Memorie inutili/Parte prima/Capitolo II

Capitolo II

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CAPITOLO II

Mia educazione, vicende mie e della mia famiglia

sino a’ miei sedici anni.

La fratellanza nostra corse al numero di undici tra maschi e femmine. Non potrei scrivere che delle memorie onorate de’ miei fratelli e delle mie sorelle; ma io mi sono proposto di dare delle memorie intorno alla mia vita soltanto.

L’epidemia letteraria fu sempre dominatrice nel nostro albergo; ed ho de’ fratelli e delle sorelle capaci di scrivere agevolmente la vita loro, se il prurito di scriverla gli assalisse.

De’ successivi preti, non molto dotti, furono i pedanti in casa, educatori della nostra fratellanza sino ad una certa etá.

Ho detto successivi, perché, a misura della loro temeritá e de’ loro garbugli amorosi colle serve, furono scacciati e sostituiti.

S’apre una via di poter incominciare a formar un’idea del mio istinto sino dalla mia infanzia.

Fui sino da fanciulletto osservatore taciturno, nulla insolente, imperturbabile e diligentissimo nelle mie lezioni.

I miei fratelli condiscepoli traevano de’ comodi dal mio naturale all’estremo pacifico e muto. Accusavano me al pedante di tutte le impertinenze ch’essi facevano nella scuola. Io non mi degnava né di scusarmi né d’accusare, e sofferiva con somma costanza le ingiuste crudeltá del maestro punitore. Oso dire che non fu mai da alcun ragazzo mostrata maggiore indifferenza di quella che mostrava io al gran castigo di scacciarmi ingiustamente dalla mensa sul punto di pormi a pranzare. L’obbedire, il sorridere, erano le mie difese.

Questi tratti possono far giudicare a’ miei nimici ch’io fossi un ragazzo stupido, ed agli amici ch’io fossi un ragazzo filosofo. Lo sguardo del giusto è cosa rarissima. [p. 30 modifica]

Do un sincero picciolo cenno del mio temperamento sino dalla mia puerilitá a’ pronosticatori, i quali, se si vorranno dar la briga di esaminare tutte le persone che ho praticate, tutti i domestici che m’hanno servito, rileveranno che la mia taciturnitá e il mio sorpassare, la mia costanza per il correr degli anni, non si sono alterati; ch’io guardo le vicende del mondo sempre con occhio ridente, e che mi scossero soltanto quelle che attaccarono l’onor mio.

Il disordine della famiglia non era ancora giunto a rendere impossibile una regolare scolastica educazione ne’ figliuoli.

I miei due fratelli maggiori, Gasparo e Francesco, entrarono ne’ collegi e furono in tempo di poter bere a tutti i fonti delle scuole metodiche successive; ma le spese inopportune, non misurate con l’economia e co’ numerosi frutti d’un matrimonio, introdussero in breve giro d’anni l’impossibilitá alle buone regole di educazione riguardo agli studi.

Io fui consegnato ad un dotto parroco di villa per alcuni anni, indi ad un prete di Venezia, d’una dottrina sufficiente e d’ottimi costumi, per qualche tempo.

Un liceo di due sacerdoti genovesi, che insegnavano a parecchi nobili e a parecchi ignobili, fu l’asilo in cui scorsi que’ studi che può scorrere sino all’etá di quattordici anni un giovine, amante de’ libri ed avido d’apprendere qualche cosa.

Eravamo in quel liceo circa a venticinque scolari. Scorrevamo tutti gli studi medesimi con qualche differenza di classe, ed ebbi occasione di conoscere chiaramente dopo molti anni, che i maestri sono utilissime guide a’ giovani amanti dello studio, e deitá inefficaci e noiose per quelli che l’abborriscono.

L’ozio e il vizio cancellano nella mente de’ mal inclinati tutte le semine de’ precettori, e vidi e vedo piú di due terzi de’ miei condiscepoli, ignobili, a’ quali la Gramatica, l’Umanitá, la Rettorica non hanno altro insegnato che ad ubbriacarsi alle taverne, a portar delle sacca prezzolati, ed a gridar per le vie: «Mele cotte susine e marroni!», con un paniere sul capo e una bilancia appiccata al fianco. Miserabile condizione de’ padri! [p. 31 modifica]

Scorgendo io lo scoglio cagionato dalle circostanze della famiglia ad un mio piú lungo corso nelle scuole, credei co’ pochi semi acquistati di poter aiutarmi da me medesimo, per non rimanere ignorante affatto.

