Lucifero/Canto secondo

Canto secondo

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Canto primo Canto terzo
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CANTO SECONDO





Argomento.


Incomincia la narrazione. — La Natura e il Pensiero. — Stato primitivo degli uomini; primi e difficili avanzamenti a cui si oppongono i Numi, creati dall’anima inferma degli uomini. — La gran Lite. — La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi. — Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l’inferno lo accoglie. — Un istinto di amore lo chiama sulla terra. — L’albero della scienza. — La tentazione. — Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell’inferno. — Non mai contento dell’esser suo ritorna sulla terra. — Cristo predica l’amore. — Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra. — Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato.


    ― Non dall’Inachia stirpe, o d’alcun mai
Ceppo mortal, così l’eroe riprese,
Ma da natura, immortal germe, io nacqui
Una alle cose, e dalla luce ho il nome.
5Dir giusti sensi o tacer dee chi dritto
Co’l pensier mira; e, chiaramente espresso,
Torna più grato, e pregio doppio ha il vero.
Però di studiose ombre e d’enimmi
Non cingerò il mio dir, chè nè maestro
10Di misteri son io, nè a disdegnosa
Anima, che a sdegnosa alma favelli,
Dubbio o coverto il ragionar si addice.
Nuovi non già, ma dalla turba illusa,
Negletti veri io parlerò. Due sono
15Le virtù, che le cose hanno in governo:

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La Natura, e il Pensier; l’una, ch’eterna
Genitrice visibile è di tutto,
La pesante materia ordina e muta
Per suo proprio valor; l’altro la informa
20Di spirital possanza, e la solleva
Ad ardui voli e a magisteri industri.
Ferrea, immota in sue leggi, una procede
Lenta così, che par che giaccia: inalza
Su le rovine, onde si allieta, il trono,
25E dall’arida morte una perenne
Fonte di vita e di beltà deriva;
Ma l’occulto pensier, ch’agita e accende
Tutte cose universe, in varia guisa,
Con poter vario e con legge diversa
30Ogni via tenta, ogni regione esplora
Mobilissimo sempre, e tutto abborre
Della tarda materia il peso e il freno;
E quando avvien, che di misteri e d’ombre
L’altra s’avvolge, e per geloso istinto
35La ragion delle cose occulta e serba,
Ei libero discorre, e si ribella
Ad imposte paure; apre e dischiava
Terre, cieli ed abissi; argini atterra,
Crea, muta, strugge, e alle domate forme
40Nuovi dà impulsi, e nuove leggi imprime.
Tal, benchè l’un viva nell’altra, e vita
Abbian comune e necessaria, avversi
Son per intimo ingegno; onde tu vedi,
Che or l’un l’altra soverchia, or quello a questa
45Soccomber mostra; eppur son ambo invitti,
Sono eterni ambidue, però che morte
Da tal guerra non sgorga, anzi han le cose
Da cotanto agitare ordine e vita.
    Sparsi per gli antri, e fieramente soli
50Vivean gli uomini primi, e nulla amica

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Possa lor sorridea, tranne il pensiero.
Ispide pelli eran lor vesti, e rudi
Selci lor armi e sol conquisto il foco.
Da l’alte culle del fecondo Irano,
55Procedendo, spandeansi a mala pena
Sui giapetici piani, e gl’inclementi
Ghiacci vincendo, che inghiottían le belve,
A nuove lotte s’accingean. Muggía
Dai britannici fiumi alto l’immane
60Caval dell’acque, a cui, pari a vorago,
Spalancasi la bocca, e al cui sospiro
L’onda gorgoglia, e al ciel salta in ruscelli;
Devastando correan l’irte spelèe,
D’umane carni esploratrici, e fuori
65Dai frondosi dirupi all’onde in riva
Calavasi il deforme orso e il velloso
Primigenio mammuto, oscura e pigra
Mole di membra, a cui nemico è il sole;
E tu, sovrano troglodita, astretto
70Dal fecondo bisogno, a miglior prova
Sempre volgendo il multiforme ingegno,
Armi e industrie trovasti; onde più lieve
Ti fu domar co’l lavorato renne
Le nemiche falangi. Apron le nubi
75L’inesauste sorgenti, e senza freno
Fiumi ed oceani giù dal ciel dirompono;
Entro al diluvial baratro immenso
Spariscono le specie, in quel che armato
Di novella virtù l’uom passa i mari
80Su la prima piròga, e di recisi
Boschi infrangendo il pian glauco de’ laghi,
Fermo vi elegge e men feroce asilo.
Ivi, fanciulla ancor l’Arte s’assise
Pargoleggiando; e a far men lungo il giorno
85D’un che l’alma struggea dentro all’amore,

