Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione decima

Lettura Prima - Lezione decima

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LEZIONE DECIMA


Da poi che il Poeta ha narrato quel che gli avvenne nella selva, e come egli per uscirne mosse ultimamente i passi seguitando Virgilio, egli pon fine al primo capitolo di questa cantica. E volendo dipoi dar principio al secondo, nel quale ei racconta i ragionamenti ch’egli ebbe con Virgilio in quel tanto ch’ei penarono ad arrivare a la caverna, al fine della quale ei trovaron la porta dell’Inferno, lo incomincia da la descrizione de la ora dicendo:

Lo giorno se ne andava, e l’aer bruno
     Toglieva gli animai, che sono in terra,
     Da le fatiche loro.

Dove non mi pare, avanti che noi andiamo più oltre, da lasciar di considerare, ch’egli è gran disputa infra gli espositori (volendo eglino che Dante abbia divisa questa sua prima cantica, e così ancor l’altre due, secondo il costume de’ buoni poeti, in Preposizione, Invocazione e Narrazione) ove finisca la Preposizione, e ove incominci la Narrazione; non si dubitando della Invocazione, per esser manifestissimo ch’ella è poco di sotto, dove ei dice:

O Muse, o alto ingegno, or mi aiutate.

Imperò che gli antichi, e particolarmente il figliuolo e il nipote del Poeta dicono (non avendo per inconveniente, che la invocazione sia nel mezzo) che questi due primi capitoli servono [p. 148 modifica]per Preposizione e proemio di tutta questa cantica, e che la Narrazione incomincia dipoi nel terzo, quando ei dice:

Per me si va nella città dolente.

La quale opinione non piacendo ad alcuni moderni, dicono che la Preposizione dura solamente i primi nove versi del primo capitolo, e dipoi comincia la Narrazione al decimo ove dice:

Io non so ben ridir come io vi entrai.

E alcuni altri dicono, che la Preposizione dura infino a la Invocazione, e dipoi incomincia la Narrazione a quel verso:

Incominciai:1 poeta che mi guidi.>

Nell’uno e nell’altro de’ quai modi si pervertirebbe, secondo il Vellutello, l’ordine d’esse parti. Perciò che nel primo si conterrebbe la Invocazione nella Preposizione, e nel secondo nel processo della Narrazione. I quali inconvenienti volendo egli come indegni di un tanto poeta fuggire, dice che la vera Preposizione comincia, quando Virgilio dice:

Onde io per lo tuo me’ penso e discerno.

E tutto quello che è innanzi dice esser la cagione di quella, cioè lo essersi ritrovato nel mezzo della sua vita in una selva oscura, e volendo per uscirne salire il colle, essere stato impeditogli il cammino da le tre fiere. Laonde venuto a soccorrerlo, Virgilio propone, promettendolo di trarnelo per altra via, non solo il soggetto di questa prima cantica, ma di tutte a due l’altre. E tal Preposizione vuole che duri insino a la Invocazione, e dipoi cominci la Narrazione similmente a quel verso:

Incominciai: poeta che mi guidi;

dicendo che se bene ei non comincia a trattare dell’Inferno quivi, ma dipoi al principio dello altro canto, ei tratta della disposizione del discendervi. La quale opinione non è se non molto ingegnosa, e io convengo assai con lei, non costringendo [p. 149 modifica]però alcuno a prendere, se non quella che più gli piace e che gli pare più accomodata al testo. A l’esposizione del quale venendo, io dico che avendo il Poeta consumato il giorno da la mattina, quando ei vide apparire i raggi del sole, parte schermendo con le fiere, e parte ragionando con Virgilio, mosse appunto in su il farsi buio i passi dietro a lui per andar seco a lo Inferno. Dove notando alcuni espositori tal cosa, dicono Dante volere dimostrare, come ei si va ne’ vizii per la via della oscurità o dell’ignoranza. La quale esposizione, salvo sempre l’onor di tutti, non mi piace e non mi contenta punto. Conciosia cosa ch’ei non si possa veramente dire, che Dante andasse per tal viaggio ne’ vizii, ma nella vera cognizione di essi vizii; nella quale non si va per mezzo della oscurità e della ignoranza, ma della dottrina e del lume della fede. Per il che io direi, volendo dare a questo luogo altra esposizione che la litterale, ch’egli volesse dimostrare, che cominciò a pigliare il cammino per uscire della oscurità di quella confusione, quando gli mancò il lume del giorno temporale; cioè ch’ei conobbe non essere a bastanza, a fargli conoscere quel che fusse veramente male o bene, quella cognizione che gli avevan data le scienze umane; laonde egli s’inviò dietro a Virgilio e al lume divino. Per il che egli dice, tornando al testo: Lo giorno se ne andava e partivasi, cominciandosi non a fare oscura affatto l’aria (chè questo non può farsi subitamente, per lo splendore che gettano i raggi del sole sopra al nostro orizzonte per insino a tanto che il sole non è più che diciotto o venti gradi sotto quello, come si vede ancor la mattina a l’aurora), ma a farsi bruno, cioè alquanto oscuro; chè così significa questa voce, come dimostra il medesimo poeta in quella bellissima comparazione ch’egli fa nel venticinquesimo capitolo di questa medesima cantica, dicendo:

