Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/IX. Beatrice

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - IX. Beatrice

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Lezione IX

BEATRICE


Vi sono fatti e persone che lasciano nella mente orme incancellabili.

Nel tempo della sventura e del disinganno, quando l’avvenire si rimpiccolisce piú e piú e l’anima si volge indietro indietro, riandando il passato e cercando un punto, in cui possa riposarsi, Dante al di lá della sua tempestosa vita politica trovava Beatrice.

Era ella la stessa? Beatrice ricordanza è egli il medesimo che Beatrice viva? La Beatrice della lirica è la Beatrice della Divina Commedia? Quale parte di sua personalitá è rimasta, quale è ita via, che cosa le si è aggiunto?

Ma determiniamo innanzi i vocaboli.

Che cosa vuol dire Beatrice viva? Forse l’esistere materiale, il reale, lo storico? Il reale è il vero? è tutto il vero? è il vero poetico?

Volgarmente reale e vero è tutt’uno: dicono vero un fatto reale; falso ciò che è foggiato; l’esistere materiale o il reale è solo la veritá; e perciò menzogna la poesia, bugiardi i poeti.

Le credenze popolari sono state spesso serie opinioni della scienza, la quale va ondeggiando tra il vuoto astratto ed il vuoto concreto, infino a che, fatta conscia di sé, coglie il suo contenuto ed il suo metodo. A’ tempi di Dante si avea della poesia questo stesso concetto popolare, e la menzogna poetica non era ammessa se non come velo del vero. [p. 60 modifica]

Cosi, perché la poesia era creduta menzogna, veniva falsata la sua natura: di errore nasceva errore. L’uno e l’altro errore è stato a’ nostri giorni rinnovato dalla critica romantica nella sua prima naturale esagerazione. La letteratura classica era andata a finire in un mero giuoco di frasi e di parole: indifferente alla materia, non davasi pensiero che della nuda veste, la quale ella nella sua grettezza chiamava la forma. Onde la nuova critica, gittandosi nell’opposto, reputa libere e indifferenti le forme, e sostanza della poesia il pensiero. Parimente l’antica poesia veniva a risolversi, secondo il corso ordinario delle cose, in un ideale fattizio e di convenzione, lasciando da parte ogni determinazione di luogo e di tempo; e la nuova critica pone per fondamento della poesia la realtá, l’imitazione della natura. Di qui due scuole: l’una che pone l’essere della poesia nel pensiero, errore che abbiamo giá combattuto; l’altra che fa della poesia creatrice un’arte imitativa. Questa teorica sostenuta dal Diderot co’ precetti e con l’esempio si è ita di Francia allargando in Alemagna ed in Italia: la famiglia, la societá, le diverse classi, ciascun tempo storico, il medio evo soprattutto, ha avuto i suoi scrittori; e la poesia e la storia amicamente congiunte hanno generato generi misti di scrivere, venuti in tanto favore ai nostri tempi: romanzo storico, dramma storico, poema storico, novella storica e simili.

Che cosa è avvenuto? I sistemi critici non operano in tutte le loro ultime conseguenze se non sugli ingegni mezzani, i quali tanto sono piú logici, quanto hanno minor senso di poesia; negli ingegni privilegiati essi generano una certa disarmonia di esecuzione, la quale si mostra visibilmente nelle opere d’arte di Dante, del Tasso, del Corneille; se non che il vero ingegno può esser travagliato, ma non sopraffatto mai da’ sistemi, ed il sentimento vivace dell’arte trionfa a lungo andare di tutte le opinioni preconcette. Il che spiega perché talora di una scuola falsa nascono capilavori, i cui difetti sono frutto del sistema e la cui parte immortale è divina figlia del genio. Certo il poeta dee cercare la sua ispirazione in mezzo alla realtá, della quale esser dee praticissimo; ciascuno ha sortito da natura la sua parte di cielo [p. 61 modifica]in cui affisare patria, monti, mare, costumi, caratteri, passioni, opinioni, che determinano il suo sentire: la poesia non si fa a priori.