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Tal in cor gli spirò dolce un sorriso,
Ch’ei fatto a un punto più gentil, leggiadre
Forme e il pensier nel duro selce espresse.
Però, quand’ei con lungo studio al rito
90Del caro amor la sua fanciulla indusse,
Docil vide obbedire ai suoi talenti
Il ferrigno basalte; all’agil fianco
Brunite armi precinse, e il flessuoso
Collo di lei, che gli gemea su’l petto,
95Incoronò d’inteste ambre e di baci.



.... e il flessuoso
Collo di lei che gli gemea sul petto
Incoronò d’inteste ambre e di baci

(pag. 34)


    Or deggio dir, che di regnar mal paga
Sovra i campi natii, la curiosa
Mente dell’uom s’insinuò nell’alte
Viscere della terra, e ai fiammeggianti
100Gnomi, che custodían l’ampie miniere,
Rapì il rame, indi il ferro, a cui funeste
Armi non sol, ma civiltà l’uom debbe?
Io benedico a voi, fiumi e torrenti,
Che giù dai fianchi de’ materni Urali
105L’auree sabbie lucenti al pian recaste;
Ma più alla pazíente opra, che il lieve
Stagno confuse e il risonante rame,
Ed all’assiduo ardir, per cui, dal duro
Abbracciamento mineral divelti,
110S’arresero i metalli all’uom tenace.
O pensiero immortal dell’uom che muore,
Te da prima io conobbi, e quinci al fato
S’intrecciò degli umani il mio destino.
Bruco, che il corpo infermo, a mala pena,
115Per intima virtù svolge dal primo
Involucro, ed al mite aere credendo,
Crisalide novella, il picciol volo,
Co’ fior de’ campi il suo color confonde,
Tal dell’uomo è il pensier: s’apre a fatica
120Fra tutti ingombri e lunghi affanni il varco,

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E s’innova, e procede, e a nullo iddio
Dee la vita, il principio, il mezzo e il fine.
Ultimo forse e più perfetto anello
Della catena universale, ei tutto
125Chiude in sè stesso il suo destin, chè umana
Mutabil cosa e della terra è il vero.
Ahi! che un morbo fatal l’alma gl’invase
Fin da’ giorni suoi primi, ed ombre e morte
Gli gittò sovra il capo, in cor, d’intorno!
130Tremò all’aspetto del’interminato
Fluttuar de’ creati esseri il mesto
Figlio dell’uom, che riprodotta e viva
Non pur vedea ne’ circostanti oggetti
Tanta lite incompresa e tanto affanno,
135Ma dentro il cor, dentro al pensiero, in tutta
L’esistenza sua poca iva ammirando
Un perpetuo agitar d’odio e d’amore.
Di fantastici mostri e di chimere
Popolò quinci il mar, l’aria, la terra,
140Ogni spazio, ogni vuoto; e dove un’ombra
Vide e un mistero, o una maggior possanza,
Là piegò la cervice, e pose un Dio.
Dio nacque allor, Dio, creatura a un tempo
E tiranno dell’uom, da cui soltanto
145Ebbe nomi ed aspetti e regno e altari.
Chè or sopra ai soverchianti astri ei fu visto
Spazíar l’insegnato ètere, or chiuso
Tra’ fulmini precipitar su l’ale
Dei rotanti uragani, or sopra al dorso
150De’ cavalli del mar correre i flutti
E sfrenar l’onde a battagliar coi venti;
O ver come immortal fremito immenso
Penetrar l’aria, serpeggiar nel grembo
Degli avari terreni, e al vigilato
155Solco apparir fra le compiute ariste.

