Lettere dieci di Virgilio agli Arcadi (1800)/Lettera V
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L E T T E R A Q U I N T A
Alli Legislatori della nuova Arcadia, P. Virgilio, Salute.
Un rumore improvviso interruppe il ragionare, ed era un cotale che ad alte voci gridando chiedea d’aver luogo e soggiorno tra i Poeti latini, e tra gli epici un seggio a me vicino, perché dicea, d’aver tradotto in gran volumi di verso esametro, e di stile virgiliano com’ei diceva tutto quanto il poema dell’Orlando furioso insino al 48° canto del divin Ludovico Ariosto. Noi fummo dapprima sbigottiti udendo quel titolo di divino che ben sapevamo per prova esser dagli Italiani mal impiegato. Sapevamo eziandio che l’Ariosto medesimo non avea già voluto fare un Poema secondo le regole della ragione e del buon gusto, ma che piuttosto avea scritto affine di dilettare gli amici, a’ quai leggeva i suoi canti, non al giudicio della severa posterità; onde in noi crebbe il ribrezzo a quel nuovo parlare di traduzione latina. Tristo me dicevami il cuore, il mio verso, e il mio stile se è ver quel che udii. Come può stare in bocca di paladini, de’ negromanti, delle streghe, che pur son gli eroi di quel poema? Che ha a fare la lingua latina co’ palagi incantati, co’ viaggi sull’ippogrifo, con gli assalti delle balene, e con tanti giganti, e miracoli, e duelli d’arme fatate? I soli nomi di que’ guerrieri e cavalieri erranti ben malagiati devon rendere i versi latinimassimamente nuovo Ariosto, ed Orlando, a recitare i suoi versi tra l’ombre illustri di Dagalaiffo, e di Ermenerico, degni Consoli di un tal Romano Scrittore, e con lor faccia pompa del nobil distico che bene sta appunto al suo ritratto
Carmen utrumque legas, poteris vix dicere lecto
Musa latina prior, musa ne tusca fuit?
Nessun certamente sospetterà codesta novella musa esser vissuta ne’ tempi antichi della latinità.
Sfogata ch’ebbe Orazio la bile poetica, io così presi di nuovo il ragionamento sopra Petrarca. Leggiam pertanto le tre canzoni sopra gli occhi, quella della lite d’amore innanzi alla ragione, quell’altra - Se 'l pensier che mi strugge, - e la compagna sua Chiare fresche e dolci acque - Di pensier in pensier, e poche altre più simili a queste, e tutto ciò mettiamo a memoria e ripetiamolo per diletto. Perché quai voli, e pensieri più nobili ponno trovarsi di quelli, onde le prime tre sono tessute? Qual invenzione ammirabile, nuova, ed ardente del più vivo foco non è quell’accusa, e quella difesa d’amore? Chi non si sente languir per dolcezza, e trasportare per estasi a quella fonte, tra quell’erbe, e que’ fiori animati, in quell’aere sacro, e sereno, che tutti pieni della bellezza di Laura tutti gli fanno onore e tributo, e rapiscono divinamente quà e là il Poeta, e chi va leggendo con lui? Che risplendenti, e inusitate, ed alte immagini, che sovrumani trasporti, che soave delirio, ed ebrietà di passione infiammata non sentesi colà dentro per tutto? Diciamo il vero, amici poeti, mentr’io leggea questi pezzi, era ella più meraviglia, o più invidia la nostra? Qual di noi seppe esprimere un sì divin pianto?
Et era ’l Cielo all’armonia sì intento,
Che non si vedea in ramo mover foglia, Tanta dolcezza avea pien l’aere e il vento;
o nobilitare cotanto la forza, e l’ardore celeste di due occhi spiranti virtù?
L’aer percosso da sì dolci rai
S’infiamma d’onestate e tal diventa, Che il dir nostro e il pensier vince d’assai.
Basso desir non è ch’ivi si senta,
Ma d’onor di virtute. Or quando mai Fu per somma beltà vil voglia spenta?
Noi certamente gran fama otteniamo per le immagini inusitate, e gentili, e vive che i nostri versi colorano, e fanno immortali. Ma convien dirlo, assai sovente si rassomigliano l’une alle altre ne’ nostri poemi. I fiumi che versan l’onda fuori dell’urne, le najadi de’ fonti, le ninfe de’ boschi, i zefiri nell’erbose campagne, l’aurora, che con le dita di rose apre le porte al giorno, e i cavalli del Sole, e i varj occhi delle divinità, e l’ali della vittoria, e le trombe della fama, e l’amor con la benda, con l’arco, con le fiaccole, e tutto il resto, ritornano ad ogni passo tra l’opere nostre a comparire. Poco o nulla di tutto ciò serve al Petrarca. II sole per lui è un rivale innamorato, e alfine sconfitto; ma con qual grazia!
A lui la faccia lacrimosa e trista
Un nuviletto intorno ricoverse; Cotanto d’esser vinto gli dispiacque.
Amore è un avversario chiamato in giudicio avanti il tribunale della ragione, un fiume non è un vecchio su l’urna, ma un messaggero, che va innanzi per veder Laura piuttosto, e per annunziarle il venir del Poeta. I fiori non sol risentonsi sotto al piede di Laura, ma pregan d’esserne tocchi. Ma che diremo de’ subiti slanciamenti di quell’affetto in tanti modi, e con tanto impeto espressi?