L’esempio di Gasparo mio maggiore fratello, la cui passione per gli studi era pubblicamente lodata, aggiungasi il mio buon volere, mi tenne inchiodato sopra a’ libri di tutti i generi, né comprendeva che ci fosse diletto considerabile fuori del leggere, del riflettere e dello scrivere.

La poesia, la lingua purgata italiana e l’eloquenza erano in quel tempo studi in andazzo e pregevoli. Le adunanze de’ giovanetti in Venezia erano molte su questi tre argomenti, de’ quali oggi è perduta ogni traccia, forse per maggior utilitá de’ concittadini.

Vedo una infinitá di giovani scapestrati, nani superbi, presuntuosi, leggeri, oziosi e perniziosi. Non so quali sieno i loro studi, e tuttoché quello della poesia, della nostra purgata lingua e dell’eloquenza tenesse al tempo de’ miei anni giovanili innumerabile gioventú civile occupata in emulazione e morigeratezza, loderò un bulicame di persone ben nate, che baldanzose sanno tutto per supposizione di saper tutto, nulla producono al mondo, non sanno scrivere tre linee di lettera co’ lor sentimenti sviluppati, né senza stomachevoli errori di grammatica o d’ortografia.

Lascierò di riflettere che la stima verso a’ grandi è necessaria, e che quella la quale vien loro dimostrata da’ popoli, cagionata dalla lor nascita e dalla ricchezza loro, non è stima, ma falsa simulazione.

Non sosterrò che un indispensabile quasi giornaliere commercio di lettere diffuso con un innumerabile genere di persone, che non saranno per avventura scientifiche, ma che conosceranno se una lettera sia ben scritta o ben ridicola, possa cattivare una gran parte della stima o una gran parte del disprezzo de’ Grandi.

Non rammemoro quel ricco, posto con ingegnosa veritá dal signor Merciè nel suo dramma Indigenza, il quale non poteva scrivere un urgentissimo viglietto, perché il suo secretario era fuori di casa. [p. 32 modifica]

Non dirò nulla a molti scientifici precettori de’ rampolli de’ Grandi d’oggidí, che, deridendo e sprezzando a’ loro alunni le belle lettere e la soda corretta eleganza, allevano de’ geometri, de’ matematici, de’ fisici, de’ filosofi, degli astronomi, degli algebratici, degli storici naturali, de’ diluvi di scienze, che poi non sanno esprimere in iscritto né ciò che hanno loro insegnato né i loro bisogni.

Tutto ciò che l’impostura dipinge agli occhi miei si rimane nella mia penna. Non voglio nimici.

Siccome quando si sta scrivendo cadono talora de’ goccioloni d’inchiostro dalla penna, i quali non servono che a fare de’ sgorbi sulla materia che si scrive, dettando le Memorie della mia vita mi caderanno frequentemente de’ goccioloni inopportuni e molesti.

Le mie applicazioni sui frivoli studi della purgata lingua d’Italia, della poesia e della eloquenza, furono di tanta fatica, di tanta assiduitá, che mi vergogno a palesarle. Mi cagionarono un’emorragia di sangue dalle narici cosí eccessiva che, replicandosi di quando in quando, fui giudicato morto ben quattro volte come Seneca.

I premurosi della mia salute mi celavano tutti i libri, mi privavano della carta e del calamaio; ma io ero un abilissimo ladro per rinvenir tutto, e incagnato abbastanza per leggere e scrivere di furto ne’ stanzini disabitati.

A narrare queste veritá, posso far credere a’ maligni ch’io pretenda di dipignermi degno d’un elogio, e s’ingannano. Guardandogli colla mia lente, gli assicuro anzi di far loro un benefizio d’aprir la via ad un argomento di beffeggiarmi.

Le applicazioni sopra a degli studi giudicati universalmente disutili, e che riducono l’applicato alle infermitá, sono fieramente riprese dal celebre medico signor Tissot, il quale applaude soltando gli studenti che si ammazzano sulle applicazioni che possono giovare all’umanitá; e sto in buona fede che le sue applicazioni e quelle dei suoi ammiratori sieno giovevoli all’umanitá.

