Lo cunto de li cunti/Lo Cunto de li Cunti/Jornata seconna

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Lo Cunto de li Cunti - Jornata primma Lo Cunto de li Cunti - I
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JORNATA SECONNA






Era sciuta l’arba ad ognere le rote de lo carro de lo sole, e, pe la fatica de lo bottare l’erva co la mazza drinto la semmoja1 s’era fatta rossa comme a no milo diece2; quanno, levatose Tadeo da lo lietto, dapò na granne stennecchiata, chiammaje la schiava. E, bestutose nquatto pizzeche, scesero a lo giardino, dove trovare arrevate le dece femmene. Che, dapò fatto cogliere quatto fico fresche ped uno, che, co la spoglia de pezzente, co lo cuollo de mpiso e co le lagreme de pottana3, facevano cannavola a la gente, commenzaro mille juoche pe gabbare lo tiempo fi all’ora de lo mazzecare4: non lassandoce nè Anca Nicola5 [p. 172 modifica]Rota de li cauce6, nè Guarda mogliere7, nè Covalera8, nè Compagno mio, feruto so9, nè Banno e [p. 173 modifica] commannamiento10, nè Ben venga lo Mastro11, nè Rentinola, mia rentinola12, nè Scarreca la votta13, nè Sauta parmo14, nè Preta nzino15, [p. 174 modifica]Pesce marino ncagnalo16, nè Anola tranola, pizza fontanola17, nè Re mazziero18, nè Gatta cecata19 , nè A la lampa a la lampa20, nè Stienne mia cortina21, nè Tafaro e tamburro22, [p. 175 modifica]Travo luongo23, nè le Gallinelle24, nè Lo viecchio no è venuto25, nè Scarreca varrile26, nè Mammara a nocella27, nè Sagliepengola28, nè Li forasciute29, nè Scarriglia Mastrodatto30, nè Vienela vienela31, nè Che tiene nmano?, l’aco e lo filo32, nè Auciello auciello, maneca de [p. 176 modifica]fierro33, nè Grieco o acito34, nè Aprite le porte a povero farcone35.
Ma, venuta l’ora de nchire lo stefano, se mesero a tavola, e, magnato che appero, lo prencepe disse a Zeza, che se fosse portata da valente femmena ad accommenzare lo cunto sujo. Essa, che ne aveva tanta ncapo36, che jevano pe fora, chiammannole tutte a capitolo, sceuze pe lo meglio chisto, che ve dirraggio.

Indice

Note

  1. Mozzo, parte centrale della ruota.
  2. Mela vermigliona. Il Cort.: «Ch’avea na facce rossa, janca e bella, Commo no milo dece stralucente» (Micco Pass., Il, 20).
  3. Che sono i tre requisiti del fico, secondo il prov. napol. Così anche il Del Tufo (ms. c., f. 10).
  4. Seguono 31 giuochi popolari. Altri 14 ne accenna il N., princ. G. IV. E quasi tutti questi, e non pochi altri, enumera nella lettera all'Uneco shiammeggiante. — M. A. Perillo, nella sua favola drammatica La Pescatrice (Nap., 1630), ha anche una lista di giuochi (I, 7).
  5. Cfr. III, 3, Lett. cit., Perillo, l. c. Nel Patrò Calienno de la Costa, comedia buffa (1709), che va col nome di Agasippo Mercotellis, c’è questa canzonetta: «Anga Nicola, Sì bella e sì bona, Sì bella mmaretata. Quanta corna tiene ncapo? — Quattro. — E si cinco avisse ditto, A cavallo fusse scritto, A cavallo de na crapa, Quanta corna tiene ncapo? — Sette». V. Scherillo, I canti popol. nell'opera buffa (in GBB, Giuoco ancor vivo. Un fanciullo nasconde la testa in seno a uno dei compagni. Questi vi pone su le mani, con una o più dita aperte, e domanda: «Quanta corna tiene ncapo?» Se chi sta sotto indovina, il suo posto è preso da chi fa il giuoco; se no, si continua, finchè non indovini. Cfr. Pitrè, Giuochi fanciulleschi, N. 87, A càncara e bella (Bibl. XIII, pp. 169-75). A un giuoco a Anca Nicola, diverso da questo che ho descritto, accenna il Rocco, che dice: «Consiste nel giungere ad una meta su di un solo piede, ma senza saltare, e quindi strisciando il piede in modo che avanzi or la punta ora il tallone. Si accompagna il giuoco con questa cantilena: Anca Nicola, Sì bella e sì bona, Sì bona e sì bella, Comm’a culo de tiella» (R).