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Però quel che Dio fu, quale ancor vive,
E quanto ebbe e mantiene all’uom soltanto
Il deve, all’uom che d’ogni suo destino,
O prospero o maligno, arbitro è solo.
    160Chi a tiranno cotal, che, dal pensiero
Nato dell’uom, l’uomo asservir presunse
E le cose universe, il petto oppose
Con indomito orgoglio, e una selvaggia
Voce di libertà gittògli incontro,
165Sì che il ciel ne tremò? Chi la temuta
Prepossanza di Dio tenne equilibre
Con vitale agitar? Fu la feconda
Lite, che il mar dell’essere commove
Con assiduo flagello, e dai cozzanti
170Corpi la luce e l’armonia deriva.
Essa al pigro e ferrato Ordine, occulto
Padre di servitù, per fiero istinto,
Rubellossi da prima; essa al feroce
Andropòfago Iddio scosse la reggia
175Vigilata dai fulmini; e dal fiero
Cozzo con lui tanta favilla emerse,
Che, mutata dagli anni in fiamma viva,
Tutto divorerà de’ numi il regno.
O d’ogni libertà fonte primeva,
180Madre d’eccelse pugne, io ti saluto!
Tu co’l moto la vita, e co’l perenne
Fra le cose dell’alma intimo attrito
Luce dèsti e saper negl’intelletti
E co’l saper la libertà, sublime
185Pianta che sol dov’è coltura alligna.
Te dalla terra solitaria i saggi
Primamente avvisâr; te, spiratrice
Di terrigeni mostri a Dio rubelli,
Raffigurâro e coltivâr le genti,
190E or fosti Isi nomata, or Bahavàni,

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Or Arìmane or Loke, or acqua, or foco,
Or discordia infinita, e se paura
Ebber de’ moti tuoi l’anime imbelli,
O fûr da sacerdoti empj travolte,
195Nome avesti d’errore e di menzogna
Tu, che ad onor del vero e della luce
I misteri del cielo agiti e sperdi.
Ma qual tu fosti e sei, più che i mortali
Lo sanno in prova, e da più tempo, i Numi.
200Sedea Giove orgoglioso in su’ tranquilli
Troni d’Olimpo, il nèttare libando
D’ogni più lieta voluttà, nè alcuna,
Fra le dapi fumanti e le vezzose
Fanciulle che tesseangli inni e carole,
205Cura dell’uom gli penetrava il petto.
Sorsero allor dal cupo èrebo, tratti
Dal comando di lei che Lite ha nome,
Quanti mai dalla terra erano usciti
Terribili Titani, a cui la forza
210Granava il corpo, e il cor crescea l’ardire;
E avventando ciascun li suoi cinquanta
Capi feroci e le altrettante braccia
Contro ai regni di Giove, orribilmente
Traballaron dai fondi imi l’Olimpo.
215Arse d’ira il tiranno, e forza a forza
Oppose, e vinse. Dalle attinte altezze
Precipitâr gl’intrepidi gagliardi
Un dopo l’altro fulminati, e monti
Ed isole parean, che in un selvaggio
220Moto la terra, o il mar vorace inghiotta.
Ma a che fremi e sospiri al fier ricordo
Di cotanta caduta, o sopra a tutti
Sventurato Titano? Eran pur folli
D’Urano i figli, ove tenean che segga
225Maggior virtù, dove più grande e saldo

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Torreggi il corpo, e vigor cieco e bruto
A pugnar contro a tutti e a vincer basti.
Tal nel mondo è virtù, cui nè possanza
Di giganti trionfa, o adamantina
230Spada conquide, e solo alla modesta
Continua punta del pensier soggiace.
Rupe, cui dal natio fondo non svelse
Furor d’atre procelle, a poco a poco,
Morsa dal flutto che le geme intorno,
235Scemar vedi e cader: son rupe i Numi,
E il flutto assiduo del pensier li rode.
Così Giove fu vinto, e in simil guisa
Vinto sarà chi gli successe. Or odi
Quel ch’io feci e farò. Da una malnata
240Bordaglia rea, che da natura in dono
Ebbe al corpo la lebbra e al cor la fede,
Ièova ne venne, un implacato iddio,
A cui fulmine è il guardo e tuon la voce.
Solitario e funesto egli incombea
245Dal recesso del ciel plumbeo su’l petto
De’ tremanti mortali, e gran sepolcro
Di mal vivi era il mondo, a cui su’l capo,
Pria dell’ora, il fatal sasso si aggrevi.
Io nel cielo era ancor, bello di tutti
250Radíamenti. Era sorriso e luce,
Fragranze ed armonie del ciel la vita,
E, cullati in un mar d’ozj e di fiori,
Si tenean tutti e si dicean beati.
Sol io, spirito altero, indifferente
255A quell’aprile, a quel banchetto eterno,
Sentía nell’inquíeta anima un voto
Misterioso, un mar senza confine,
Come una solitudine infinita
D’intorno a me, dentro di me: se avessi
260Conosciuto l’amor, forse in cor mio

