Manuale del dilettante del caffè/Introduzione
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STORIA
DEL CAFFÈ.
I monaci, contro i quali nel secolo decorso insorse tanto schiamazzo, occupano un luogo distinto nella storia delle scienze attinenti alla golosità; siamo debitori ad un monaco dei cantalupi; un monaco, per asserzion di Carème, inventò il fricandò; ed un monaco scoperse il caffè.
Nel mezzo del secolo decimosettimo, un pastore dell’Arabia Felice menava al pascolo le sue capre: giunto sul declive d’una valle, presso ad un boschetto, vede saltellar le sue capre d’allegrezza, e che reduci alla sua capanna non possono più dormire.
Sorgeva un convento in poca distanza. Il pastore, che s’imagina che la sua greggia sia ammaliata, va a picchiare alla porta della casa del Signore, e chiede di parlare al superiore, al quale partecipa la sua osservazione.
Il superiore si reca al luogo indicato, dove trova un arbusto, il cui frutto ha un sapore acre e stittico; ne mangia più che discretamente, ed osserva la notte seguente che il sonno non gli chiude palpebra. Fa sperienza di tal frutto sopra i suoi frati, e tutti cantano le lodi del Signore senza dormicchiare.
Da quel punto in poi gli Arabi si occuparono del caffè, che vendettero ai monasteri.
Senza dimora il caffè si sparse in Europa. Il caffè, dovunque ha penetrato, eccitò delle dispute. Dunkan, medico del secolo diciassettesimo, si distinse nella crociata contro questa pianta. Secondo lui, il grano del caffè, simile al cavallo di Troja, racchiudeva nei suoi fianchi migliaja di nemici della nostra salute, le paralisi, i tremori, la tisi, la etisia e la impotenza, malattia d’altronde crudele. Questo ultimo rimprovero gli era già stato fatto, ed ecco in quale incontro.
Una giovane regina di Persia trastullavasi nel considerare un giorno alcuni cavalli arabi, cui con mirabile destrezza il ferro d’un maniscalco privava di ciò che, cinquant’anni fa, il primo barbiere di Roma vi toglieva per alcuni paoli. Ella volle conoscer la moda di tale operazione, ed un cortigiano le spiegò colla maggior decenza la intenzione dell’operatore. «Quante pene! gridò la regina, che si danno a quel povero animale del caffè; dappoichè il re ne piglia, non abbisogna di operazione».
Se non temessimo d’infastidire il lettore, dimostreremmo la inverisimiglianza dell’aneddoto. Amiam meglio di appellare a que’ che bevono il caffè; risponderan eglino con un argomento senza replica, mostrandoci la numerosa lor famiglia. Napoleone beveva dieci chicchere di caffè per giorno; eppure la contemporanea (Memorie, d’una contemporanea, 1827) non lo ha mai accusato.
Ma ritorniamo alla storia del caffè.
L’uso di questa bevanda fu riguardata come una grande innovazione nella politica ottomana e nella Religione di Maometto.
Kaie-Beg, eletto governatore della Mecca dal Sultano di Egitto, non conosceva il caffè; ne ignorava per lo meno l’uso e l’impiego. Un giorno, all’uscire dalla moschea dopo la preghiera vespertina, scorse una intiera compagnia di soldati che passar dovevano la notte in orazione, e che intanto bevevano del caffè. Sulle prime credette che bevessero del vino; ma crebbe la sua sorpresa, quando gli si nominò questa bevanda, e gliene spiegarono i soldati l’uso e le proprietà; gli raccontarono ch’essa riscaldava dolcemente la testa, rallegrava il cervello, ed era in voga nella Mecca.
Il governatore s’imaginò che il caffè ubriacasse, o almeno desse occasione a certi divertimenti che la legge di Maometto non permette. Laonde, scacciati i soldati dalla moschea, convocò il giorno appresso una grande assemblea di uffiziali di giustizia, di dottori della legge ec. ec. espose loro ciò che avea veduto il giorno innanzi; aggiunse che aveva saputo che somiglianti scene accadevano sovente nei pubblici caffè, e che determinato di riparare a tali abusi desiderava di aver prima i loro consigli.
I dottori convennero che i pubblici caffè si opponevano allo spirito del maomettismo; dichiararono eziandio che riguardo al caffè conveniva esaminare s’era nocevole al corpo o allo spirito, e conchiusero ch’era d’uopo rimettersi al giudizio dei medici: pertanto il governatore chiamò a se due dottori i più celebri della Mecca: entrambi non mancarono di dichiarare che il caffè era contrario alla sanità, perchè frigido e diseccante. Un musulmano osservò che Bengias-Lah, antico medico arabo, di grande autorità, aveva asserito che queste fave erano attenuanti, e diseccative, e che quindi non potevano avere le qualità che loro poc’anzi si attribuivano. I due Persiani ripigliarono che Bengias-Lah non conosceva punto le fave di cui si parlava, e che s’anche si annoverasse il caffè tra le cose innocue, e di cui si potesse far uso senza recar danno ai costumi, il più sicuro partito era di dichiararlo contrario alla legge di Maometto.