  6. Cfr. Ntroduzz., e Lett. cit. Accenna questo giuoco anche il Del Tufo: «Chi poi dietro un cantone, A la rota di calci a lo vespone» (ms. c., f. 101). Che non ha a che fare col giuoco: A la rota, a la rota, descr. dal Cortese (Ciullo e Perna, p. 13), nè coll’altro: Rota, rota, menz. dal Serio (Vern., p. 49-50). Si suol fare, invece da una compagnia di fanciulli, che girano tenendosi per mano, e respingendo coi movimenti dei piedi uno di loro, che sta di fuori e deve sforzarsi di entrare nel circolo. Chi lo lascia entrare, va di fuori.
  7. Cfr. Lett. Il Pitrè, n. 168, descrive il giuoco: A vardamugghieri (l. c., 290-1); che, almeno nel nome, si riscontra con questo.
  8. Cfr. Lett. Del Tufo; Perillo; Velardiniello (l. c., p. 8); Cortese (Vajass., I, 25). B. Zito lo descrive così: «Lo juoco de covalera l’ausano a Napole li fegliule grannecielle e se face de chisto muodo: s’acchiettano otto o dece fegliule, li quale mprimma jocano a lo tuocco, a chi de loro deve attoccare a covare; ed a chillo che attocca, se le fa fare juramiento de non vedere addove se vanno ad accovare; e così, accovate che so, guidano nmezzo chillo che cova e le diceno: Vienela, Viene! Allora, chillo che cova, se parte da lo luoco addove steva, e va cercanno chille, che stanno accovate, e s’abbene che nne trova quarcuno, subbeto l’abbraccia stritto, e dice: Auciello, auciello; e ntanno, chillo ch’è pegliato, l’attocca a covare ad isso» (o. c., p. 68). Aggiungo che a quello, che è volto contro il muro, si suole accostare uno dei giuocatori, e, battendogli sul dorso, gli dice: «Cova covalera. Chi ncappa e chi leva.... Spingola ccà, spingola llà, Santa Lucia te fa cecà!»
  9. Cfr. Lett. e III, 3. Il Garzoni, in una sua lunga lista di giuochi fanciulleschi menziona: A buon compagno son sta ferito (o. c., pp. 563-4). Il Serio: Compagno mio feruto sotto (o. c., 50). Ed è forse lo stesso del giuoco siciliano: A cumpagnu sei firutu, descritto dal Pitrè (l. c., n. 110, pp. 200-1).
  10. Cfr. Lett. Nella G. III, 3. Renza, abbandonata dall’amante, dice: «Vedéreme fatto lo juoco de li peccerille: Banno e commannamiento da parte de Mastro Iommiento, mentre me magenava de joquare ad Anca Nicola co tico!» Cfr. anche II, 6. Un giuoco, nel quale le parole rituali dovevano modellarsi sulle formole dei bandi, che, difatti, cominciavano, per es.: «Bando e comandamento da parte della Gran Corte della Vicaria, per lo quale si notifica, ecc.».
  11. Cfr. IV, 8, e Lett.
  12. Cfr. Lett. — Rentinola, rondine. C’è un giuoco, nel quale una fanciulla si mette in ginocchio, le altre le stendono le mani in testa, e una di loro gira intorno, cantando: «Rondine, mia, rondine, Sussiteve a ballà. — Che m’aggi a sosa a fa? — Ve vote lu vostro padre. Che ve vole mmarità ecc.». Così in una versione beneventana. Una versione napol., invece, comincia: «Tonninola, tonninola, Jesce a ballà». Finita la canzone, prende una delle fanciulle, e ricomincia il canto, finchè non sieno prese tutte, meno quella che sta in ginocchio. (F. Corazzini, I compon. minori della letter. pop. Ital., Benevento, 1877, pp. 108-9).
