Medea (Euripide - Romagnoli)/Introduzione
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Il filosofo e geografo e storico e critico letterario Dicearco, prima scolaro e poi nemico di Aristotele, nel suo capolavoro, La vita dell’Ellade, una specie di storia della cultura dell’antica Grecia, asseriva che Euripide avesse derivato il piano della Medea da una tragedia omonima di Neofrone. E con Dicearco vanno d’accordo anche le Memorie attribuite ad Aristotele, e il compilatore di vite di filosofi Diogene Laerzio.
E di questa tragedia di Neofrone possediamo ancora tre frammenti, due riportati negli scôlii alla Medea d’Euripide (vv. 666 e 1387), ed il terzo, piú lungo, da Stobeo (Flor. XX, 34).
Nel primo di essi, Egeo chiede a Medea l’interpretazione del responso avuto a Delfi intorno alla sterilità del suo letto.
egeo
La soluzione d’un mio dubbio a chiederti |
Il secondo conteneva le ultime funeste predizioni di Medea allo sposo traditore.
medea
Ed infine, anche tu morrai per misero |
Il terzo, infine, è un monologo, vero fratello minore di quello, famosissimo, d’Euripide. Parla Medea, irresoluta, prima dell’orribile scempio.
medea
Anima, dunque, che farai? Consigliati |
Tutti e tre questi brani trovano riscontro nella Medea d’Euripide. E c’è poco da sofisticare: sono tutti e tre, e massime il secondo e il terzo, riscontri caratteristici, e non imputabili a semplice caso. Fra i due poeti intercederebbe dipendenza. Ed è palese che Euripide avrebbe derivato dalla tragedia anteriore, non solo il piano generale, bensí anche molti atteggiamenti di pensiero e di forma.
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Ma chi sarebbe poi stato questo Neofrone?
L’unica notizia che possediamo, ci proviene da Suida. Avrebbe composte 120 tragedie. Avrebbe per primo introdotti sulla scena pedagoghi e interrogatorii di servi (cioè un filone di realismo). E sarebbe stato mandato a morte da Alessandro Magno.
Se è vera quest’ultima notizia, Euripide, che scrisse la Medea nel 431, non avrebbe potuto davvero imitare una sua tragedia. Ma poi, come del resto hanno osservato tutti i critici, di questo Neofrone, eccezion fatta per i tre frammenti riferiti, non c’è rimasto piú nulla, né una notizia, né un frammento, né un titolo di tragedia. Strana sorte, per un poeta che avrebbe rivaleggiato in fecondità con Eschilo e con Sofocle, che avrebbe avuta fama d’innovatore, e tanta virtú d’arte da attrarre nella propria orbita Euripide, il ribelle, l’ostentatore d’originalità.
Senza addentrarci in minute ed inutili disquisizioni, la verità — intuitiva — è un’altra; ed è bene espressa, mi sembra, nella Storia della letteratura greca del Christ (VI edizione, I, pag. 358). La Medea d’Euripide era stata fatta segno a molte critiche: il finale, soprannaturale, e non derivato dalla logica delle vicende drammatiche: l’episodio d’Egeo, non giustificato, e, dunque, intruso: il carattere della protagonista, non mantenuto. Queste osservazioni, alcune delle quali risalivano ad Aristotele, via via presero piede. E un poeta della cerchia peripatetica, Neofrone, procedé ad una rielaborazione corretta della tragedia d’Euripide. Ad essa appartengono i tre frammenti. Il primo, con la precisa motivazione dell’arrivo di Egeo, elimina l’irrazionalità rilevata dal pseudo Aristotele. Il terzo è una riduzione ed esemplificazione del gran monologo di Euripide, che forse a quei criticoni sembrava troppo prolisso (la solita storia della barba di Polonio).