Questo parere prevalse: parecchi membri dell’adunanza o per pregiudizio, o per un zelo malinteso, non mancarono di osservare che il caffè aveva dato loro alla testa. Uno degli astanti sostenne che ubbriacava al pari del vino. Questo tratto fece ridere tutta l’assemblea, poichè per giudicarne era necessario averne bevuto, e che questo liquore sia espressamente vietato dall’Alcorano. Gli fu dimandato se aveva mai bevuto vino: egli confessò che ne beveva, e per la sincera sua dichiarazione fu condannato alle bastonate: gastigo consueto di tal delitto presso i musulmani.
Il caffè fu dunque solennemente proibito alla Mecca, come vietato dalla legge, malgrado le rimostranze del muftì. Ma non durò guari la proibizione, poichè il soldano di Egitto, lungi dall’approvare il zelo indiscreto del governatore della Mecca, attestò la sua sorpresa che colui avesse ardito di condannare una bevanda tanto stimata al Cairo, dov’eranvi, diceva, dei dottori più illuminati di quelli della Mecca, e che non avevano trovato niente di contrario alla legge nell’uso del caffè; quindi comandò al governatore di ritirare la sua proibizione e contentarsi di usar dei castighi se accadessero disordini nei caffè. Soggiunse che si poteva abusare delle cose migliori, e che questa non era una ragione di proibirle.
L’uso del caffè dopo essere stato ristabilito alla Mecca fu di nuovo proibito, e poi per anche ristabilito. Il soldano di Egitto consultò su tal punto i dottori della legge, ed essi diedero i loro pareri in iscritto, e provarono con solidi ragionamenti, quanto pazza ed ingiusta fosse la condanna, e quanto fossero ignoranti quelli che l’aveano pronunziata. Non ci volle di più per rimettere un’altra volta in voga il caffè nel Cairo: il suo impero non era mai sembrato così raffermo, quando insorsero nuovi tumulti in quella capitale dell’Egitto.
Nel 1523 uno scrupoloso dottore assicurò che il caffè sconcertava la testa, e danneggiava la salute. Mosse la quistione s’era desso conforme o contrario alla legge; ma niuno si rinvenne che fosse del suo sentimento, poichè già era dimostrato che il caffè non aveva pur una delle cattive qualità che gli erano apposte. Per lo che quella volta il fanatismo non produsse alcun male, e l’uso del caffè prevalse.
Ma dieci anni dappoi v’ebbe un altro fanatico, che tuonò con tal forza contro il caffè, che la plebaglia raccozzata si precipitò sui caffè pubblici, infranse i vasi e le chicchere, e maltrattò tutti quelli che vi erano. Tostamente si formarono due partiti, uno de’ quali pretendeva che il caffè già era proscritto dalla legge, mentre l’altro lo ammetteva. Ma convocati avendo il gran giudice tutt’i dottori per raccogliere le loro opinioni, questi dichiararono ad una voce che la quistione era già stata decisa dai loro predecessori in favore del caffè; ch’essi erano tutti dello stesso avviso, e che uopo era limitarsi a restrignere lo strano ardore e la imprudenza degl’ignoranti declamatori. Il giudice che presedeva fu dello stesso parere; fece tosto recare del caffè a tutta l’adunanza, e ne prese egli medesimo. Tale esempio mandò in dileguo tutte le dispute.
In questo mezzo gl’Imani e gli uffiziali delle moschee facevano gran rumore in Costantinopoli, lagnandosi che i templi erano abbandonati e pieni i caffè! I Dervis, i sacerdoti gridarono pur essi contro il caffè e pronunziarono che non solo era contrario alla legge, ma ch’era un peccato più grave l’andare al caffè che alla taverna.
Dopo molto strepito e grandi brighe, tutti gli Ulemi si unirono per ottenere una solenne condanna di questo liquore: pretesero che il caffè abbrustolito era una specie di carbone, e che dalla legge era proibito tutto ciò che avea relazione al carbone. Questo argomento, degno solamente di scherno, divenne una quistione formale ch’essi presentarono al muftì con un memoriale tendente a indurlo a dar sentenza come capo della legge. Il muftì non si diede alcun pensiero di esaminare tutte quelle difficoltà; opinò conforme al sentimento degli Ulemi, e decise ch’era proibito il caffè dalla legge di Maometto.