Come procede innanzi de lo2 ardore
     Per lo papiro suso un color bruno,
     Che non è nero ancora, e il bianco muore;

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intendendo per bruno quel poco dell’oscuro che va, quando altrui abbrucia un foglio, di mano in mano innanzi a la fiamma; il quale colore non è nero (dice il Poeta), e nientedimanco fa fuggire e leva via il bianco. Ma ei non sono già pari le ragioni nè ancor similmente le cagioni medesime, dell’oscuro che appare nel foglio innanzi a la fiamma, quando egli arde, e del buio e oscuro che apparisce nell’aria nel venire della notte. Imperò che il foglio si fa bruno positivamente, e per introdursi in lui un colore reale, il quale scaccia e fa fuggire il bianco; e l’aria si fa bruna e oscura la notte privativamente, per andarsene il sole sotto l’orizzonte nell’altro emisperio. Laonde, partendosi da lei la luce, ella resta buia e oscura, come ella è di sua natura. E se qualcuno si opponesse, dicendo che fra le differenze, che sono fra i contrarii e le privazioni, è una delle principali, ch’ei non si può andar da un contrario a uno altro senza spazio di tempo, e da la privazione a l’abito si va in stante (e questo è manifesto a ciascuno per il senso, non si potendo fare verbigrazia una cosa fredda, calda in altro modo, se non distaccandone il freddo e introducendovi il caldo, al che fare occorre tempo; e facendosi verbigrazia una stanza d’inluminata, subito buia, per non avere a introdursi in lei qualità alcuna, ma solamente a levarne il lume); per il che si avrebbe, se il buio non è positivo, ma è solamente privazione, a far, subito che il sole va sotto, notte, ed ei si vede stare poi più di una di una mezza ora inluminata l’aria; si risponde, che questi sono i raggi del sole i quali la inluminano, per esser egli appresso il nostro orizzonte, nel modo che noi dicemmo di sopra. Nientedimanco quel tempo si chiama ancora egli notte, e così chiaman gli Astrologi, subito che il sole è ito sotto; e però voi vedrete tutti gli animali, se non alquanti che hanno in odio il sole, andarsene di subito ne’ loro alberghi a posarsi. E da questo effetto, volendo il nostro Poeta descrivere tale ora (imitando Stazio e Virgilio, l’uno de’ quali disse:

Iam volucres pecudesque iacent,

e l’altro:

Nox erat, et placidum carpebant fessa soporem
Corpora),

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disse ancora egli, che l’aere bruno

Toglieva gli animai che sono in terra

da le lor fatiche e da le loro vigilie; e che solamente egli si apparecchiava e preparava a sostenere la guerra e la fatica del cammino dell’Inferno (dimostrando con tali parole, come egli non è poca difficultà il conoscere i vizii, sì perchè ei si rappresentano altrui sempre o il più delle volte sotto spezie di bene, e sì per scusargli ancor del continovo la parte nostra sensitiva e priva di ragione; la quale mostra verbigrazia a gli avari, che lo avere danari è cosa non solo utile, ma molto necessaria; e a chi è inclinato a’ piaceri, ch’ei son necessarii non solo al bene essere, ma ancora a l’essere; conciosia che, se ei non fussero, mancherebbono gl’individui, e conseguentemente le specie, onde verrebbe presto a mancare il mondo), e della pietade, cioè di quella compassione ch’ei conosceva, essendo ciò cosa umana e da chiunche non ha l’animo efferato e crudele, di avere; veggendo tanti spiriti nobili e virtuosi, privi in eterno del fine e della felicità loro, solamente per non avere avuto il lume della fede; e tanti altri i quali, avendolo, si son lasciati condurre da i vizii e da le lusinghe de’ sensi nell’Inferno a la eterna dannazione. Le quali cose dice che la mente sua, la quale non erra, ritrarrà e rappresenterà in questa sua opera, in quel propio modo che ritraggono i pittori una figura, o qual si voglia altra cosa, da ’l propio e da ’l vero. E quello che egli intenda per mente, lo dichiara egli stesso nel Convivio nella interpretazione sopra quel verso:

Amor che nella mente mi ragiona.

Dove dividendo egli, secondo la dottrina di Aristotile, le potenze dell’anima nostra, dice ch’ella ne ha, infra l’altre, tre, le quali son le principali di tutte l’altre; e queste sono vivere, sentire, e ragione usare, per dire come lui. E oltre a di questo, soggiugne, ella ha ancor dipoi il muovere; ma questa si può fare una sola col sentire. Conciosia che ogni anima, che sente o con tutti a cinque i sensi o con manco, si muova ancora in qualche modo. Delle quali potenze, per [p. 152 modifica]essere sempre la seconda fondata sopra la prima, e la terza sopra la seconda, quella ch’è fondamento può stare da sè sola e separata da l’altre; ma ei non può già stare, per il contrario, quella che è fondata, per sè sola e senza fondamento; onde può stare la potenza vegetativa senza la sensitiva, come si vede nelle piante, e la sensitiva senza la intellettiva, come si vede negli animali; ma ei non può già star la sensitiva, senza la vegetativa, nè la intellettiva senza la sensitiva. E quell’anima la quale ha tutte queste potenze, come è quella dell’uomo, si chiama veramente perfetta. Nella nobilissima parte della quale anima umana egli dice esser più virtudi. Delle quali una si chiama, usando le parole sue medesime, scientifica, e un’altra ragionativa. E queste sono lo intelletto, con il quale noi intendiamo i primi principii, e la ragione o vero discorso, con il quale noi acquistiamo dipoi la cognizion delle scienze. Oltre a le quali virtudi dice essere ancora nell’anima nostra la consigliativa, la giudicativa, la ritentiva e molte altre. E tutto questo aggregato di queste virtù, considerate insieme, dice Dante che si chiama e si esprime con questo nome mente; soggiugnendo, per confirmazione di questo suo detto, ch’ei non si dice mai per tale cagione degli animali bruti ch’eglino abbino mente, ma solamente delle sustanze divine e degli uomini; e che di questi, quegli che, perchè ei ne mancono, sono stolti, son chiamati nella grammatica amenti o dementi, il che vuol dire tanto, quanto senza mente. E questa mente, per partecipare ella del divino, ed esser retta e guidata da la ragione, dice il Poeta nel testo, ch’ella non erra. E per tal cagione, cercando egli di rendere più attenti ch’egli poteva gli ascoltatori, egli promette solo di dire di tali cose quello che arà saputo ritrarre da ’l vero esempio essa mente. E perchè tal cosa gli pareva pur molto difficile e faticosa, egli chiama in suo aiuto primieramente le nove Muse, e dipoi il valore e la forza dell’ingegno suo, dicendo:

O muse, o alto ingegno, or mi aiutate.