Il sistema storico è stato dunque utilissimo all’arte, allontanandola dalle generalitá, da’ luoghi comuni, dal fattizio e dal convenzionale e dandole il senso pratico della vita. Se non che gl’ingegni mezzani sono rimasi stagnanti in mezzo al reale, contentandosi di ritrarre la sola sua faccia esterna.

Il Rosini e il Manzoni appartengono sostanzialmente alla stessa scuola. Nel primo il sistema è applicato in tutta la sua logica ruvidezza: dicesi che egli se ne vanti e ne ha ben ragione. Il Manzoni è meno logico, perché piú poeta, o, per dir meglio, perché poeta, avendo la natura negato affatto al Rosini ogni facoltá artistica. Vedete la sua Monaca di Monza. Poniamo pure che ivi sia puntualmente rappresentato tutto ciò che la storia ha di estrinseco, costumi, usanze, vesti, fogge, opinioni, ecc. Ma qual prò, se tutto questo non è che un vacuo aggregato, ove non spira un alito di vita, se tutti quei personaggi mi hanno aria quasi di quelle macchinette, trastullo del volgo, le quali hanno al di fuori tutti i movimenti di essere animati senza alcuna loro virtú interiore, mossi da una mano nascosta dietro la tela?

Vedete al contrario i Promessi Sposi. Perché mi domandate a qual secolo appartiene Lucia o Federico, e se sia un mondo storico quello che ci spiega davanti il poeta? È il mondo dell’anima, un mondo ideale cristiano, che egli gitta in mezzo alla varietá storica di un tempo e di un luogo; è la repubblica del Vangelo, il promesso regno di Cristo, l’ideale del sacerdozio individuato in alcuni esseri di una perfetta realtá rispondente a quel tipo, che irradia e conforta di celeste luce un secolo di ferro, in cui il male, senza perder nulla della sua ferocia, era giunto all’ultimo dell’abbiettezza.

Il reale è l’esistere materiale preso per sé, di sua natura accidentale ed arbitrario. Ciascuna realtá ha la sua poesia soverchiata, oscurata, annullata dagli accidenti: l’ideale è per rispetto al suo esistere materiale sempre un di lá non raggiunto [p. 62 modifica]mai; e perciò non può aver nell’esistere la sua compiuta espressione, tutta la sua veritá. E perché la realtá ha in sé questo lato negativo, sorge la divina necessitá dell’arte: e che bisogno avremmo altrimenti di lei? quale sarebbe la ragione del suo essere? Ufficio sacro del poeta è di combattere con la materia, spogliarla di quanto è in lei di terreo e di resistente, assoggettarsela, farla uno strumento armonico, che renda tutti i suoni dell’anima.

Non solo dunque il reale non è il vero, ma è il falso, cioè il manchevole e l’imperfetto, non potendo la materia per ciò che ha in sé d’indocile, d’inflessibile e di accidentale esprimere pienamente il concetto in tutta la sua limpidezza: e la poesia, che il volgo chiama menzogna, la sola poesia è vera.

I Greci, che con tanto affetto nel mito di Pigmalione celebrarono l’origine dell’arte, nella favola di Psiche ne lamentarono la morte: è l’ultimo raggio di poesia che scintilla dalla fantasia greca: è la poesia che, morendo, canta il suo funebre canto a se stessa.

Psiche, ovvero l’anima, invaghisce di Amore; ma il formidabile Iddio si tien chiuso a’ suoi occhi. E che monta? La leggiadra fanciulla lo vagheggia nella sua immaginazione e lo arricchisce di tutta la ricchezza della sua anima, e se ne fa un idolo quanto piú le piace bellissimo. Pur viene un tempo ch’ella non se ne contenta piú, e, vaga di contemplar le fattezze del suo amato, gli accosta cupidamente al volto la lampada, e guarda. E che vede? Nulla. Amore era sparito. E che significa questo, se non che, venuta a lei meno la giovinezza della fantasia, ogni immagine di bellezza, ogni sentimento d’amore erasi in lei spento, non altro rimastole che la nuda e vuota realtá, pulvis et umbra?