L’abate Giovan Antonio Verdani, bibliotecario nella quondam scelta e magna libreria della patrizia casa Soranzo, versatissimo [p. 33 modifica]nelle belle lettere, aveva della pietá per la mia debolezza, che era anche la sua, e mi soccorreva d’avvertimenti e di libri rarissimi, capidopera di eloquenza semplice, di prosa e di poesia italiana.

Non saprei render conto della quantitá di carta da me consumata e colmata di pensieri, di prose e di versi.

Ho voluto imitare lo stile di tutti i scrittori antichi toscani piú celebrati. Sono certo di non esser mai giunto alla lor perfezione; ma sono certo ancora che la lettura indefessa, non superfiziale, d’una montagna di buoni libri, che trattano di tutte le materie, non lascia una migliore testa della mia, vuota né di lumi, né di nozioni, né della facoltá di riflettere e di conghietturare con aggiustatezza, né di morale; e sono altresi certissimo che l’esercizio efficace dell’imitazione nello scrivere insegna la facilitá dell’esprimere le proprie idee colle tinte, co’ termini, colle frasi differenti, o adeguate a quelle immagini gravi, famigliari e facete, che nascono negli intelletti nostri e vogliamo altrui comunicare sviluppate nel loro vero aspetto e ben tinteggiate con delle prose o de’ versi.

Senza giugnere alla facoltá che ho cercata in questo proposito, mi sono acquistato la infelicitá di rimanere nel numero di pochissime persone conoscitrici di questa veritá, e mi sono guadagnato quell’altra miseria di leggere a stento con della noia, dell’antipatia insuperabile e del disprezzo molti libri italiani moderni, ripieni di false immaginazioni, di sofismi, e soprattutto di un’eloquenza e d’una dicitura sempre eguale in tutte le materie che trattano, lorda di gergoni, d’ampollositá, di goffaggini, di periodi vorticosi ed oscuri e d’un frasario ridicolo.

Le scienze, le cognizioni e le scoperte vantate, delle quali oggidí si tratta, saranno utili e rispettabili, e perciò non dovrebbero essere profanate e vilipese dalla incolta, impura, impropria e spropositata dicitura. Francesco Redi fu grand’uomo, gran filosofo, gran medico, gran naturalista, e favorisce la mia opinione co’ scritti suoi. L’opere di belle lettere, di spirito e poetiche, sono assolutamente cattive, spregievoli e indegne dell’immortalitá, se mancano da questa parte. [p. 34 modifica]

Non sono numerabili i bei sentimenti e grandi, che periscono affogati nel lezzo di una penna inesperta, e sono infiniti i piccolissimi sentimenti ben sviluppati, coloriti dalle tinte de’ veri termini e posti nel vero loro punto di vista da una penna maestra, che brillano agli occhi di tutti i lettori, dotti ed indotti.

De’ gusti non si deve disputare; masi può agevolmente sostenere che sia caduto in un vergognoso letargo in questo proposito il nostro secolo.

Ho scritto e stampato abbastanza in su questo argomento senza nessun effetto, ma credo in me non disdicevole una picciola esagerazione funebre sopra a quella facoltá che bramai di possedere; facoltá oggidí considerata inutile, e che mi viene però liberamente concessa a chiusi occhi, non dalla intelligenza, ma da una ignorante prevenzione, perch’io non abbia nemmeno il conforto di potermi accertare di possederla.

Sono tuttavia grato anche verso a’ ciechi ed a’ sordi, che vedono ed odono ne’ miei scritti delle bellezze.

Una perpetua lettura; un immenso logorare d’inchiostro; delle attentissime osservazioni sul costume e sulla umanitá; gli stimoli dell’abate Verdani e quelli di Antonio Federigo Seghezzi; l’esempio di mio fratello Gasparo; l’occasione d’una giornaliera adunanza letteraria nella casa nostra tennero aperto l’adito al proseguimento d’una, non so se buona o infelice, coltura alla mia mente ed al mio spirito.

Mi proccurai da un piemontese, la di cui dottrina era il saper leggere, alcune scintille de’ principi dell’idioma francese, non giá per favellare in quel linguaggio in Italia, abborrendo quella parte d’impostura che spicca tra noi in questo proposito, non meno che il farmi corbellare, ma per potere da me medesimo coll’aiuto d’una gramatica e d’un vocabolario giugnere, come feci al possibile, a comprendere gli ottimi e perniziosi libri che escono da quella nazione premiatissima, e per ciò valentissima.