Chi fussero le Muse e quante, il significato de’ loro nomi, e per qual cagione i poeti abbino per costume, ne’ loro poemi, di [p. 153 modifica]invocarle, può ritrar sufficientemente ciascuno che vuole e da il Landino e da il Vellutello. Ma perchè io mi persuado che il Poeta nostro, per trattar di quelle cose divine, le quali son veramente divine, e non fabulose come quelle delle quali trattano quasi tutti gli altri poeti, abbia in tutte le cose ancor concetti molto più alti e più profondi di loro, dico ancora io (ascendendo con lo intelletto più alto, dietro a lo universalissimo Agrippa), che le Muse, propiamente e divinamente parlando, significano quelle intelligenze, o sieno anime o sieno motori, che muovono e guidano le nove sfere celesti, cioè quelle de’ sette pianeti, quella del cielo stellato e quella del primo mobile.3 Le quali divine sustanze furon create senza mezzo alcuno da Dio ottimo e grandissimo, e dipoi deputate da lui al governo di essi cieli, acciò che operando ciascuna con quella virtù, la quale era stata data loro da esso Dio (laonde elle son chiamate le seconde cause), elle disponessero e governassero in certo modo tutte queste cose sullunari. E perchè, per mezzo dei loro influssi, son distribuiti da esso Dio molti doni, insino ancor nelle anime nostre (mediante il seguitar quelle il più delle volte, come afferma Galeno, le passioni del corpo), noi possiamo chiamarle, non come cagioni principali, ma per quanto si estende l’amministrazione loro, procedente da Colui da ’l quale nascono e dependono tutti i beni e tutti i doni ottimi, meritamente e giustamente in soccorso nostro. E il Poeta medesimo dimostrò chiaramente tal cosa, quando [p. 154 modifica]disse nel fine del Purgatorio, ch’esse sfere celesti, chiamate da lui ruote magne,

Dirizzan ciascun seme a qualche4 fine,
Secondo che le stelle son compagne.

E in questo modo tengo io, ch’elle sieno invocate qui dal Poeta. Il quale, dopo il favore celeste, invoca ancora in suo aiuto il valor suo propio, sotto questo nome d’ingegno. La qual voce espone M. Tullio nel libro De’ fini, parlando delle potenze dell’anima, in questa maniera. Della prima è la docilità e la memoria, le quali, amendue insieme, si chiamano per questo nome solo ingegno, e ingegnosi similmente coloro i quali son dotati di queste virtudi. La quale opinione seguitando il Landino, dice lo ingegno esser quel valor dell’animo nostro, con il quale noi appariamo e siamo capaci delle dottrine. E dividendolo in due parti, chiama l’una docilità e acume, e questa è quella con la quale noi ci assottigliamo a investigare e apparare le cose; e l’altra, con la quale noi le ritegnamo, apprensiva. Conoscendo adunque il nostro Poeta, ch’ei non basta nella investigazione delle cose solo il favore e lo influsso celeste, ma ch’ei bisogna ancora l’attitudine e la disposizione buona, invoca e chiede a un tempo medesimo, che gli sia favorevole la virtù celeste, e che lo aiuti a raccontar quello ch’egli vide l’attitudine e la disposizion sua, soggiugnendo oltre a di questo:

O mente che scrivesti quel5 che io vidi;

