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MEDEA 11

liloquio di Medea immediatamente precedente allo scempio, che non diminuisce l’effetto, anzi lo accresce per la sua intensa brevità, che riassume, anche una volta, convulsamente, tutta la tragedia. È la perorazione.

E con profonda sensibilità, il poeta intende che questa gran progressione tragica, cosí intensa, cosí nuda, riuscirebbe quasi insostenibile; e la interrompe con l’episodio d’Egeo nel quale sembra placarsi e rasserenarsi un istante il torbidissimo cielo della tragedia, e che divide le due parti orride e feroci come un cerulo ruscello le due negre balze d’un’aspra selvosa montagna1. E in questi brevi istanti di calma, lo spirito dello spettatore attinge una nuova elasticità, ed anche una nuova sensibilità, che gli rendono piú tollerabile e ad un tempo piú efficace la tremenda ripresa, sino allo scempio finale.

Ebbe veramente Euripide questa concezione? Concretata, precisata in questi termini, non so, e non importa. Forse no. Forse egli concepí il suo piano, equivocando verso sé stesso — fenomeno non infrequente in arte — secondo i termini e le formule dell’arte oratoria, nella quale era maestro. Ma agli effetti pratici, ciò doveva tornare e tornò al medesimo, perché i termini e le formule dell’arte oratoria, come quelli di ogni forma dell’arte della parola, non sono se non riduzioni e adattamenti di principii che nella loro purità assoluta

  1. Sin dall’antichità fu rilevato il carattere d’opportunismo politico di questo episodio. Giustissimo. Ma non è altrettanto giusto, come fece Aristotele, e come qualcuno seguita a fare ai giorni nostri, condannarlo come superfluo. Esso ha, evidentemente, la sua mira estetica: e subordinatamente a questa Euripide lo introdusse nel dramma, accoppiandovi, poiché gli se ne offriva il destro, la mira politica. In ogni campo dell’arte, da Pindaro in giù, vediamo artisti accettare condizioni imposte da ragioni tutt’altro che artistiche, e spesso, convertendo il male in vantaggio, derivarne magnifici effetti, ai puri fini dell’arte.