Dalle accennate fonti, dal mio genio instancabile e dal continuo esercizio, è uscita quella non so quale mia educazione letteraria, ch’io non so se m’adorni o mi disadorni, ma che ho sempre seguita per mio innocente e disinteressato divertimento sino alla [p. 35 modifica]canizie d’un terzo de’ miei capelli, e che seguirò collo stesso metodo sino al mio uscire da questo mondo presentato dalla mia lente facetissimo agli occhi del mio intelletto.

Vederanno i grand’uomini di vasta e profonda scienza (ch’io non guardo colla mia lente per non cadere in un imperdonabile errore) che, narrando io le picciole fonti della mia educazione, non fo che dipingere con umiltá un pigmeo letterario.

Riguardo alla mia educazione morale, la famiglia in cui nacqui ha sempre coltivata un’augusta immagine della religione, le di cui conseguenze sono fuori dalle penetrazioni della mia lente, e il padre mio, trascurato nell’economia, fu attentissimo a’ doveri verso la religione e al buon esempio delle oneste azioni. Era nimico acerrimo della menzogna, e uscivano dall’animo suo delicato e suscettibile, al suono di una bugia, guanciate d’un suono enorme sul viso de’ suoi pargoletti.

Siccome egli era franco cavallerizzo e appassionato per i cavalli, ci ammaestrava in quell’esercizio e ci voleva vedere ogni giorno a cavallo ne’ tempi della villeggiatura.

Non valeva il nostro timore o il ribrezzo allo sbuffare o arretrosire di qualche puledro non bene ancora avvezzato; conveniva salire la bestia, sofferire qualche vergheggiata in sulle gambe, galeggiare e correre senza riflettere al pericolo de’ stinchi e del collo.

Alcuni cozzoni, che venivano a scorgere de’ viziosi puledri, m’hanno dato de’ ricordi da porre in opra al caso d’un cavallo sfrenato e sboccato; ed ho avuta un’occasione, che narrerò poi, di valermi con frutto d’uno di que’ ricordi, di salvare la vita e di riconoscerla da un cozzone.

Si eseguivano nella nostra casa di villa alcune rappresentazioni sceniche in un teatrino di poco regolare architettura.

Tutta la nostra fratellanza mascolina e femminina aveva della comica disposizione, e in faccia ad un’assemblea spettatrice di villici eravamo tutti eccellenti attori.

Oltre all’opere tragiche e comiche apparate a memoria, non si mancava di rappresentare delle farse giocose di piccolo intreccio, alla sprovveduta. [p. 36 modifica]

Una mia sorella, appellata Marina, ed io, eravamo perfetti imitatori d’alcune femmine e d’alcuni uomini coniugati, note caricature del villaggio. Innestando alle farse molte scene appoggiate a’ dialoghi ed a’ contrasti famosi di quelle mogli e di que’ mariti spesso ubbriachi, co’ panni indosso de’ nostri originali imitati, la copia d’imitazione era tanto pontuale agli occhi de’ nostri villerecci ascoltatori, che conoscendola, ridendo bestialmente, ci caricavano d’applausi proporzionati alle loro grossolane nature.

A mio padre ed a mia madre venne il capriccio di voler essere imitati in una farsa da me e dalla mia sorella accennata.

Facemmo gli schizzinosi alquanto; ma bisogna obbedire al padre e alla madre. Gli abbiamo serviti con una esattissima imitazione di vestiti, d’attitudini, d’intercalari e di dialoghi, in alcune scene intrecciate di famigliati contrasti tra lor consueti.

La maraviglia loro fu grande, e le loro risa furono il castigo alla nostra obbediente temeritá.

Mi dilettai d’apprendere a strimpellare passabilmente un chitarrino, e in competenza con mio fratello Gasparo composi, cantando e suonando, de’ versi rimati improvvisi nelle ricreazioni, con tutta l’audacia occorrente a questo cimento, un po’ troppo stupidamente creduto da una moltitudine miracoloso.