E il Neofrone, predecessore d’Euripide, e suo modello ed ispiratore, secondo ogni probabilità, non è mai esistito altro che nelle fantasie, sempre piú legnose, dei critici piú tardi.⁂
La Medea è dunque tutta d’Euripide. A lui spettano tutti gli onori come tutti gli oneri di questa bella tragedia, che certo ci commuove profondamente, e suscita la nostra ammirazione, ma tuttavia ci lascia perplessi per l’eccezionale disumano orrore tragico che tutta la pervade. Perplessità che spariscono al cimento pratico della esecuzione; e che si risolvono anche, se, approfondendo l’esame della tragedia, cerchiamo di coglierne il concetto informatore.
E un fatto colpisce subito i conoscitori del teatro euripideo: che, cioè, nella Medea il poeta ha rinunciato a tutti i partiti artistici, a tutte le mirabili possibilità che offriva l’argomento.
Il mito del vello d’oro svolgeva ai suoi occhi i meravigliosi episodi che avevano già trovato in Pindaro un appassionato pittore; ma nella tragedia, oltre ad un quasi inevitabile brevissimo arido accenno, nel primo rimprovero di Medea a Giasone, non troviamo che la balenante figura dei primissimi versi della nutrice, nei quali sembra aprirsi uno spiraglio d’azzurro, súbito e per sempre nascosto dall’invasione di nembi temporaleschi. Sordo rimane il poeta alle loro lusinghe pittoresche, come alle molteplici suggestioni che essi potevano esercitare sul suo spirito profondo e filosofico.
E c’era il fàscino delle contrade e del móndo orientale. Euripide lo sentiva profondamente, ed era capace di esprimerlo in modo mirabile1. E i cori erano come un grande ordito, già spiegato e pronto ad accogliere le fantasie del pittore. Ma in nessun canto corale, come in nessun accenno dei personaggi, troviamo pure un accenno alla favolosa Còlchide.
C’era la magia di Medea. Motivo da allettare qualsiasi poeta (nella tragedia di Seneca l’interesse principale di Medea consiste nel suo potere magico), e piú d’ogni altro Euripide, sensibilissimo alle suggestioni del mistero, e che non si lascia sfuggire occasione di derivarne effetti ai fini della sua arte. Ma in questa tragedia il tèma della magia non solo non è sfruttato, ma è quasi sfuggito.
E come non approfitta delle possibilità magnifiche spontaneamente offerte dal soggetto, cosí rinuncia alle predilette ed efficaci risorse della sua drammaturgia, che pure qui avrebbero trovato terreno quanto mai favorevole.
Rinuncia allo spettacoloso (l’apparizione finale di Medea è un luogo comune, semplice variante del Deux ex machina). Rinuncia alla bella varietà d’episodii, che forma, per esempio, il fàscino dell’Alcesti. Rinuncia all’intreccio e ai colpi di scena. Rinuncia, perfino, sostanzialmente, ai contrasti, vita d’ogni azione drammatica. E cosí pure, manca — e questo non è davvero un male — lo sfoggio dialettico, perché al ragionamento sofistico di Giasone Medea neppur si degna di rispondere: mancano gli elementi comicizzanti: mancano, tranne qualche lampo fuggevole, quegli sprazzi di luce che sogliono aprirsi frequenti nei cori euripidei, come a rendere meno grave la tetra compagine tragica: mancano la ricchezza e la varietà metrica: manca, insomma tutto ciò che costituisce il carattere e il fàscino dei grandi drammi euripidei. Non c’è che Medea. E c’è tutto.