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Ravvisato l’avrei sin da quel giorno.
Poco mi parve il ciel, misera vita
L’eternità. Di strane opre, di voli,
Di turbini, d’ebbrezze, di battaglie
265Tal m’invase un desio, che sfere ed astri
Corsi, cercai, sempre mal pago, in traccia
D’un fantasma incompreso, o fosse un’ombra
Del mio stesso pensiere, o una diversa
Immagine con me nata, e divisa
270Fatalmente da me. Dove mai, dove,
Sospiroso io dicea, trovar ti posso,
O desiata e necessaria parte
Dell’esser mio? Per entro all’immortale
Anima mia tutto il mortal sentiva.
275Infelice mi tenni. A Dio nel viso
Gli occhi un dì fissi, e interrogarlo osai:
Chi m’ha fatto così? D’ira e di lampi
Ei fiammeggiò, nè mi rispose. Il vero,
Io replicai, l’eterno vero; io voglio
280Tutto saper; se il ver tu sei, ti svela!
Ei fulminò; tremâr gli angioli; io caddi,
Nè pugnai già: sentía ch’era più bella
Dello sdegno di Dio la mia caduta.
Quale allor degli antichi astri mi accolse?
285Nessun, fuor che la terra, e della terra
I più cupi recessi: ivi prescritta
Fu la mia reggia a un tempo e il carcer mio.
Bollía sotto ai miei passi un fragoroso
Mar di liquide fiamme; in gran tenzone
290Mugghiando si rompeano onde contr’onde,
Ma più cocenti assai dentro il mio petto
Combattendo bollían dubbj e speranze;
Salde e ferrate mi correan su’l capo
Le granitiche vòlte, e assai più saldo
295Era il cor mio: sempre a me innanzi, ovunque,

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Un fantasma d’amor, sempre in cor mio
Una voce incompresa: ama, e cammina!
Ruppi il carcere; il vivo aere, la luce,
Della terra cercai; chi avría potuto
300Porre un freno al mio spirto? Iddio m’avea
Fulminato, non vinto. È là, un occulto
Pensier diceami, è là sovra la terra
Il tuo destin, là di tue prove il campo,
Là fra tanto agitar d’odj è l’amore,
305Là fra tanto morir la vita alberga!
Mi trasformai la prima volta: ignoto
Corsi la terra, e al caro sole in vista
L’uom, la natura e l’esser mio compresi.
L’uom compresi e l’amai. Ma allor che prono
310A piè de’ suoi creati idoli il vidi
Vaneggiar paventoso, e legar tutta
L’anima ardita a un inconcusso altare,
M’arse il cor d’ira e di pietà. Sorgea
Nel giardin della terra il fruttuoso
315Pomo di verità: ma Dio, nemico
D’ogni sapere, gli ruggía d’intorno
Con feroce divieto, onde alcun mai
Coglier non osi ed assaggiarne il frutto.
Fu allor che con sottile arte la mente
320Degli uomini tentai: simile a Dio
Sarà, dicea, chi ciberà quel frutto;
E quel frutto fu colto. Un’orgogliosa
Brama, un’ardente, inestinguibil sete
Di saper, d’indagar l’ombre, che folte
325Gli addensava d’intorno il Dio nemico,
Morse gli uomini tutti; e qual più viva
Sentì in cor la mia voce e il poter mio,
E per vie non segnate oltre si spinse
Al confin della pavida ignoranza,
330E interrogò con l’intelletto audace