Appago una mia brama di ciarlare alquanto sopra a questo miracolo. A mio credere, que’ rigoletti d’immenso popolo a bocca aperta che s’affolla intorno ad un improvvisatore di versi, prova soltanto che, ad onta dell’avvilimento con cui si pensa sulla poesia, ella abbia quella forza sugli animi e sui cervelli, che le viene con ingiustizia dalle lingue negata.

Dicesi che Cristoforo Altissimo, poeta del secolo 1400, abbia composto alla sprovveduta, cantando in ottava rima pubblicamente, il suo poema de’ Reali di Francia, e che alla sfuggita sia stato ricopiato rapidamente mentr’egli lo componeva cantando.

Benché si peni a trovarlo per la sua raritá, egli è stampato sin da que’ tempi, ed io l’ho letto favoritomi dal suaccennato abate Verdani. [p. 37 modifica]

In un oceano di ottave che formano quell’antico poema, pochissime sono quelle degne d’essere considerate poesia; tuttoché è da credere che, prima di darlo alle stampe, la lima non sia stata inoperosa.

Ho udito parecchi e parecchie improvvisatori e improvvisatrici piú celebrati del secolo nostro, ed ho compreso benissimo che, se quel diluvio di versi, che sputano colle lor facce infuocate facendo maravigliare gli ascoltatori, fossero scritti, non solo valerebbero poco tra i generi poetici, ma non troverebbero lettori che avessero la sofferenza di giugnere alla ventesima parte di quelli colla lettura.

L’olivetano padre Zucchi, che ho udito rimare alla sprovveduta ne’ miei fresc’anni, faceva qualche strofa sensata piú che gli altri suoi pari detti colti; ma egli era tanto lento nel suo verseggiare che il riflesso poteva aver parte.

I rimatori all’improvviso potranno essere per avventura colmi di dottrina e d’erudizione a poter ben discorrere sopra que’ tanti quesiti che vengono loro proposti. Non sarebbero ascoltati se gli trattassero divinamente in ottima prosa. Per avere delle gran turbe ascoltatrici fanatiche, è necessario che esprimano le loro immagini e i loro pensieri, comunque vengano, velocemente e con de’ cattivi versi rimati che spesso non sono che un mormorio di parole vuote di senso, per cagionar de’ stupori. L’umanitá fu sempre un bracchetto in traccia di maraviglie.

Se un pittore volesse rappresentare in un quadro la Temeritá o l’Impostura mascherata da Poesia, non saprei meglio consigliarlo che a dipingere un improvvisatore di versi, con gli occhi spalancati, le braccia all’aria e una calca di persone rivolte a quello co’ visi maravigliati e stupidi.

M’inchinerò sempre per semplice urbana politezza alle incoronazioni di lauro ne’ Campidogli dei cavalieri Perfetti e delle Corille; ma adorerò sempre cordialmente e seriamente quelle de’ Virgili, de’ Petrarchi e de’ Tassi soltanto.

Gli Arcadi rideranno se a questo proposito parlerò d’un improvvisatore di versi da me conosciuto e udito infinite volte; e tuttavia farei un’ingiustizia a non fare menzione di lui e a [p. 38 modifica]non confessare che quello fu l’unico oggetto di maraviglia ch’io udissi in un tal genere tanto considerato.

Il di lui verseggiare e rimare improvvisamente e lungamente, in anacreontici, in ottava rima e in qualunque metro, ben suonando un suo chitarrino, era vuoto delle parole Clio, Euterpe, plettro, Parnaso, Aganippe, ruscelletto, zeffiretto, ecc.; e non era che un esteso discorso famigliare, piano, mansueto, ma d’una fertilissima concatenazione d’immagini e di pensieretti naturali, vivaci, gentili, leggiadri.

Egli non usciva nel suo improvvisare da’ due dialetti veneziano e padovano; il che accrescerá le risa dileggiatrici negli Arcadi e nel Campidoglio.

Improvvisando in sul: «diligite inimicos vestros», in una circostanza di due nimici ch’erano presenti, ed esagerando sull’afflizione del suo cuore in un’altra circostanza, per un cavaliere a lui benefico abbandonato da’ medici e moribondo, ho veduto tener fermi gli ascoltatori non solo, ma cagionare in sul fatto una riconciliazione tra i due nimici e far scorrere le lagrime dagli occhi sui suoi lamenti per il benemerito cavaliere spirante.