⁂
La Medea è del 431, ed Euripide aveva incominciata la sua carriera con le Pelíadi, il 455. Da ventiquattro anni, dunque, lottava nell’agone dell’arte, e dell’arte drammatica, che con la continua necessità del cimento pratico costringe gli artisti a piú pronta maturazione. Maturissimo si dimostra Euripide già nell’Alcesti, che precede di sette anni la Medea. E, d’altronde, egli appartenne a quella famiglia di poeti che non perdono mai le basi razionali (tale, fra i moderni, il Goethe), che rimangono sempre padroni dei proprii mezzi, e vanno perciò immuni dalle disuguaglianze, le incertezze e le inesplicabili deficienze degli artisti puramente intuitivi. La sobrietà della Medea, che sembra confinare con l’aridità, non si dovrà dunque attribuire ad inesperienza né a minore capacità di realizzare: essa è certamente voluta. Euripide, che in ogni dramma soleva proporsi un nuovo problema artistico, nella Medea ha tentata la concentrazione e la effettiva riduzione di tutti gli elementi della tragedia in un solo personaggio: Medea. E Medea sta sulla scena dal principio alla fine. E, se badiamo, i suoi contatti con gli altri personaggi sono piú apparenti che reali: o, per lo meno, sono, dal lato strettamente drammatico, superficiali ed inefficaci. Fin dalle prime scene, eccezion fatta per uno sfogo di sincerità, súbito interrotto, con Giasone, Medea concepisce il suo piano di simulazione. Cosí ella si concentra in sé stessa, e alla vera passione degli altri, oppone la finzione: ai volti, una maschera. Cosí viene a mancare il vero e spiegato ed energico urto di passioni, nel quale consisteva, da Sofocle in poi, l’essenza del dramma tragico. E poiché il coro non è altro, di fronte ai personaggi, se non uno strumento ricevente, un mezzo di far sapere agli spettatori quello che si svolge nella mente degli attori, possiamo dire, che, a badare alla sostanza e non all’apparenza, la Medea non è altro se non un continuo soliloquio della protagonista.
Soliloquio che per giunta, ad usare un’antica terminologia, è stàtico. Infatti, quando s’apre l’azione, Medea ha già concepito il suo fatale disegno. La nutrice l’ha bene inteso, che dice ai figli:
In casa entrate, sarà bene, o figli. |
E oltre questa «posizione», non si muove un passo. E tutta la tragedia è nel rimuginío di Medea intorno a questa idea fatale. Larvata, presentita, balenante in mille accenni, questa lotta in un’anima riesce come sintetizzata e compiutamente espressa nel famoso, prodigioso monologo di Medea, che coi suoi frequenti ed improvvisi ricorsi mette a nudo e riassume tutto il lungo strazio dell’intima lotta.
Dunque, sostanzial riduzione del dramma a monologo. Grave debolezza, a stare alle regole canoniche, insanabile difetto. Eppure, proprio in tale riduzione consistono la forza dell’opera, e la nobiltà dell’artista. Euripide, che cerca sempre il nuovo, non solo di fronte all’opera altrui, bensí anche di fronte alla propria, ha qui avuta una concezione originale e ardita. In opposizione al principio ovvio, indiscusso, e da lui stesso ardentemente abbracciato nell’Alcesti, che raccomanda nell’opera d’arte la varietà, egli, invece, cerca, di proposito, la monotonia. Ma la monotonia come mezzo, come preparazione lenta d’un ultimo potentissimo effetto. L'arte moderna ne offre molteplici esempii, tanto ovvii, che non occorre citarli. Non è sofistico affermare che nella sua Medea Euripide li ha presentiti.
E potremmo qualificare questa sua concezione con criterii e terminologie desunte dall’arte retorica. Oppure, giudicando come uomini di teatro, immaginare che qui Euripide abbia voluto scrivere un lavoro per un attore (criterio che non si potrebbe senz’altro dichiarare estraneo alla concezione greca)2. Ma forse coglieremo piú il vero se diremo che qui Euripide ha avuta la perfetta visione d’uno svolgimento sinfonico, tutto basato sulla elaborazione d’un unico tèma fondamentale, al quale si riannodano e riferiscono tutti gli ulteriori sviluppi, mediante richiami logici, melici, ritmici. Esaminiamo la tragedia, e vediamo che tutte le sue parti si proporzionano, piú o meno precisamente, a questa grande progressione tragica. E quando essa ha raggiunto un vertice che crediamo definitivo ed insuperabile per la ricchezza e l’ampiezza (il monologo), ecco, contro ogni attesa, raggiunta un’altra cima, col brevissimo soliloquio di Medea immediatamente precedente allo scempio, che non diminuisce l’effetto, anzi lo accresce per la sua intensa brevità, che riassume, anche una volta, convulsamente, tutta la tragedia. È la perorazione.