Tale è il senso riposto dell’Aspasia del Leopardi:

                                    Perch’io te non amai, ma quella Diva
Che giá vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai gran tempo; e si mi piacque
Sua celeste beltá, ch’io, per insino
Giá dal principio conoscente e chiaro
               
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                                    Dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi.
Pur ne’ tuoi contemplando i suoi begli occhi,
Cupido ti seguii finch’ella visse,
Ingannato non giá, ma dal piacere
Di quella dolce somiglianza un lungo
Servaggio ed aspro a tollerar condotto.
               

Guardisi dunque il poeta di accostarsi troppo al reale, la cui presenza può turbare la serenitá e la libertá del suo spirito: piú egli vede da lontano e piú vede bene: meno guarda con l’occhio e piú figura con la fantasia.

Scipione l’Africano si trovò in cento fatti di guerra, e nel caldo e nel tumulto del combattere gli sfuggi sempre tutto ciò che una battaglia ha in sé di poetico. Un giorno, stando in su una collina, mirava calmo spettatore in aspro battagliare Cartaginesi e Numidi, né mai provò in vita sua tanto diletto, né alcuno spettacolo mai lo rapi in tanta ammirazione.

E cosí è: la battaglia è poetica, se la guardi da lontano; la tempesta è sublime, se la contempli dal lido.

Quando Dante sta innanzi a Beatrice, la sua presenza lo turba e lo confonde, e riman trepido e muto e quasi stupido; e le donzelle, che lo veggono cosí impacciato, sogghignano e se la ridono. Ma quando il giovine giunge nella sua solitaria stanza, nella camera delle lacrime, com’egli la chiama; quando l’obbietto lontano dagli occhi lavora sulla sua immaginazione; quando egli, sequestrato da ogni realtá, si raccoglie e si aduna in se stesso; piú il mondo esterno gli si oscura e piú gli si illumina quel di dentro, e vede Beatrice non piú fuori, ma dentro di sé, e la diletta immagine, accarezzata e scaldata dalla fantasia, riesce al di fuori raggiante di tutta la luce interiore, bella di tutta la bellezza di quell’anima che la vagheggia: non è piú la Beatrice di Folco Portinari, è la Beatrice di Dante: la storia è trasfigurata dalla poesia. Il poeta può allorá spiegare e cantare la sua turbazione, anzi allargarla a tutto il genere umano, facendo di tutti gli uomini se stesso e gittandoli in ginocchio innanzi alla sua Beatrice: [p. 64 modifica]

                                         Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia, quand’ella altrui saluta,
Ch’ogni lingua divien tremando muta,
E gli occhi non l’ardiscon di guardare.
               

Che cosa è dunque la Beatrice della lirica? Un essere che noi conosciamo meno per se stesso che per gli effetti che produce sull’animo di Dante.

La lirica dantesca, quando il poeta non cade neH’allegorico e nel dottrinale, è altamente subbiettiva: rare descrizioni, tutto impressioni, spesso in reciprocanza d’azione. Il pittore vi troverá assai difficilmente qualche tratto, che gli dia un’immagine alquanto determinata di Beatrice: onesta e gentile, piacente a chi la mira, cosa venuta di cielo in terra a miraeoi mosti are, bella persona, piena di grazie, ecc. Ella è forse la meno reale di tutte le creature poetiche, nuda quasi che in tutto di ogni estrinsechezza e di ogni accidente; e nondimeno alcuna non ha sí possente vita: la sua vita è nel cuore di Dante. Le impressioni ch’egli riceve sono tanto vivaci che alcuni sono stati mossi a stimarle fuori del naturale, e perciò simboliche, quasi ci avesse qualche bilancia a misurare i battiti del cuore umano.

Il poeta adopera i piú forti colori a dar risalto a’ suoi sentimenti; e pur talora il concetto rimane senza parola: egli può dire quello che vede, nefn quello che pare all’anima: il parere confina con l’infinito ed è di sua natura ideale:

                                         Quel ch’ella par quand’un poco sorride,
Non si può dicer, né tener a mente,
Si è novo miracolo gentile.

     E par che dalla sua labbia si mova
Uno spirto soave e pien d’amore,
Che va dicendo all’anima: — Sospira — .
               