Immediatamente si chiusero i caffè di Costantinopoli, e fu ordinato a tutti gli uffiziali di giustizia di far sì che non si prendesse più caffè in quella capitale.
Essi ebbero un bell’attendere con esattezza all’eseguimento di tal ordine; non poterono mai impedire che non se ne bevesse nei luoghi privati. Amurat III, sotto il cui regno era stata fatta la proibizione, finì col permettere l’uso del caffè, purchè non se ne prendesse in pubblico. Non vi era più che un passo da tale permissione allo stabilimento dei caffè nella capitale dell’impero turco. Accadde che un nuovo muftì, meno scrupoloso o più addottrinato del suo predecessore, dichiarò solennemente che il caffè non poteva essere rassomigliato al carbone, e che il liquore che se ne traeva non era vietato dalla legge. Tosto i dottori, i legali, il medesimo muftì, finalmente tutto il partito della opposizione, anzichè declamare contro il caffè, ne bevettero a lunghi sorsi, e da tutta la città fu imitato il loro esempio.
Un mercatante inglese, di nome Eduardo, che ritornava dal Levante, introdusse l’uso del caffè in Londra nel 1652. Gl’Inglesi lo accolsero con premura.
Dieci anni dappoi solamente il caffè passò in Francia. In quell’epoca, nel 1662, non vi erano ancora caffè in Parigi; non divenne alquanto comune che verso la metà del secolo decimottavo, e si sa che durante il regno di Luigi XIII, si vendeva sotto il Piccolo Castelletto, a Parigi, della decozione di caffè, sotto il nome di cahove o cahovet:
Sotto Luigi XIV, il gran signore, il letterato, ii contadino andavano all’osteria. Si conoscono que’ versi di Boileau:
Ainsi tel autrefois qu’ on vit avec Faret
Charbonner de ses vers les murs d’un cabaret.
Questi luoghi di convegno, dove si dava da bere, da mangiare, e che ricordano assai bene le nostre osterie del tempo presente, non avevano veruna eleganza: cattive tavole di legno, come si vede nelle nostre ville, gran vetri di forma conica, sedie di paglia, mura ignude o adorne di ritratti goffamente dipinti, per padrone della casa un buon compagno, coperto la testa d’un berretto di cotone: tal è la imagine di un’osteria del secolo di Luigi XIV, d’uno di que’ luoghi relegati nelle strade nere, oscure, dove Boileau, Molière, Racine si recavano ogni giorno per parlare di letteratura e di politica.
Sotto la reggenza queste osterie si abbellirono e presero il nome di caffè.
Un Siciliano, di nome Procopio, fermò stanza nel mercato san Germano: la decorazione della sua bottega, il buon caffè che ivi spacciava, attirarono la migliore compagnia di Parigi. Dal mercato andò a dimorare in una sala dirimpetto all’antica Commedia Francese: e quel caffè divenne celebre pe’ letterati che lo frequentavano.
Il caffè della Reggenza, dove G. G. Rousseau andava sovente a giuocare agli scacchi, si può riguardare come il secondo caffè stabilito a Parigi. Il filosofo ginevrino attirava a quel caffè un sì gran concorso di curiosi, che il luogotenente di polizia fu astretto a farvi porre una sentinella.
Un giorno al caffè Procopio una guardia del corpo del re prendendo una tazza di caffè col latte, con un panettino, Saint-Foix lo vide, e si mise a ridere: «Ecco un cattivo desinare (un fichu dìner)». Si accerta eziandio ch’ei si servì d’una più energica frase, e che ripetè sovente la sua esclamazione. La guardia del corpo s’impazientò, e finalmente se ne dolse: «Voi non m’impedirete, disse Saint-Foix, di trovare che una tazza di caffè è un (fichu) cattivo desinare». Si riscaldano, escono, si battono; Saint-Foix è ferito. Comechè ferito, ripetea tuttavia: «Voi non mi persuaderete mai che una tazza di caffè col latte e un panettino, non sia un (fichu) cattivo desinare». La domane i due campioni sono condotti dinanzi al decano dei marescialli di Francia. «Monsignore, dice Saint-Foix, io non ho preteso d’insultare alla guardia del re; lo reputo un prode e onorato militare; ma vostra grandezza non m’impedirà giammai di dire che una tazza di caffè col latte e un panettino non sia un (fichu) cattivo desinare». Questa ragazzata non reca al certo tanto onore alla urbanità dell’autore dei Saggi storici intorno Parigi, quanto le sue piacevoli commedie dell’Oracolo, delle Grazie ec.