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MEDEA | 7 |
missimi versi della nutrice, nei quali sembra aprirsi uno spiraglio d’azzurro, súbito e per sempre nascosto dall’invasione di nembi temporaleschi. Sordo rimane il poeta alle loro lusinghe pittoresche, come alle molteplici suggestioni che essi potevano esercitare sul suo spirito profondo e filosofico.
E c’era il fàscino delle contrade e del móndo orientale. Euripide lo sentiva profondamente, ed era capace di esprimerlo in modo mirabile1. E i cori erano come un grande ordito, già spiegato e pronto ad accogliere le fantasie del pittore. Ma in nessun canto corale, come in nessun accenno dei personaggi, troviamo pure un accenno alla favolosa Còlchide.
C’era la magia di Medea. Motivo da allettare qualsiasi poeta (nella tragedia di Seneca l’interesse principale di Medea consiste nel suo potere magico), e piú d’ogni altro Euripide, sensibilissimo alle suggestioni del mistero, e che non si lascia sfuggire occasione di derivarne effetti ai fini della sua arte. Ma in questa tragedia il tèma della magia non solo non è sfruttato, ma è quasi sfuggito.
E come non approfitta delle possibilità magnifiche spontaneamente offerte dal soggetto, cosí rinuncia alle predilette ed efficaci risorse della sua drammaturgia, che pure qui avrebbero trovato terreno quanto mai favorevole.
Rinuncia allo spettacoloso (l’apparizione finale di Medea è un luogo comune, semplice variante del Deux ex machina). Rinuncia alla bella varietà d’episodii, che forma, per esempio, il fàscino dell’Alcesti. Rinuncia all’intreccio e ai colpi di scena. Rinuncia, perfino, sostanzialmente, ai con-