E con profonda sensibilità, il poeta intende che questa gran progressione tragica, cosí intensa, cosí nuda, riuscirebbe quasi insostenibile; e la interrompe con l’episodio d’Egeo nel quale sembra placarsi e rasserenarsi un istante il torbidissimo cielo della tragedia, e che divide le due parti orride e feroci come un cerulo ruscello le due negre balze d’un’aspra selvosa montagna3. E in questi brevi istanti di calma, lo spirito dello spettatore attinge una nuova elasticità, ed anche una nuova sensibilità, che gli rendono piú tollerabile e ad un tempo piú efficace la tremenda ripresa, sino allo scempio finale.
Ebbe veramente Euripide questa concezione? Concretata, precisata in questi termini, non so, e non importa. Forse no. Forse egli concepí il suo piano, equivocando verso sé stesso — fenomeno non infrequente in arte — secondo i termini e le formule dell’arte oratoria, nella quale era maestro. Ma agli effetti pratici, ciò doveva tornare e tornò al medesimo, perché i termini e le formule dell’arte oratoria, come quelli di ogni forma dell’arte della parola, non sono se non riduzioni e adattamenti di principii che nella loro purità assoluta si manifestano e si possono derivare dalla musica. Ma poi Euripide era profondamente musicale e precursore. Se non proprio nella piena chiarezza della coscienza, certo nella penombra della subcoscienza, dové concepire in questi termini che a piú d’uno sembreranno troppo moderni. Ma nei poeti, quando sono veramente poeti, anche se un po’ intrisi, come Euripide, di razionalismo, c’è sempre il Dèmone che suggerisce, e addita lontano, fra nembi e folgori, le vie del futuro.
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E in questa tragedia, e, dunque, in questo personaggio, Euripide ha concentrato quanto piú poteva d’orrore tragico. Una madre che uccide i proprii figli. Ed anche qui ci troviamo innanzi ad una esplicita volontà dell’artista. Pare certo che né la tradizione popolare, né i poeti d’arte anteriori ad Euripide, conoscessero l’infanticidio4. L’ha inventato Euripide. Ha voluto offrire una quintessenza d’orrore.
L’esperimento non era senza pericoli. Gli eccessi son tutti pericolosi, e dal tragicissimo al ridicolo, il passo è breve. E ad ogni modo, gli spettatori non tollerano i personaggi troppo efferati e disumani. E i poeti che dopo Euripide ripresero il soggetto, attenuarono quanto era possibile la responsabilità dello scempio, facendo sí che Medea lo commettesse quasi senza partecipazione della sua volontà, per una passeggera sorpresa della sua sensibilità pervertita. «Il solo Euripide — dice Patin, che dimostra una speciale predilezione per la Medea, e ne rileva con gran finezza i meriti eccelsi — ha osato guardare in faccia il terribile soggetto, e riprodurlo senza attenuazioni nella sua dolorosa spaventevole inverisimiglianza» (I, p. 175).
Ma qui, come nell’Alcesti, la prova scenica salva e giustifica tutto. Come Admeto, cosí Medea, che alla semplice lettura sembra intollerabile, nella realizzazione scenica, non solo è accettata dagli spettatori, ma suscita l’interesse, e, per quanto sembri paradossale, in qualche momento, la simpatia. Le molte repliche di Siracusa, la commozione e il plauso di spettatori adunati a ventine di migliaia, non possono lasciar dubbî in proposito. In verità, avviene delle opere d’arte, e massime d’arte scenica, come delle creature della vita. In esse è nascosta una forza misteriosa ed inafferrabile, che entra in funzione solo quando l’opera assurge alla sua piena e perfetta realizzazione — in questo caso la rappresentazione. E vano riesce cercarla sulle fredde carte, dove l’opera è confinata in muti simboli, quasi in letargo.