Sí, il poeta sospira. La sua lirica è un lungo sospiro, che raccoglie tutte le sue impressioni, dolore, tremore, ammirazione, adorazione; e non pertanto vi siede al di dentro qualche [p. 65 modifica]cosa di soavemente pacato, lontano da quel compresso desiderio e furore di sensi, che scoppia a quando a quando di mezzo a’ concetti platonici di Francesco Petrarca.

Pure questa poesia dantesca cosí calda, cosí ideale ha sempre nella realtá il suo fondamento: principio o antecedente delle sue fantasie è un fatto, come l’incontro di pellegrini, il niego di un saluto, un’occhiata in chiesa e simili; un fatto per sé insignificante e indifferente, ma di un valore infinito per il poeta amante, che vi pensa e vi ripensa lungo tempo e vi fantastica su, infino a che il calore febbrile della fantasia lo conduce a conseguenze lontanissime dalle pregresse, con una logica che fa ridere l’uomo volgare, ma di una profonda veritá, sentita da tutti quelli che hanno un cuore, con una logica che non si può determinare, perché non esce dalle leggi fatali dell’intelligenza, ma dall’impeto irriflesso del sentimento.

Vedete nella Vita Nuova in che modo, caduto in gran debolezza dopo una dolorosa infermitá, andò errando la sua fantasia e come, quasi delirando, potè concepire una delle pili stupende canzoni, di cui possa menar vanto l’Italia.

Tale è Beatrice viva, la donna nella prima trasfigurazione, a cui l’innalza amore e poesia.

Beatrice muore: la morte è una seconda apoteosi.

L’uomo sente il bisogno di dare alle creature della sua mente un esistere materiale, di dar corpo a quei tipi di virtú, di bellezza ch’egli concepisce: gli antichi ne facevano degl’Iddii, i cristiani ne fanno dei santi. La morte è pel cristiano il principio della realtá vera, in cui il reale ed il vero sono una cosa. La terra pel cristiano è una valle di lagrime; la terrestre vita un breve pellegrinaggio; il corpo la prigione dell’anima, e redenzione la morte. Il corpo in terra è macerato, tormentato con le astinenze e co’ cilizi, e l’anima vi sta chiusa entro, impaziente della sua cattivitá, infino a che nell’ora della morte se ne gitta fuori libera e radiante. La morte del cristiano è perciò una poesia; le ultime immagini del morente sono angioli e suoni e canti di paradiso, e sulla serenitá del volto agonizzante traluce l’immortalitá dello spirito. [p. 66 modifica]

Beatrice è giá indiata in vita, ornandola il poeta di ogni bellezza, di ogni grazia, di ogni virtú: la morte è una nuova trasfigurazione; Beatrice diviene una santa:

                                         Ita n’è Beatrice in l’alto cielo.
Nel reame ove gli angeli hanno pace,
E sta con loro; e voi, donne, ha lasciate.
Non la ci tolse qualitá di gelo,
Né di calor, siccome l’altre face;
Ma sola fu sua gran benignitate.
Ché luce della sua umilitate
Passò li cieli con tanta virtute,
Che fe’ maravigliar l’eterno sire,
Sí che dolce desire
Lo giunse di chiamar tanta salute:
E fella di quaggiuso a sé venire
Perché vedea ch’está vita noiosa
Non era degna di si gentil cosa.
     Partissi dalla sua bella persona
Piena di grazia l’anima gentile.
Ed èssi gloriosa in loco degno.
               

La poesia pagana non ha, né può aver nulla che si possa comparare con la descrizione che fa Dante di Beatrice morente: è materia nuova che per la prima volta prende splendida forma in poesia, e giá si era animata e figurata nelle ultime estasi de’ martiri e de’ santi.

Il poeta, presago di tanta sventura, entra in un vano immaginare; e gli si parano innanzi donne disciolte, lacrimose, doloranti. La natura si ammanta di bruno, il sole gli pare che pianga, la terra par che gli tremi sotto i piedi, quando gli giunge all’orecchio la temuta novella. Qui è la morte nel suo aspetto umano, con tutta quella tristezza che l’accompagna: non è Beatrice solo che muore: ella è per Dante tutto il mondo, e la morte di lei è la morte dell’universo.