A tali effetti cagionati sul cuore umano riconosco un poeta improvvisatore, lo registro tra gli uomini che potrebbero anche scrivere della poesia per la immortalitá, e l’adorno della corona d’alloro nel mio Campidoglio.

Il signor Giovanni Sibiliato, fratello del rinomato professore di belle lettere nell’Universitá di Padova, è la persona di cui fo menzione.

È facile che nessuno bramasse di leggere la mia opinione intorno a’ rimatori alla sprovveduta, com’è facile che nessuno brami di leggere le Memorie della mia vita. Nel corso della mia educazione ho anche improvvisato, e dico il perché non mi piacque proseguire in un tale esercizio.

Potrá essere sorpassata questa disgressione come uno di que’ goccioloni d’inchiostro disturbatori, che cadono dalla penna, da me predetti.

Ebbi un maestro di scherma e perfino un maestro di ballo; ma i libri e la penna furono sempre soprattutto il mio passatempo essenziale. [p. 39 modifica]

L’aspetto d’una numerosa adunanza nelle mie pubbliche letterarie azioni accrebbe in me l’ardire. In una privata visita, a me novella, la mia circospezione fu spesso battezzata per selvatichezza.

Il mio primo sonetto scusabile fu da me composto in etá di nove anni; e siccome, oltre all’applauso, egli mi fu fertile d’un bacile di confezione, non mi è mai potuto uscire dalla memoria. Ecco l’argomento ed ecco il mio sonetto.

Certa signora Angela Armano, di professione levatrice assistente a’ parti, aveva un’amica a Padova, alla quale era morto un cagnolino sua delizia, né poteva guarire dall’afflizione di quella morte.

Cotesta signora Angela voleva confortare l’amica con molta rettorica. Voleva inviarle in dono una sua cagnetta appellata Delina, conosciuta dall’amica, in sostituzione del cane defunto. Non voleva piú restituzione della Delina, e voleva accompagnarla con un sonetto che contenesse tutti que’ sentimenti che può contenere una lettera scritta da una femmina levatrice sopra a questo argomento, ch’ella considerava importante.

Benché la famiglia nostra fosse un ospedale di poeti, nessuno di questi volle assumere il peso di trattare in versi il desiderio della signora Angela ciarliera e smaniosa. Le di lei preghiere mi commossero, ed ho servita io la signora Angela bernescamente, nel modo che segue:

ALLA VEDOVA D’UN CAGNOLINO

SONETTO.

     Madama, io vi vorrei pur confortare
con qualche graziosa diceria;
ma la sciagura vuole, e vostra e mia,
che in un sonetto la non vi può stare.
      Non vi state, mia cara, a disperare,
ché la sarebbe una poltroneria
l’entrar per un can morto in frenesia;
chi nasce muor, convien moralizzare.

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     Vi sovvenite ch’egli avrá pisciato
alcuna volta in camera o in cucina,
che in quell’istante lo avreste ammazzato.
     Io vi spedisco intanto la Delina,
che piú d’un cane ha d’essa innamorato,
e può farvi di cani una dozina.
     È bella e picciolina;
di lei non voglio piú nuova o risposta;
servitevi per razza, o di supposta.


La composizione è certamente una puerilitá inetta; ma, se i miei lettori si degneranno d’abbassare la loro rimembranza alla capacitá che avevano a’ nov’anni dell’etá loro, concederanno qualche indulgenza al mio sonetto.

Due anni dopo circa si rinovellava l’edizione delle rime di Gaspara Stampa in Venezia, per commissione del principe conte Antonio Rambaldo di Collalto di Vienna, cavaliere illustre e per la sua nascita e per i suoi scritti.

I poeti sanno che il canzoniere di quella Safo del secolo 1500 è pieno di sospirosi affanni d’amore, diretti a certo conte Collaltino di Collalto, valente guerriero, colto verseggiatore, e ch’ella lasciò fama d’essersi infermata e d’esser morta giovine per quell’amore.

Le donne del nostro secolo crederanno una tal fama, baia. Il costume e il modo di pensare s’è cambiato sino in Cupido, ed egli usa oggidí, negli amoretti, delle armi differentissime dalle antiche per far morire i suoi sudditi. Egli è tiranno per la via de’ liberi sfoghi brutali, delle consunzioni e del celtico.