Ciò non significa, naturalmente, che la critica debba senz’altro abdicare. Accanto ai fattori irrazionali, altri ne esistono che l’analisi riesce a scoprire, e senza eccessiva difficoltà.
L’attenuante della disumana ferocia di Medea, è data da Giasone. Euripide eccelleva nel dipingere l’odiosità d’un carattere; ma in Giasone ha superato sé stesso. Giasone, nella prima parte della tragedia, riesce quasi piú odioso del Menelao dell’Andromaca. Questi, se non altro, non ha la ipocrisia di Giasone; e poi, Andromaca è sua nemica. Ma Giasone si trova di fronte alla donna che ha perduto tutto per amore di lui, e che è madre dei suoi figli. Eppure, non ha un solo brivido di commozione dinanzi al suo disperato dolore, e dinanzi alla sorte dei figli: rimane d’una frigidità esasperante, e trova modo d’escogitare una difesa oratoria e sofistica, con argomentazioni tanto false quanto odiose, che Medea spezza con una parola, come con un colpo di spada si stronca un serpentello velenoso che presuma sbarrarci la via. Davanti a tale eccesso di fredda perfidia, nel cuore degli spettatori nasce violenta la reazione: una creatura umana non è di pietra, è di carne e d’ossa, e non si può spingerla, cosí freddamente, a tanta disperazione: qualunque eccesso a cui essa prorompa, sembra allora giustificato. Di qui la luce, sia pure fatua, fiochissima, che illumina la figura scenica di Medea, e non la confina tra quelle che per la loro infernale malvagità riescono destituite, anche nella sfera dell’arte, d’ogni simpatia e d’ogni interesse.
A quest’ultima cerchia appartiene invece, di pieno diritto, il Giasone della prima parte. Ma Euripide, con atteggiamento consueto e caratteristico della sua drammaturgia, trova anche per lui un riscatto.
Infatti, intercede un gran distacco fra il Giasone della prima e della seconda parte, massime del finale. Noi avevamo credute infinte ed ipocrite le prime sue dichiarazioni d’interesse e d’affetto pei figli. Ma nella seconda parte risulta che non erano finte. Eccolo intercedere sinceramente e calorosamente per loro presso Creusa. Avvenuta la morte della giovine, il suo primo pensiero è di accorrere per salvarli dalla prevedibile ira dei Corinzî. E quando infine apprende la loro morte, prorompe in accenti che partono davvero da un cuore esacerbato, cosí sinceri e strazianti, che un’onda di commozione, e, conviene dirlo, d’umana simpatia, riesce a pervadere i nostri cuori. È, come ho detto, una delle solite catarsi della drammaturgia di Euripide; ma in nessuna tragedia appare cosí commovente, e, diciamolo, cosí ardita.
Caratteri non mantenuti? Ma Euripide sapeva bene che un personaggio puramente odioso non riesce tollerabile. E il desiderio della redenzione è troppo profondamente insito nel cuore degli uomini, perché non debbano commuoversi e convincersi dovunque ne vedano balenare un raggio. E il freddo razionalismo, se trova qualche caloroso adepto fra i meno sensibili, non ha molto potere sul complesso spirito d’una moltitudine di spettatori. E cosí, facilmente si dimentica che questo Giasone che parla con accenti di tenerissimo padre, è quello medesimo che nella prima parte lascia tranquillamente che i figli partano randagi sulle pericolosissime vie dell’esiglio. E con questo accorto equilibrio Euripide ottiene che la tragedia non lasci nei nostri cuori una semplice impressione d’odio e di raccapriccio, bensí anche, insieme con l’altissimo orrore, un’accorata pietà per i personaggi, trascinati, non già dal fato, ma dalla morbosa furia delle loro passioni, a cosí orribili eccessi. Questo era il fine della tragedia, che doveva, secondo l’aforisma aristotelico, operare per mezzo dell’orrore e della pietà.