                                    Poi mi parve vedere a poco a poco
Turbar lo Sole ed apparir la stella,
E pianger egli ed ella;
               
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                                    Cader gli augelli volando per l’are,
E la terra tremare;
Ed uom m’apparve scolorito e fioco.
Dicendomi: — Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua, ch’era si bella. —
               

Ma ecco la scena si cangia di un tratto, il cielo s’illumina di angioli e risuona d’osanna, e sul volto dell’estinta uscita dalle battaglie e da’ travagli della vita siede la pace. La morte stessa diviene cosa gentile ed il poeta, invocandola a gran voce, volge sospiroso lo sguardo al cielo, invidiando gli angioli che contemplano la sua donna.

                                         Levava gli occhi miei bagnati in pianti,
E vedea (che parean pioggia di manna)
Gli angeli che tornavan suso in cielo.
Ed una nuvoletta avean davanti.
Dopo la qual gridavan tutti: — Osanna — ;
E s’altro avesser detto, a voi dire’lo.
Allor diceva Amor: — Piú noi ti celo;
Vieni a veder nostra donna che giace. —
L’immaginar fallace
Mi condusse a veder mia donna morta;
E quando l’ebbi scorta,
Vedea che donne la covrian d’un velo;
Ed avea seco umiltá si verace,
Che parea che dicesse: — Io sono in pace. —
     Io divenia nel dolor si umile,
Veggendo in lei tanta umiltá formata,
Ch’io dicea: — Morte, assai dolce ti tegno:
Tu dèi ornai esser cosa gentile,
Poiché tu se’ nella mia donna stata,
E dèi aver pietate, e non disdegno.
Vedi che si desideroso vegno
D’esser de’ tuoi, ch’io ti somiglio in fede.
Vieni, ché ’l cor ti chiede. —
Poi mi partia, consumato ogni duolo;
E quando io era solo,
Dicea, guardando verso l’alto regno:
     — Beato, anima bella, chi ti vede! —
               
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Ecco la cristiana poesia della morte, concetti ed immagini imitate dappoi, abbellite, assottigliate e divenute oramai luoghi comuni, non potute superare giammai in questa loro freschezza natia. Ve ne darò un esempio. Dice il Petrarca:

                                         Morte bella parea nel suo bel volto.                

È il concetto di Dante, ma in una forma che gli dá l’aria di alcun che di pensato e di trovato, non germinante dal profondo del cuore; uno di quei pensieri a forma concettosa ed ambiziosa, chiusi in un verso solo, che si possono come staccati citare a dritto e a rovescio, al pari delle sentenze del Metastasio, laddove il pensiero dantesco, ancora piú delicato, è espresso in forma naturale e semplice; ed è strettamente collegato co’ particolari di modo che non se ne può separare: è il sentenziare di Tacito incorporato e quasi nascosto nella narrazione, anzi che lo slegato sentenziare di Sallustio, spesso a pompa ed a lusso.

Beatrice santa gitta via una parte della sua persona, il suo velo, il corporeo: l’ardente sospiro d’amore si muta in riverente adorazione, e il piacere della sua beltá, come dice il poeta, diviene spirituale bellezza.

Nel vario agitarsi della vita pubblica Dante la dimenticò:

                                         Quando di carne a spirto era salita,
E bellezza e virtú cresciuta m’era
Fui io a lui men cara e men gradita.
               

E quando nel giorno della sventura gli riappare davanti, era ella la stessa? Era Beatrice terrena? era Beatrice santa? era altra cosa? Interroghiamo noi stessi. Chi di noi non ha a piangere un amico, un padre, una madre, un fratello, una sposa? E quando un’amata persona ci si toglie per sempre dal guardo, quando vediamo con lei venirci meno tutte le dolcezze della vita ed il mondo ci si fa solitudine e deserto, che cosa diviene quella forma? che cosa diviene quell’ideale, che abbiamo in lei collocato? [p. 69 modifica]

A poco a poco di lei non ci rimane che alcuna parte sola del corpo: il riso, lo sguardo, il suono della voce. Indi ti ondeggia e ti fluttua dinanzi, apparisce e sparisce; poi l’immagine muore nella nostra memoria: ma di tratto in tratto la vista di un cielo azzurro, il roco mormorare di chete acque, l’improvvisa presenza di una leggiadra fanciulla, una casa, una veste, un fiore, qualsiasi cosa che abbia avuto con lei attinenza te la suscita un’altra volta, e tu vedi ricomparirti davanti quel riso, quegli occhi e quella voce.

