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dolore, e dinanzi alla sorte dei figli: rimane d’una frigidità esasperante, e trova modo d’escogitare una difesa oratoria e sofistica, con argomentazioni tanto false quanto odiose, che Medea spezza con una parola, come con un colpo di spada si stronca un serpentello velenoso che presuma sbarrarci la via. Davanti a tale eccesso di fredda perfidia, nel cuore degli spettatori nasce violenta la reazione: una creatura umana non è di pietra, è di carne e d’ossa, e non si può spingerla, cosí freddamente, a tanta disperazione: qualunque eccesso a cui essa prorompa, sembra allora giustificato. Di qui la luce, sia pure fatua, fiochissima, che illumina la figura scenica di Medea, e non la confina tra quelle che per la loro infernale malvagità riescono destituite, anche nella sfera dell’arte, d’ogni simpatia e d’ogni interesse.

A quest’ultima cerchia appartiene invece, di pieno diritto, il Giasone della prima parte. Ma Euripide, con atteggiamento consueto e caratteristico della sua drammaturgia, trova anche per lui un riscatto.

Infatti, intercede un gran distacco fra il Giasone della prima e della seconda parte, massime del finale. Noi avevamo credute infinte ed ipocrite le prime sue dichiarazioni d’interesse e d’affetto pei figli. Ma nella seconda parte risulta che non erano finte. Eccolo intercedere sinceramente e calorosamente per loro presso Creusa. Avvenuta la morte della giovine, il suo primo pensiero è di accorrere per salvarli dalla prevedibile ira dei Corinzî. E quando infine apprende la loro morte, prorompe in accenti che partono davvero da un cuore esacerbato, cosí sinceri e strazianti, che un’onda di commozione, e, conviene dirlo, d’umana simpatia, riesce a pervadere i nostri cuori. È, come ho detto, una delle solite catarsi della drammaturgia di Euripide; ma in nessuna tragedia appare cosí commovente, e, diciamolo, cosí ardita.

Caratteri non mantenuti? Ma Euripide sapeva bene che