti verso di lei, le dichiaro ch’io non intesi d’offenderla e che dimenticando il passato io seguirò a professare verso di lei la stessa stima ed amicizia, con lusinga di ottenere tanto maggiore corrispondenza quanto piú l’è manifesta la mia dichiarazione.
Di casa a dí 23 gennaro 1776/77
suo divotissimo servo ed amico |
Letto il foglio, niente dissi al portatore se non che con un sentimento sincero, cordiale e cristiano: — Andate e riverite il vostro padrone.
Ebbi delle visite. Il viglietto di ritrattazione volò in molte copie per la cittá risvegliando di que’ discorsi che queste tali faccende sogliono suscitare, particolarmente negl’innumerabili oziosi.
Fui a visitare il senatore che aveva protetta la mia circostanza per dargli ragguaglio di quanto era caduto e per ringraziarlo. V’erano degli astanti assennati. — Ho ricevuto — diss’io al cavaliere — questa mattina un viglietto di ritrattazione del Gratarol. — Ciò m’è noto — rispose quel signore con gravitá. — Penso — diss’io — di fare una visita a quel personaggio. Egli fu due volte alla mia abitazione, io non fui giammai alla sua. Siccome non ebbi in nessun tempo alcuna amarezza dal canto mio verso di lui, mi scordo affatto gli errori della sua mente accesa e compatibile, e bramo con un bacio amichevole di persuaderlo della mia cordialitá e di cancellare ogn’ombra di dissapore.
Devo dire ciò che mi rispose quel senatore? — Voi avete del talento e della penetrazione — diss’egli, — eppure conoscete male la natura de’ superbi. Vi sconsiglio dal fare il passo che dite. Se vi incontrate nel Gratarol per istrada e soltanto s’egli è il primo a salutarvi, levatevi il cappello con un semplice atto di civiltá sostenuta, ma non trascorrete con parole o con abbandonate dimostrazioni. Da un uomo ostinatamente orgoglioso possono sempre uscire delle stravaganze, ed egli potrebbe imbrogliarvi di nuovo. M’immagino giá che i comici seguiteranno a replicare la vostra commedia.
— Non lo so — diss’io, — ma per quanto mi fu detto, hanno sospese le repliche. — Male, malissimo — rispos’egli; — l’arrogante s’ingegnerá di far credere che la sua ritrattazione sia stata combinata colla sospensione della commedia. I comici dovrebbero invitare almeno per un’altra replica, adducendo al pubblico che de’ personaggi ragguardevoli l’hanno chiesta.
Non potei rispondere se non che le veritá: ch’io non aveva avuta giammai parte alcuna né nella produzione né nella riproduzione né nelle repliche né nella sospensione; che da molti giorni io non andava in quel teatro, passando le sere negli altri teatri; e che finalmente non era da sperare che i comici avessero altra mira che quella dell’interesse e della venalitá.
Quel cavaliere, ragionatore eloquente, si diffuse a favellare e a riflettere sulle cagioni della corruttela de’ costumi, sul disordine de’ modi di pensare introdotti e dilatati. Giammai ho udito ragionare con tanto acume, tanta erudizione, tanta precisione, tanta chiarezza, tanta estensione di lumi e tanta veritá in quest’argomento. Parlo d’una mente elevata, d’una lingua espedita, e non parlo de’ cuori ch’io non odo e non vedo.
Partendo io da quel signore non mancai d’eseguire, quanto a me, con tutta la osservanza i ricordi suoi. Tuttoché io fossi avverso alla riproduzione di nuove repliche di quella romorosa maledetta commedia, volli avvertire il Sacchi di quanto il cavaliere aveva detto, comandandogli però di non aderire se non gli venissero comandi da dover obbedire.
Il Sacchi mi disse che non l’avrebbe sospesa se la comica Ricci che sosteneva la parte principale della commedia, nelle due ultime sere consecutive non avesse borbottata e snocciolata la sua lunga parte sotto voce, a segno di cagionare continue urlate nel teatro, soffrendo de’ titoli obbrobriosi da’ palchetti, non dando alcuna retta a’ rimproveri de’ compagni né alle voci di strapazzo del pubblico. — Credei meglio — diss’egli — il fermar la commedia che il lasciar seguire quello scandalo pericoloso.
Non potei trattenere le risa a questa riferta. — Veramente — diss’io — il Gratarol ha degli obblighi grandi verso quella povera donna. Ella volle cadere da una scala e volle soffrire delle ingiurie dal pubblico a di lui riguardo. Avete fatto bene a fermare una commedia che doveva cader negli abissi la prima sera.
Seppi tuttavia che il Sacchi fece chiedere per timore al cavaliere accennato se era comando del tribunale o consiglio privato, di replicare quell’opera, e che per grazia del Cielo gli fu data risposta ch’era puro consiglio privato.
L’uomo giusto non potrá mai negare che la cieca credenza prestata ad un’attrice, la incautela delle mosse, la serie delle iraconde stravaganze del cervello riscaldato del Gratarol non abbiano posto in mano delle armi a’ suoi troppo ingiusti nimici, aguzzata una sozza protetta comica venalitá e irritati de’ tribunali col suo non meno che col mio pregiudizio.
Seguíti tutti i sopraddetti accidenti, mi sono incontrato faccia a faccia col Gratarol a Venezia ed a Padova infinite volte, desideroso della di lui cordialitá. Non celo il suo valore. Egli ha obbedito alla sua non guaribile alterigia tenendo il cappello inchiodato sulla gabbia de’ suoi farfalloni, ed io ho obbedito al consiglio del senatore di non essere il primo a salutarlo, senza aver sopra ciò pretensione alcuna, ma non senza sentire il ribrezzo ch’egli non sentiva, d’usare un’increanza. S’egli m’avesse detta un’ingiuria sguainando la spada, averei inteso ch’egli pretendeva che la sua ritrattazione non fosse valida. Una pretendente inurbana albagia in lui non poteva risvegliare in me questa idea. Chi doveva immaginarsi ch’egli disegnasse di andare a Stockolm per ivi ingiuriarmi e per ivi sguainare la spada contro me che sono a Venezia?
Dal canto mio, salvo un consiglio ch’io doveva rispettare come un comando, ero alienissimo dal guardare quel povero oppresso dal proprio temperamento e da’ suoi troppo crudeli nimici, con guardo di nimicizia. Si leggeranno in queste Memorie delle prove ingenue di questa veritá.