Gittati in nuovi indirizzi, signoreggiati da nuovi afletti, attratti da nuovi spettacoli, l’amata immagine a lungo andare non è piú quella, sfigurata e mescolata con altre immagini, e le impressioni passate si confondono con le impressioni presenti.

Tale è la storia del corpo. E l’idea? che cosa diviene l’ideale che abbiamo in lei collocato? Se noi non abbiamo virtú di scorporarlo, se in lei è morta tutta intera la nostra anima, se l’universo privo di lei è per noi vacuo o nullo, la nostra vita sará una lunga agonia, senza affetti e senza speranze, quando non vogliamo piuttosto imitare Werther e seguitarlo. Ma se la nostra anima è ancora ricca e possente, se noi sentiamo ancor forza di vivere, quell’ideale che ivi rinchiudemmo noi sapremo svincolamelo e, divenuto libero, sapremo dargli nuove determinazioni e nuove condizioni.

Ci ha nel mondo quattro o cinque parole motrici di civiltá, che trovi di continuo ripetute nelle sanguinose storie del genere umano: religione, scienza, libertá, patria, umanitá. Concetti astratti ed inerti, che allora operano efficacemente, quando s’impossessano di tutta la tua anima, divenuti immagini e sentimenti.

Quando per avventura ti abbatti in una di queste idee e ti accendi di amore per essa e ne fai come il faro o la stella guidatrice del tuo avvenire, tu la vedi questa idea, la vedi come lo scultore che le dá forma di bellissima donna, e tu l’ami con quello stesso ardore, con quello stesso abbandono di te col quale hai amato una donna. [p. 70 modifica]

L’idea allora è un Iddio, un genio, un idolo, una donna, l’eterno femminino di Goethe.

Rechiamo in mezzo un esempio: prendiamo la libertá. Credete voi che per quei giovani, i quali si offersero in olocausto alla libertá e alla patria, credete voi che la libertá fosse per quei giovani una idea astratta? No: fu una bellissima donna, di cui s’innamorarono, per cui vissero e per cui seppero morire!

E quando l’anima si è invaghita di un nuovo ideale; quando l’uomo risorgerá alla vita ed il nuovo gli ricorderá l’antico amore, che fará egli se non dare al nuovo amato incorporeo le suscitate sembianze del primo?

Con Beatrice non mori Dante: in quell’etá di selvaggia energia non è possibile Werther o Jacopo Ortis; e qual sia il nuovo ideale che legò Dante alla vita si può inferire dalle sue stesse parole, che mi piace citarvi.

Come per me, egli dice, fu perduto il primo diletto della mia anima della quale fatto è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che alcuno conforto non mi valea. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che s’argomentava di sanare, provvide (poiché né il mio, né l’altrui consolare valea) ritornare al modo, che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi. E misimi a leggere quello, non conosciuto da molti, libro di Boezio, nel quale captivo e discacciato, consolato s’avea. E udendo ancora, che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando dell’amistá, avea toccate parole della consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, nella morte di Scipione, amico suo, misimi a leggere quello. E avvegnaché duro mi fosse prima entrare nella loro sentenza, finalmente v’entrai tant’entro, quanto l’arte di grammatica ch’io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, giá vedea; siccome nella Vita Nuova si può vedere.

E siccome esser suole, che l’uomo va cercando argento, e fuori della intenzione trova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse senza divino imperio, io, che cercava di consolare me, trovai non solamente alle mie lagrime rimedio, ma vocaboli d’autori e di scienze e di libri; li quali considerando, giudicava bene che la Filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E immaginava lei fatta come una donna [p. 71 modifica]gentile: e non la poteva immaginare in atto alcuno, se non misericordioso; per che si volentieri lo senso di vero l’ammirava, che appena lo potea volgere da quella. E da questo immaginare cominciai ad andare lá ov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole de’ religiosi e alle deputazioni de’ filosofanti, sicché in piccol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire della sua dolcezza, che ’l suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.

