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difetto. Eppure, proprio in tale riduzione consistono la forza dell’opera, e la nobiltà dell’artista. Euripide, che cerca sempre il nuovo, non solo di fronte all’opera altrui, bensí anche di fronte alla propria, ha qui avuta una concezione originale e ardita. In opposizione al principio ovvio, indiscusso, e da lui stesso ardentemente abbracciato nell’Alcesti, che raccomanda nell’opera d’arte la varietà, egli, invece, cerca, di proposito, la monotonia. Ma la monotonia come mezzo, come preparazione lenta d’un ultimo potentissimo effetto. L'arte moderna ne offre molteplici esempii, tanto ovvii, che non occorre citarli. Non è sofistico affermare che nella sua Medea Euripide li ha presentiti.

E potremmo qualificare questa sua concezione con criterii e terminologie desunte dall’arte retorica. Oppure, giudicando come uomini di teatro, immaginare che qui Euripide abbia voluto scrivere un lavoro per un attore (criterio che non si potrebbe senz’altro dichiarare estraneo alla concezione greca)1. Ma forse coglieremo piú il vero se diremo che qui Euripide ha avuta la perfetta visione d’uno svolgimento sinfonico, tutto basato sulla elaborazione d’un unico tèma fondamentale, al quale si riannodano e riferiscono tutti gli ulteriori sviluppi, mediante richiami logici, melici, ritmici. Esaminiamo la tragedia, e vediamo che tutte le sue parti si proporzionano, piú o meno precisamente, a questa grande progressione tragica. E quando essa ha raggiunto un vertice che crediamo definitivo ed insuperabile per la ricchezza e l’ampiezza (il monologo), ecco, contro ogni attesa, raggiunta un’altra cima, col brevissimo so-

  1. È esagerata la tendenza, squisitamente filologica, a ridurre a poco o a nulla l’importanza degli attori nel dramma antico. Si ricordi che l’egineta Polo, vissuto un mezzo secolo dopo la morte di Sofocle, recitando l’Elettra, si fece portare un’urna che realmente conteneva le ceneri d’un suo figliuolo morto da poco.