  13. Cfr. III, 3. Il Serio ne riferisce le parole: «Piripirotta, Scarreca la votta, Piriperino, Scarreca lo vino» (o. c., p. 50). V. anche De Bourcard, (Usi e cost., I, 303, sgg.), e L. Molinaro del Chiaro, in GBB., III, 6), il quale lo annovera tra i giuochi infantili, e dice che si fa, «ponendo il fanciullo a cavalcione sulle ginocchia e agitandolo in guisa del trotto dei cavalli... Nel ripeter l’ultimo verso si allargano le cosce così da farvi cadere in mezzo il bambino». Cfr. Pitrè: A scarica canali (o. c., n. 118, pp. 212-5).
  14. Lo descrive lo Sgruttendio in un suo sonetto: «Le disse: Cecca, va a lo fenestriello, E a sauta parme videce jocare». Chiamati varii compagni, incominciano a saltare. Ma, al poeta, nel saltare, si rompe la cinghia dei calzoni, e Cecca esclama: «Chisso n’è sauta parme, è zitabona!» (o. c., I, 37). Cfr. il Serio: zompaparmo (o. c., p. 50).
  15. Cfr. Lett., e Del Tufo (l.c.); Velardiniello: «Le donne: a preta nsino, a covalera, Tutto lo juorno sino a notte nera» (o. c., p. 8). Potrebbe esser qualche cosa di simile al giuoco più conosciuto col nome dell’anello. Un giuocatore, con un oggetto (un sassolino, o anello che sia) chiuso tra le palme, va in giro per gli altri e fa a ciascuno l’atto di lasciarglielo in mano o nel grembo. Poi domanda a uno di loro a chi l’abbia lasciato realmente. In Sicilia questo giuoco si dice anche: a la pitrudda (Pitrè, o. c., n. 40, pp. 97-8).
  16. (ES) nè Agnelo. E crea così un altro giuoco, che dà luogo a un’erronea congettura del Liebr. (Anm., I, 404). Cfr. Lett., dove si aggiunge: «Piglia la preta e shiaccalo».
  17. Cfr. Lett., e V. 3, dov’è una delle frasi fatate di Betta.
  18. Cfr. Lett., Perillo. Il mazziere è un «serviente di magistrato, così detto dalla mazza, che porta avanti, come i littori dei Romani; ed è anche sorta di carica nelle processioni delle nostre congregazioni per lo stesso motivo» (VN).
  19. Cfr. Lett.; Del Tufo. Anche giuoco comunissimo, pel quale vedi, tra gli altri, Corazzini (o. c., pp. 101-2), e Pitrè (o. c., n. 100, pp. 191-4).
  20. Cfr. Lett. I giuocatori mettono il loro indice sotto la palma della mano d’uno di loro, e cantano: «A la lampa, a la lampa, Chi ce more e chi ce campa; A Parrocchia u Salvatore, Chi ce resta va im prigione». E chiudendosi a tratto la mano, chi resta preso «va sotto». Corazzini (o. c., pp. 108 9); e cfr. Imbriani, Le canzonette infant. pomiglian., Bol., 1877, pp. 8, 27. Si suol fare, generalmente, non come giuoco da sè, ma come principio di giuochi.
  21. Cfr. Lett.; Velardiniello; Del Tufo; G. II, 3. Corrottamente anche: Stienne, stienne matutina o Mast’Austino. Ecco come lo descrive il Rocco nel GBB, VII, I: «Più fanciulli si mettono in fila di lato, tenendosi l’un l’altro per mano; e, mentre il capo del giuoco dice: Stienne, stienne, mia cortina, i fanciulli distendono le braccia, il più che sia possibile, e rispondono: Aggio stennuto. Indi alla voce: Fance no nudeco, tutta la fila intera passa per sotto le braccia del primo e del secondo, rispondendo: nce l’aggio fatto; e così il secondo rimane colle braccia incrocicchiate sul petto. E, seguitando a dirsi: Fancenne n’autro, questo passaggio si ripete, finchè tutti rimangono in simile attitudine conglomerati. Ordinariamente, il giuoco termina col ruzzolare di tutti per terra».
