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protagonista, non mantenuto. Queste osservazioni, alcune delle quali risalivano ad Aristotele, via via presero piede. E un poeta della cerchia peripatetica, Neofrone, procedé ad una rielaborazione corretta della tragedia d’Euripide. Ad essa appartengono i tre frammenti. Il primo, con la precisa motivazione dell’arrivo di Egeo, elimina l’irrazionalità rilevata dal pseudo Aristotele. Il terzo è una riduzione ed esemplificazione del gran monologo di Euripide, che forse a quei criticoni sembrava troppo prolisso (la solita storia della barba di Polonio).

E il Neofrone, predecessore d’Euripide, e suo modello ed ispiratore, secondo ogni probabilità, non è mai esistito altro che nelle fantasie, sempre piú legnose, dei critici piú tardi.

La Medea è dunque tutta d’Euripide. A lui spettano tutti gli onori come tutti gli oneri di questa bella tragedia, che certo ci commuove profondamente, e suscita la nostra ammirazione, ma tuttavia ci lascia perplessi per l’eccezionale disumano orrore tragico che tutta la pervade. Perplessità che spariscono al cimento pratico della esecuzione; e che si risolvono anche, se, approfondendo l’esame della tragedia, cerchiamo di coglierne il concetto informatore.

E un fatto colpisce subito i conoscitori del teatro euripideo: che, cioè, nella Medea il poeta ha rinunciato a tutti i partiti artistici, a tutte le mirabili possibilità che offriva l’argomento.

Il mito del vello d’oro svolgeva ai suoi occhi i meravigliosi episodi che avevano già trovato in Pindaro un appassionato pittore; ma nella tragedia, oltre ad un quasi inevitabile brevissimo arido accenno, nel primo rimprovero di Medea a Giasone, non troviamo che la balenante figura dei pri-