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MEDEA 9

drammatico, superficiali ed inefficaci. Fin dalle prime scene, eccezion fatta per uno sfogo di sincerità, súbito interrotto, con Giasone, Medea concepisce il suo piano di simulazione. Cosí ella si concentra in sé stessa, e alla vera passione degli altri, oppone la finzione: ai volti, una maschera. Cosí viene a mancare il vero e spiegato ed energico urto di passioni, nel quale consisteva, da Sofocle in poi, l’essenza del dramma tragico. E poiché il coro non è altro, di fronte ai personaggi, se non uno strumento ricevente, un mezzo di far sapere agli spettatori quello che si svolge nella mente degli attori, possiamo dire, che, a badare alla sostanza e non all’apparenza, la Medea non è altro se non un continuo soliloquio della protagonista.

Soliloquio che per giunta, ad usare un’antica terminologia, è stàtico. Infatti, quando s’apre l’azione, Medea ha già concepito il suo fatale disegno. La nutrice l’ha bene inteso, che dice ai figli:

In casa entrate, sarà bene, o figli.
E tu, tienili quanto è piú possibile
in disparte, e fa’ sí che non accostino
la madre esacerbata: io già l’ho vista
che li guardava con occhio di furia,
come se accinta a qualche male.


E oltre questa «posizione», non si muove un passo. E tutta la tragedia è nel rimuginío di Medea intorno a questa idea fatale. Larvata, presentita, balenante in mille accenni, questa lotta in un’anima riesce come sintetizzata e compiutamente espressa nel famoso, prodigioso monologo di Medea, che coi suoi frequenti ed improvvisi ricorsi mette a nudo e riassume tutto il lungo strazio dell’intima lotta.

Dunque, sostanzial riduzione del dramma a monologo. Grave debolezza, a stare alle regole canoniche, insanabile