intendendo per mente, come voi vedeste di sopra, quella parte dell’anima nostra, de la quale egli dice nel Convivio: la mente partecipa della natura divina, a guisa di sempiterna intelligenza. Laonde l’anima è tanto, in essa sovrana potenza, nobilitata e denudata da materia, che la divina luce, come in Angelo, raggia in quella; per la qual cosa è l’uomo divino animale da’ filosofi chiamato. Volgesi adunque il Poeta, non a [p. 155 modifica]la memoria, come si pensano alcuni, per dire egli: che scrivesti quello che io vidi, ma a essa mente, parte, come si è detto, nobilissima della nostra anima. La quale alcuni teologi chiamano porzione superiore d’essa anima, affermando questa sola esser quella la quale è creata, senza altri mezzi, da la mano propia di Dio, e infusa ne’ nostri corpi, quando ei sono organizzati e atti a riceverla, in quel modo ch’egli la spirò nella faccia del primo uomo, formato ch’ei l’ebbe; onde disse Moses: factus est homo in animam viventem. La quale autorità intendendo i Manichei solamente secondo la lettera, dissero che l’anima dell’uomo era della sustanza propia di Dio; conciosia cosa che chi spira mandi fuori del suo, e ciò che è in Dio sia Dio. Nel quale errore non sarebbono eglino caduti, se ei l’avessero intesa spiritualmente (come ei dovevano, parlando ella di Dio), come l’hanno intesa i dottori Cattolici, interpetrando quello spirare, spiritum creare, e non spiritum emittere; e tanto più non mandando ancor l’uomo, quando egli spira, fuori di sè parte alcuna della sua sustanza, ma solamente l’aria ch’egli aveva tirato prima dentro di sè per rinfrescamento del cuore, da poi ch’ella è riscaldata. La qual calidità è, come è noto a ciascuno, accidente, e non sustanza. Questa parte superiore dell’anima razionale (la quale è quella che forma, intendendo, i concetti nostri) invoca adunque e chiama in aiuto suo il nostro Poeta, per poter meglio esprimere e manifestare essi concetti, dicendole: che scrivesti, cioè imprimesti nella memoria, riserbatrice delle cose appartenenti a essa porzione nostra divina, ciò che io vidi; tutto quello che comprese la cognizion mia sensitiva per mezzo de gli organi e de gli strumenti de’ sensi particulari. Nelle quali parole egli dimostra, seguitando la dottrina peripatetica, come ei non è cosa alcuna nell’intelletto nostro, che non sia prima stata nel senso. Imperò che non potendo esso nostro intelletto, per esser di natura tanto spirituale e divina, ch’ei non può operare in queste cose corporee, intendere loro propie, fu ordinato da la natura che le immagini e i simulacri di quelle, passando pe’ nostri sensi, s’imprimessero in un’altra potenza, chiamata fantasia, dove risguardando dipoi esso intelletto, a guisa (come dice Temistio nella sua para[p. 156 modifica]frasi dell’Anima) di uno che legge, egl’intendesse e comprendesse la lor quiddità e la lor natura; per il che disse il Filosofo, che chi voleva intendere conveniva che ragguardasse nelle immagini e ne’ fantasmi impressi nella fantasia, potenza tanto nobile, ch’ei disse dipoi, nel fine del terzo dell’Anima, parlando di lei: lo intelletto o egli è la fantasia, o egli non è senza di lei. Per le quali ragioni dice dottissimamente il Poeta, parlando a essa sua mente: che scrivesti e imprimesti, intendendo, nella memoria cio che io vidi, cioè compresi co’ miei sensi; veggendo col senso del vedere (nominando solamente quello, per tutti gli altri, come più nobile, e che ci dà cognizione di molte più cose che alcuno altro) il sito orribilissimo dell’Inferno, e le infelici anime che son tormentate dentro a quello; udendo con quello dello audito le dolorose e spaventevoli loro strida; sentendo con quel dell’odorato i fetidi puzzi delle sue bolge, e con quel del tatto lo incendio del fuoco de’ gironi, e lo stridore del freddo, della ghiaccia, e de gli altri luoghi presso al centro della terra:

Qui si parrà la tua nobilitade,

cioè nel descrivere io questi miei tanto alti concetti, apparirà la nobilità e la perfezione tua, conoscendosi ciascuna cosa da le operazioni sue. Imperò che tanto quanto è nobile e perfetta una operazione, tanto viene a esser nobile e perfetta quella sustanza da la quale ella procede. E però l’operazioni che procedono da lo uomo, come uomo, essendo egli il più nobile animale che si ritrovi in questo universo, sono operazioni più nobili e più perfette che quelle degli altri animali; e quelle degli animali, per essere eglino più perfetti che quelle cose le quali hanno l’anima vegetativa sola, più perfette che quelle delle piante. E che questa voce nobilità significhi propiamente bontà e perfezione di natura, lo dimostra chiaramente il Poeta stesso nella terza parte del suo Convivio: dove ragionando egli particularmente di lei, da poi ch’egli ha confutate e riprovate come false le opinioni di quegli che tengono, ch’ella sia esser nato d’illustre e chiaro legnaggio, o veramente possessione antica di ricchezza e di avere, egli dice la nobilità non essere [p. 157 modifica]altro che perfezione di propia natura, e ch’ella si piglia e cava da la perfezione di quella cosa la quale si dice essere nobile, come per il contrario la viltà da la imperfezione di quella che si dice esser vile. E però si dice una nobile spada, un nobile cavallo, un nobile falcone e una nobile margarita, quando ciascuna di queste cose è buona, e opera bene e perfettamente secondo che si conviene a la natura sua; e chi dicesse, soggiugne il Poeta, che questa voce nobilità si piglia nelle altre cose per la bontà e perfezione loro, e negli uomini per l’antichità della stiatta o per la possessione d’avere, piglierebbe tal voce in uno significato tanto contro a la ragione, e tanto fondato in su la presunzione, ch’ei non sarebbe da tenere altro conto delle sue parole, che delle voci degli animali che mancano della ragione. E questa è l’opinione del Poeta in quel luogo; da la quale sentenza séguita, ch’ella non si possa cavare, in quelle cose le quali sono di una specie medesima, dai loro principii essenziali; imperò che tutte le cose d’una medesima specie hanno ancor similmente i medesimi principii essenziali. Conviene adunque cavarla dai loro effetti, e conoscerla mediante le loro operazioni, in quel propio modo che si conosce e si cava la bontà e la perfezione d’uno arbore dai suoi frutti; per il che sono chiamate in quel luogo da ’l Poeta le virtudi frutti della nobilità. Conoscendosi adunque la nobilità di ciascuna cosa da le sue operazioni, fu detto con gran ragione da il Poeta a la sua mente:

Qui si parrà la tua nobilitade.