⁂
Qui è tutta la Medea. Inutile soffermarsi sulle figure e gli elementi secondarii. Sono accessorî, tessuto connettivo, indispensabile a mantenere la compagine, ma a cui il poeta non ha accordata troppa attenzione. Però, se non sono di prim’ordine, neppure guastano; e sono concepiti con piena armonia, in una compagine che ripete d’altronde la sua ragion d’essere e la sua nobiltà artistica. Fa eccezione, e brilla come una gemma, il racconto dell’araldo. Neanche in questa tragedia Euripide vien meno alla norma ch’egli s’era imposta, di dipingere in un gran quadro elegante, luminoso, arioso, l’episodio principale del mito preso a svolgere: cómpito che, evidentemente, formava la gioia eletta del poeta fra le molteplici fatiche, non tutte ugualmente gradite, a cui costringe la costruzione d’un’ampia e complessa opera d’arte. E tutti i racconti di araldi son belli; ma questo della Medea è fra i bellissimi, regge il confronto con quello de Le Baccanti.
Ed è sommamente caratteristica la pittura di Creúsa che si prova innanzi allo specchio il vestito nuovo. Impareggiabile tocco, il sorriso che ella, tutta compiaciuta, rivolge alla propria inanimata immagine; e nessuna delle molte e bellissime pitture vascolari giunte sino a noi, ci introducono con tanta evidenza nella vita intima d’una signora dell’antica Grecia. Qui non siamo piú nella tragedia, bensí nel dramma borghese, o, se si vuole, della commedia. E basterebbe la insuperabile eccellenza di questo quadro, e la mescolanza, cosí felice e caratteristica, dei due colori tragico e borghese, a dimostrare quanto aberrasse dal vero chi poté fantasticare che in realtà la Medea non dovesse attribuirsi alla Musa d’Euripide.
MEDEA
- ↑ Lo vediamo in molti drammi, e specie nelle Baccanti. Non è da porre l’obiezione che appartengono all’ultimo periodo. Quando compose la Medea, Euripide lavorava da piú di 24 anni; e già nell’Alcesti appare artista pienamente maturo.
- ↑ È esagerata la tendenza, squisitamente filologica, a ridurre a poco o a nulla l’importanza degli attori nel dramma antico. Si ricordi che l’egineta Polo, vissuto un mezzo secolo dopo la morte di Sofocle, recitando l’Elettra, si fece portare un’urna che realmente conteneva le ceneri d’un suo figliuolo morto da poco.
- ↑ Sin dall’antichità fu rilevato il carattere d’opportunismo politico di questo episodio. Giustissimo. Ma non è altrettanto giusto, come fece Aristotele, e come qualcuno seguita a fare ai giorni nostri, condannarlo come superfluo. Esso ha, evidentemente, la sua mira estetica: e subordinatamente a questa Euripide lo introdusse nel dramma, accoppiandovi, poiché gli se ne offriva il destro, la mira politica. In ogni campo dell’arte, da Pindaro in giù, vediamo artisti accettare condizioni imposte da ragioni tutt’altro che artistiche, e spesso, convertendo il male in vantaggio, derivarne magnifici effetti, ai puri fini dell’arte.
- ↑ Secondo una tradizione riferita da Pausania (Corinto, 3), i figli di Medea sarebbero stati lapidati dai Corinzî, dopo che ebbero offerti a Creusa i doni fatali. E i Corinzî contemporanei d’Euripide, per purgare la memoria dei loro antenati dalla taccia di cosí ingiusto scempio, avrebbero pregato il poeta di escogitare nella sua tragedia una morte diversa (Eliano), e gli avrebbero offerti, per questa falsificazione, cinque talenti. Saranno le solite storielle dei tardi letteratoidi perditempi. Ad ogni modo, vale anche qui ciò che ho detto a proposito dell’episodio d’Egeo.