  22. Cfr. Lett. e Del Tufo: «Altri in dolce susurro Stanno giocando a taffara e tamburro» (l. c.). — Tafaro, il sedere. — Cfr. Pitrè: A tafara e tafaruni (o. c., n, 109, p. 200). Nella G. V, 3, è un’altra delle frasi fatate di Betta, coll’aggiunta: «pizze ngongole e cemmino».
  23. Cfr. Del Tufo: A cavallo luongo (l. c.). È una specie di altalena; una lunga trave, posta su di una pietra, e ai due capi seggono due fanciulli. Non ha relazione col giuoco: A travu longu, descr. dal Pitrè (o. c., n. 128, pp. 231-2).
  24. Cfr. Lett., Perillo, e il Serio (o. c., p. 50).
  25. Cfr. Lett.
  26. Cfr. Lett., Velardiniello, Del Tufo, Perillo. V. s. n. 13, p. 173.
  27. Cfr. Del Tufo. Il Zito lo descrive cosi: «Se pigliano duje pe tutte doje le mmano lloro, e s’allargano le braccia de muodo che veneno a fare no garbo commo se fosse na seggia, pegliannose pe le mmano, comme se fosse lo darese la fede, ed allora uno se sede, e li duje lo portano pesole pe la casa, e, cantanno, diceno: A Mammara e nocella, No sacco de pedetella; Tanta ne fece mammata. Che roppe la caudara» (o. c., p. 85). V. anche un grazioso luogo della Rosa del Cortese (A. I, s. 1). Il giuoco è vivo e comunissimo. Cfr. Pitrè (o. c., n. 241, pp. 358-9).
  28. Cfr. Lett. Velardiniello: «Io penso a chelle state, e ben comprendola, Quanno era tanto bene e tanto accummolo, Co chillo juoco de la sanni-pendola. Ed a lo fossetiello co lo strummolo». Il Del Tufo: «Come anco a dui tra lor la saglipendola». Cfr. Cortese Ciullo e Perna, p. 31). Mi par facile identificarlo con una sorta di altalena.
  29. Forse qualche giuoco simile a quello dei Turchi e Cristiani, che è messo in azione in una comedia buffa di F. Oliva: Lo Castiello sacchejato (1722). O come quello dei soldati e briganti, ecc., in uso ai giorni nostri. Cfr. Pitrè (o. c., nn. 192-7, pp, 312-8).
  30. Lo nomina anche Velardiniello (l. c.). Nell’egl. La Tenta, si trova: fare scarriglia, attaccar briga, entrare in rissa. Il mastrodatto era un uffiziale di tribunale, ordinatore dei processi.
  31. Cfr. Lett., che aggiunge «cuccipannella». È una variante del giuoco a covalera. Cfr. Rocco in GBB, IV, 1.
  32. Non ne ho nessun riscontro.
  33. Cfr. sopra n. 8, p. 172. Lo Sgruttendio riporta le parole più compiutamente: «Auciello, auciello, maneca de fierro, Fierro ferrato mo, che sì ncappato» (o. c., I, 5).
  34. Non ne ho nessun riscontro.
  35. Cfr. Lett. e G. I, 10. II Galiani: «Questa canzone si canta ancor’oggi, facendo un giuoco, in cui tutti si tengono per mano, girando in cerchio e lasciando uno in mezzo, il quale deve tentare di scappare, passando sotto le braccia di taluna di quelle coppie. Dopo cantati i sopradetti versi da colui, che sta in mezzo, il coro alza quanto più può le braccia, ma senza disgiungere le mani, e replica: Le porte stanno aperte, si farcone vale entrare. Se, in quel momento, a chi sta in mezzo riesce fuggire per uno di quei varchi prima che lo arrestino le braccia congiunte, che prontamente si abbassano ad attraversarglielo, vince; altrimenti, torna dentro e si continua il gioco. Ci pare giuoco antichissimo. Il nome di Falcone si dà a quel di mezzo, come se stesse rinchiuso in una gabbia» (Del dial. Napol. p. 118). È descritto, con molti particolari, in P. J. Rehfues, Gemählde von Neapel, Zürich, 1808, II, 86-90. Cfr. F. Novati, Madonna Pollaiola (in Arch. stud. trad. popol., IV, 1885, pp. 3-21).
  36. (EO) che aveva tan’ncapo.