Conciosia che in questo suo poema si manifestino l’operazioni di quella, cioè i concetti e le speculazioni sue. Dove è da notare, che non volendo far la natura cosa alcuna in vano, e che non operi qualche cosa in conservazione e mantenimento di questo universo; e considerando che quelle cose, che giovassero operando solamente a loro stesse, si potrebbero chiamare inutili, e dire ch’elle fussero quasi state fatte da lei invano; non gli bastò che lo intelletto umano intendesse e speculasse solamente in sè stesso, ma volse ch’ei facesse ancor parte ad altri di esse sue intellezioni; per il che fu dato da lei a l’uomo la [p. 158 modifica]voce, la lingua, i denti e gli altri strumenti, con i quali ei potesse formare la parola per esprimere e manifestare essi suoi concetti; mediante la qual proprietà e comodità cominciarono gli uomini accozzarsi e conversare insieme; e ponendo, constretti da ’l bisogno, per più comodità i nomi a le cose, fecero le lingue, in un modo in questa parte, e in uno in quella altra, secondo ch’ei convenivano e si accordavano insieme. Ma perchè questo modo del manifestare i suoi concetti favellando non serve se non con quei che sono altrui presenti, e l’uomo desidera ancor manifestargli a quei che sono in altri paesi o che hanno a nascere dopo lui, ei trovò con l’arte, la quale studia sempre di sopperire a quel che manca la natura, le lettere e il modo dello scrivere, con il quale ei fa i concetti suoi, non che durare gran tempo, si può quasi dire immortali. Della qual cosa tiene la comune opinione, secondo Eusebio, che fusse inventore Moisè, non si trovando scrittura alcuna più antica che il suo Pentateuco. E se i Greci, i quali non hanno il più antico scrittore di Omero (il quale fu pur dopo la guerra Troiana), dicono ch’ei fu inventore delle lettere Cadmo, il quale le trasse di Fenicia; Moises, che fu innanzi a lui gran tempo, le aveva date prima egli agli Ebrei, e da loro le ebbero poi i Fenicii. Il che pare ancor che consenta Plinio, dicendo che elle furon trovate da i Siri, e gli Ebrei son Siri. Manifestano adunque gli uomini o con le parole o con gli scritti i concetti loro; e da la nobiltà e altezza di tali concetti si chiamon dipoi nobili gli animi degli uomini, e da la bassezza e viltà vili. E questo volendo inferire il Poeta, si volge a la sua mente, dicendole, come voi avete udito,

Qui si parrà la tua nobilitate.

Dopo la qual cosa, non contento ancora delle diligenza usata in invocare in suo aiuto il favor celeste e il valor suo propio, egli si volge a Virgilio, e dicegli che consideri molto bene l’impresa a la quale ei lo mette, nel modo che voi udirete (ponendo qui fine al più dire, e voi ad ascoltare) nella lezione che seguirà.

Note

  1. Cr. Io cominciai.
  2. Cr. dallo.
  3. Pico della Mirandola nel commento, ch’egli compose sulla canzone d’amore di Gerolamo Benivieni, scrive al cap. X del primo libro:
    «Dopo l’anima del mondo pongono i platonici molte altre anime razionali, fra le quali ne sono otto principali, che sono l’anime delle spere celesti, le quali secondo li antichi non sono più che otto, cioè sette pianeti e la spera stellata. Queste sono le nove Muse, tanto da’ poeti celebrate, fra le quali è la prima Calliope, ch’è l’universale anima del mondo, e l’altre otto per ordine sono distribuite ciascuna alla sua spera.»
    Il commento di Pico Mirandolano è stampato colle opere del Benivieni nelle due edizioni dei Giunta 1519 e degli Zopino del 1522, la prima delle quali è tra le citate dalla Crusca.
  4. Cr. ad alcun.
  5. Cr. ciò.