Dovevanosi aggiungere, nel fine di quella edizione, de’ poetici componimenti d’elogio all’eroina poetessa, di alcuni scrittori del nostro tempo. Ebbi la temeritá di voler entrare nel numero di quelli, e composi un sonetto ad imitazione de’ piú antichi poeti toscani. Quel sonetto, comunque sia, si legge stampato nella suaccennata edizione, ed apparisce in esso ch’io avessi un’amante sino da quell’etá. Ciò fu per un puro effetto della imitazione, che allora era in costume; e non negherò tuttavia d’aver amato davvero in etá piú matura. [p. 41 modifica]

Quella meschina composizione m’ha cagionato de’ nuovi stimoli di immergermi nella poesia. Fu letta dal celebre signor Apostolo Zeno, e si è degnato di voler conoscere lo scrittore che imitava la semplicitá antica poetica di Cino da Pistoia, di Dante da Maiano, di Guitone d’Arezzo e di Guido Cavalcanti.

S’è maravigliato, o fece gentilmente vista di maravigliarsi, nel vedere un ragazzo. M’accarezzò, e perch’egli era uno de’ benemeriti coltivatori dell’antica semplicitá, scacciatori delle gonfiezze de’ secentisti e ristauratori del nostro secolo, m’incoraggí esibendomi l’uso de’ libri di tutta la sua scelta libreria.

L’incoraggimento d’un tant’uomo aggiunse fuoco alla mia passione. Non uscí da quel punto nessuna di quelle raccolte di poetiche composizioni, delle quali non è ancora spento l’andazzo in Venezia e nell’altre cittá dell’Italia, a’ maritaggi, alle monacazioni, agl’innalzamenti di grado, alle morti di persone, di gatti, di cani, di pappagalli, che non fosse lordata da’ versi miei, gravi o scherzevoli.

I libri, la carta, le penne e l’inchiostro erano la mia vita. Era sempre gravido, sempre partoriente de’ mostri nei luoghi rimoti. Ho scritti furiosamente, Dio sa come, sino all’etá de’ miei sedici anni, oltre a delle innumerabili poesie volanti, quattro lunghi poemi: il Berlinghieri, il Don Chisciotte, la Filosofia morale (cioè i Discorsi degli animali del Firenzuola), il Gonella in dodici canti.

L’abate Giovan Antonio Verdani s’era innamorato di quest’ultimo, e voleva che andasse alle stampe. Un poema del signor Giulio Cesare Beccelli, uscito da’ torchi di Verona, sopra lo stesso argomento, involò quell’aspetto di novitá che poteva avere il mio lavoro; e quantunque fosse piú copioso di fatti di quello del Beccelli, da me cavati da buone fonti antiche, l’umiltá mia non volle arrischiare confronti.

Un viaggio ch’io feci, e un allontanamento dalla mia casa di tre anni, e le rivoluzioni che nacquero nella mia famiglia nel triennio della mia lontananza, fecero cadere tutte le ragazzesche fatiche mie letterarie, che lasciai in un monte, in quel [p. 42 modifica]smarrimento che meritavano. È probabile che de’ salsicciai e de’ fruttivendoli sieno stati i loro giusti carnefici.

Al mio ripatriare dopo tre anni, non so per qual evento, vidi stampato il romanzo intitolato: Il Tarsamon del signor Marivò, prima traduzione dal francese, ch’io feci col solo aiuto della gramatica e del vocabolario, a fine di esercitarmi per giugnere a capire i libri di quell’idioma.

Scorsi quella traduzione colla lettura, la riconobbi, e conobbi e mi vergognai d’averla fatta malissimo.

Ho dato un’idea in astratto a chi ebbe la flemma di leggere, della mia educazione, de’ fonti da’ quali me l’ho proccurata volontario, delle mie occupazioni e inclinazioni sino all’etá de’ miei sedici anni.

Tutto spirerá un’immagine di frivolezza allo sguardo de’ profondi scientifici. Sono mansuetissimo a’ loro sorrisi sprezzanti, senza mirarli colla mia lente intellettuale, con cui cercherei indarno le produzioni della maggior parte di questi.

I giusti compatiranno le mie scuole, non dileggeranno il mio buon genio d’apprendere qualche cosa, ed io sarò umile alla indiscretezza de’ primi e riconoscente all’umanitá de’ secondi.