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parte seconda - capitolo xliii 141


Saprò condannare da me medesimo nella pittura ch’io darò del mio carattere e del mio temperamento, le renitenze ch’io ebbi sempre di farmi schiavo de’ Grandi e dell’interesse, e addurrò le ragioni della mia condanna. Ma abbiamo tutti qualche difetto non sbarbicabile da’ nostri istinti. Tra le angustie, i pensieri, le afflizioni, le fatiche e il bollore della stagione, non potei difendermi dall’assalto d’una gagliarda febbre che mi sorprese e mi tenne obbligato a letto tre giorni. Bene per me ch’ella non fu che un’effimera e che potei nuovamente recarmi alla vigilanza sulla vita di mio fratello.

Le notizie ch’io ebbi in que’ tre giorni ch’io non potei visitarlo furono sempre maggiormente infelici. Quando fui in grado di andare a lui, trovai madama Cenet immersa nel pianto. Ella mi riferí che l’ammalato era ne’ suoi ultimi momenti della vita coll’assistenza d’un sacerdote; che due de’ medici visitatori esaminando la tazza degli sputi e trovandoli schietta marcia, avevano deciso esser giá la contusione per la percossa avuta nel petto nella sua caduta ridotta cancrena stabilita, e ch’egli averebbe vissuto pochi momenti.

Chiesi addoloratissimo se fosse mai stato il professore Dalla Bona dopo il consulto e dopo i di lui suggerimenti. Madama mi rispose di no. Vidi quel soggetto celebre passeggiare nel Prato della Valle e corsi a pregarlo di voler venire a dare un’occhiata al giudicato spirante. Si mostrò prontissimo gentilmente. Via facendo gli narrai la scoperta de’ due medici e la loro funesta sentenza.

Mi duole di dover mescere con questa tragica narrazione, delle facezie comiche e di comparire satirico senza colpa. Quell’eccellente professore fu lungamente attento sulla respirazione dell’infermo e disse poscia: — Qui abbiamo il respiro bensí debile ma libero; dunque la sentenza della cancrena è sentenza ridicola. Dov’è questa marcia sputata? — diss’egli. — Gli fu recata la tazza degli sputi, ch’egli esaminò minutamente, dicendo infine: — Questa non è altrimenti marcia, ma è butirro.

Difatto era di quel butirro che la madama assistente cacciava a forza nella bocca dell’ammalato per dargli qualche nutrimento