Poco appresso chiama questa donna figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e felicissima Filosofia.

La scienza non fu per Dante una mera speculazione, un esercizio intellettuale: la scienza fu per lui una donna, ch’egli amò non meno caldamente di Beatrice. Datosi alla filosofia e soprattutto alla teologia, noi lo vediamo disputare a Parigi con quello stesso ardore, col quale scriveva sonetti alla sua donna.

Né è meraviglia.

Noi non possiamo vivere, se non abbiamo dinanzi a noi qualche cosa a cui mirare, ed in quella spieghiamo tutta la ricchezza del nostro spirito: poco rileva qual sia, se vizio o virtú, se vile o nobile cosa. Dante giovane amò; nell’etá matura amò ancora; l’obbietto è mutato, la sua anima è la stessa: la versò tutta nel primo, la versa tutta nei secondo amore.

In questo secolo scettico noi non possiamo farci capaci di questo natio amore inverso la scienza: noi ci siamo avvezzi a ridere di quelli che prestano culto alle idee; e riserbiamo la nostra ammirazione per gli uomini che chiamiamo pratici o positivi, gli atei della scienza. Ammaestrati dalla esperienza, noi diciamo: — La filosofia è questo, la vita è quest’altro; la morale è questo, la vita è quest’altro; pensiamo di un modo, viviamo d’un altro. — Per Dante la scienza è cosa seria e vivente; niente entra nel suo spirito, che tosto non prenda corpo ed a cui immagine non conformi la societá e l’uomo. Quindi l’unitá organica del suo universo, edifizio teologico, il cui pensiero costitutivo non si spiega solo in una serie di veritá dottrinali o simboliche e improduttive, estrinseche alla sua creazione, ma è spirito di vita, amoroso e fattivo. In cima al suo edifizio [p. 72 modifica]sta Dio, il cui pensiero è amore informativo, che move il Sole e le altre stelle, e tutto ciò che esiste è a sua sembianza. Quanto si leva piú su, piú s’accosta a Dio, piú la faccia gli rassomiglia, piú il suo pensiero penetra e risplende.

La teologia dantesca adunque non è solo cognizione, ma amore ed opera; non è solo scienza, ma grazia. La scienza di Dio, fatta efficace dalla grazia e dall’amore, è vita di tutti gli esseri, è salute di tutti gli uomini. Il viaggio o lo studio dell’universo dantesco, cioè dell’universo tipico metafisico e morale conforme al pensiero di Dio, è infruttifero per l’uomo e quindi per Dante, quando non sia fortificato e guidato dalla grazia, infiammato dall’amore di Dio. La scienza divina, animata dall’innamorata fantasia, è cosí un idolo, una persona. È l’idea fatta santa e divenuta donna misericordiosa che asseta di sé il poeta. E quando nel suo viaggio a salute ei la si toglie a guida; quando dee dare a questa idea una faccia ed un nome, qual meraviglia che gli si sia rappresentata dinanzi Beatrice?

Che cosa è dunque la Beatrice della Divina Commedia.? È Beatrice donna santificata e idealizzata; è l’antica Beatrice arricchita di tutto ciò di che si è fatta ricca l’anima dell’amante.

Che cosa è divenuto il suo corpo? Alcun che di etereo e d’intangibile avvolto in un nembo di luce, riso che fiammeggia, occhi che risplendono, il piú chiaro sembiante di Dio, un corpo senza contorni e senza determinazioni, simile a quelle fuggevoli apparizioni di creature celesti, che sono il primo sogno della giovinezza, quando ella non ha trovato ancora alcuna cosa reale in cui posare. Che cosa è divenuto il suo amore? Un sentimento puro di desiderio, d’inquietudine, di sospiro, di passione. A prima giunta l’antica fiamma si ridesta e fa tremare il sangue, come nella lirica egli canta della sua giovinezza; ma indi a poco sottentra un dolce affetto che non lo turba, e secondo eh ei si avanza di stella in stella, di virtú in virtú, e ch’ei piú la comprende e piú l’ama, l’amore si fa piú spirituale e piú puro, e prende all’ultimo quasi forma di pietá e riverenza filiale. E che cosa è divenuta la sua anima? Il poeta le avea giá largito tutto ciò che di virtú e di gentilezza avea saputo concepire la sua [p. 73 modifica]giovane mente; era ella per lui il tipo del buono e del perfetto: questo tipo si è ora arricchito; ella è ancora bontá e perfezione, ma bontá e perfezione, che si comprende, che ha coscienza di sé: non solo buona, ma sapiente; non solo volontá, ma intelligenza.