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Le piante e gli animai, la terra e gli astri,
Quei di mago ebbe nome e di ribelle.
Piombò quinci su’l capo ai maledetti
Figli di Cam la collera di Dio,
335E assai d’essi perîr, non la pugnace
Virtù, che all’uom pria la Natura infuse,
Ed io, sin da quel dì, sveglio e raccendo.
Di floride speranze io mi pascea
Secretamente, ed oltre un mar d’affanni
340Prevedea su la terra il mio trionfo;
Ma fulminato dal geloso Iddio
Novamente io piombai nei tenebrosi
Baratri della terra, ove il superbo
Sdegno del petto e il mio dolor nascosi.
345Ivi scendea talor qualche gagliardo
Intelletto di sofo o di poeta,
A cui fu colpa il propagar le nuove
Apocalissi del pensier mortale.
Riardea la speranza entro al mio petto
350Co’l suo venir, però che per ciascuna
Stella che al capo di Sofia s’accende,
Della Fede su’l crin si spegne un sole.
    Così durai gran tempo, e non già pago
Dell’esser mio: sempre a me innanzi, ovunque,
355Un fantasma d’amor, sempre in cor mio
Una voce incompresa: ama, e cammina!
Ritornai su la terra. Un mansueto,
Che dell’iroso Dio credeasi il figlio,
Predicava l’amor. Debole e solo
360Egli parea, ma tutta era con esso
L’umanità. Stetti pensoso e muto
Ad ascoltarlo, e mi obliai. Senz’armi
Egli pugnò; vinse morendo: cadde
Giove dal ciel, Roma dal mondo, e il mondo
365E il ciel fu suo. Sperai, dubbiai; ma il giorno

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Che tutte dopo a lui volgersi al cielo,
Per cercarlo, vid’io l’anime umane,
E su la terra derelitta e mesta,
Come in carcere vil, gemer la vita;
370No, vittoria non è, gridai dall’imo
Petto, e furente mi scagliai per quanta
Terra il ciel vede, e il mar sonante abbraccia;
No, vittoria non è questa, che il tempo,
L’opra, il pensier, l’uomo e la vita uccide;
375Amor questo non è, ch’entro una fatua
Luce di ciel nuota oziando, e il tergo
Cheto soppone a qual che sia flagello!
Braccio e pensier, moto e conflitto è amore;
Campo d’opre comuni e di travagli,
380Non èremo la terra; uom che nel pianto
Vive, e da Dio gioie o tormenti aspetta,
Schiavo non pur, ma inutil cosa il chiamo!
Tremâr le infeminite anime al grido
Del mio potere; e Dio, fatto più forte
385Dall’umano terror, me per la mano
Del suo fido Michel di ceppi avvinse,
E percosso e ferito indi in più cupo
Baratro m’inchiodò; stolto, e si tenne
Securamente vincitor. Dai ceppi,
390Dagli abissi io balzai, giovine eterno,
E mutando me stesso in mille guise
Ebbi regno nel mondo. Una venale
Turba di sacerdoti, a cui nel nome
Abusato del Cristo agevol cosa
395Era il far degli altari empio mercato,
Me d’ogni colpa allor, me d’ogni affanno
Degli uomini imputò; strani sembianti
Mi foggiâr le nemiche anime, e avverso
D’ogni umana salute e d’ogni amore
400Il mio nome suonò; ma in faccia a questo

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Dolor tuo sacro e in faccia al mondo io giuro:
Mi fu iniqua la fama! Orrido, immoto
Su l’umane coscienze s’assidea
L’infallibile Domma, un paventoso
405Mostro senz’occhi e tutto plumbeo il corpo,
Che il mortale pensier di ferri avvinto
Squarcia con le feroci unghie, e sen ciba.
Suo regno è l’ombra, sua virtù gl’inganni;
L’ignoranza dei popoli il suo scudo,
410Ed armi sue l’anátema e la scure.
Contro ad esso io pugnai: sinistra e maga
Cosa per lui la sitibonda brama
D’ogni saper, frutto vietato il vero,
Colpa il voler, la libertà delitto,
415E allora, oh! allor, superbamente il dico,
Menzogna, error, colpa e delitto io fui! —