Cosi la nuova Beatrice contiene in sé l’antica, ed è ancora qualcosa di piú: è il primo e il secondo amore, la donna, la santa e l’idea, il passato e il presente di Dante, non figura l’uno dell’altro, ma fusi insieme, il fantasma del passato trasformato dal tempo e trasfigurato dalla poesia.

E questa è una storia volgare, la storia di tutt’i giorni.

Il tempo trasforma corpi e idee; l’uomo si muta inconsapevolmente, e con lui il concetto ch’egli si fa delle cose, e con lui tutto ciò ch’egli ama, sente e pensa.

Nella nostra giovinezza la realtá è ancora intatta, è Beatrice donna: il tempo a poco a poco l’assottiglia e la spiritualizza, insino a che negli ultimi anni ella diviene rimembranza, fantasma, un’abitante del mondo dantesco, e noi viviamo nel regno dell’ideale, nel regno delle ombre. Giovani trasmutiamo le idee in corpi; vecchi trasfiguriamo i corpi in idee: è doppia poesia, poesia omerica e dantesca, pagana e cristiana, Elena e Beatrice, o, secondo il contrapposto mirabile del Goethe, Elena e Margherita, la Beatrice a due facce, quella della lirica e quella della Divina Commedia, la donna e la santa congiunte e sublimate in una sola idea e nello stesso circolo poetico.

La poesia non è un’allegoria, ma una trasfigurazione, in cui il nuovo contiene l’antico. La storia è ella stessa, in ciò che ha d’intimo, un’alta poesia, poesia vivente. E che altro è la storia dell’umanitá se non un passare indefatigato di forma in forma, di forme vecchie ed esauste in forme giovani e vivaci e sempre men corporali con costante indirizzo verso il suo tipo divino? E che altro è la storia della societá se non un regolato progresso dalla fantasia alla ragione, dalla barbarie alla civiltá, dalla parola all’idea, dal simbolo al pensiero, da Beatrice donna a Beatrice idea? E qual è il concetto sostanziale dello stesso mondo dantesco se non un perenne salire di carne a spirito, d’inferno in paradiso? [p. 74 modifica]

Voi vedete quanta serietá, quanta veritá è nel fondo della poesia. Una volta si dicea: — La poesia è finzione. — Oggi diremo: — La poesia è trasfigurazione, è la realtá innalzata a veritá. —

Vi sono alcuni che domandano tra curiosi e increduli, avvezzi come sono a non credere se non a quello che si tocca e si pesa: — A che serve la poesia? — E vi sono altri che rispondono: — La poesia serve ad ammaestrare dilettando, utile dulci, ad insegnare il vero condito in molli versi. — La poesia non è con dimento, ma sostanza, e vale assai piú che non tutte le morali e gli ammaestramenti del mondo. Ella aiuta in noi il senso dell’ideale, che ciascuno ha da natura, svolgendo il nostro sguardo dalla ignobile realtá, nel cui fango imputridisce tanta parte del genere umano, e cogliendo in essa un esemplare sempre più puro di bontá e di perfezione, ch’ella ci fa brillare dinanzi sotto le forme amabili della bellezza, e di cui genera nei nostri petti un operoso amore. Purgatrice di ogni parte terrestre, attrice di nobili sensi, la poesia è tanto piú efficace di ogni cognizione morale in quanto ella s’indirizza al cuore ed alla fantasia, ed è non istruzione, ma educazione, pensiero vivo, che, scaldato dal sentimento, diviene azione.