Deh perche tacque ed allargò la mano,
Che al suon di detti sì pietosi e casti Poco mancò, ch’io non rimasi in cielo!
e altrove
Aprasi la prigione ov’io son chiuso,
E che il cammino a tal vita mi serra...
e quel sì passionato
Dolor, perche mi meni
Fuor di cammino a dir quel ch’io non voglio...
e quell’altro:
Lagrime triste, e voi tutte le nottiM’accompagnate ov’io vorrei star solo...
Converrebbe ridirvi gran parte di ciò che udiste chi volesse di tutti i trasporti parlare di quella nobil passione, e così far dovrebbesi chi del suo stile intendesse di rendere piena ragione. Vero merito fu del Petrarca il creare per una poesia nuova una lingua, e uno stile affatto nuovo, e sol proprio degl’italiani dopo il suo esempio. I più nobili, i più gentili modi di dire, le grazie dell’elocuzione, le frasi insomma e l’espressioni poetiche, e proprie di lui, e degl’italiani, tutte, o poco meno, a lui son dovute. Il suo cuore e il suo ingegno ne furono i primi inventori, da niun di noi non le apprese, nè trasportò d’altra lingua, e quinci in alcuna altra lingua non ponno tradursi. Ciascuna ha le sue formole, come le terre e i climi hanno i lor frutti, e quelle e queste tralignano, o perdon di forza a trasportarle in paese straniero. Il Petrarca diede all’Italia le sue, nè per tempo, nè per vicenda non si perderanno giammai, che han troppo felice origine, e generosa. Egli stesso l’Amore le dettò di sua bocca al Poeta. Uditene alcune, e confessate, che poche n’ebbe la nostra lingua d’altrettanto leggiadre espressive concise e vibrate or per la forza d’un solo aggiunto, or per la collocazione d’una sola parola, or per lo giro d’una tal frase, ed or per la sola trasposizione, o ancor per l’armonico e musicale andamento del verso soltanto. L’orecchio nel vero avea colui non men delicato del cuore, e dell’ingegno. = Piaga per allentar d'arco non sana = Qual maraviglia si di subit'arsi? = Lasciando tenebroso onde si move = Ov' ogni latte perderia sua prova = Che se l'error durasse altro non chieggio = Non era l'andar suo cosa mortale = E le parole Sonavan altro che pur voce umana = Che 'l fren della ragione ivi non vale = Come 'l nostro operar torna fallace = E del mio vaneggiar vergogna è il frutto = Rotto dagli anni o dal cammino stanco = Alle lagrime triste allargo il freno = Tutta lontana dal cammin del sole = Dal manifesto accorger delle genti = E col tempo dispensa le parole = Fece Di nuovi ponti oltraggio alla marina = Tutte vestite a brun le donne perse, E tinto in rosso il mar di Salamina = Finchè l'ultimo dì chiuda quest'occhj = Quando la gente di pietà dipinta su per la riva a ringraziar s'atterra = E facea forza al cielo Asciugandosi gli occhj col bel velo = Ma se più tarda avrà da pianger sempre = Il sole Già fuor dell'Oceano insino al petto = E così d’infiniti altri somiglianti modi i più nuovi, i più gentili, i forti ed evidenti, che possano alzare, e ingentilire una lingua, e darle insieme un colore ed un tuono tutto suo proprio, ed originale. Perciò mi duol quasi ch’egli non poeta fuorchè agl’italiani, a nessun altra nazione familiare, poichè non può gustarsi da chi non ha sin dall’infanzia bevuta quella dolcezza tutta propria della lingua, e della poesia ch’egli creò. Quindi è che noi stessi non ne sentiamo per anco tutta la grazia, benchè dalla noastra lingua, e dall’uso fatto con Dante abbiam molto aiuto, e massimamente dall’anima, che poetica già sortimmo, e dall’esperienza dell’ottima poesia; nè pero mai sarà tradotto il Petrarca in lingua alcuna, come lo fummo noi, e i greci con sufficiente rassomiglianza in alcune. Ma buon per lui, che non sarà per ventura disfigurato, e tradito da tanti barbari verseggiatori senz’anima, e senza orecchi, o prosatori eziandio, siccome Io fummo noi, e lo siani ruttopiorno senza poterci difendere. Ahimè, soggiunse allora un non so chi, che in disparte stava ascoltando, che peggio ancora accadde al Petrarca, poichè trovos>i un barbaro di nuova foggia, che lo travestì non già nelle parole, ma ne’ pensieri e nel senso de’ versi suoi, facendol parlare di tutt’altr’ometto più santo, e più reverendo, onde questo si venne ad essere profananato, e quel del poeta a far pietà, e il Petrarca spirituale intitolò il suo volume. Non v’ha pazzia, ripres’io, che in fatto di poesia non si possa aspettare dagli uomini; ed io fui pur lacerato a buni, ed Omero il fu pure affiti che dicessimo co’ nostri versi insieme accozzati le stravaganze più ridicolose, che un pazzo immaginava. Allora levossi in tutti gli antichi un mormorio, chi ricordava un’ingiuria, chi un’altra fatta all’opere sue da mille importuni scrittori di verso e di prosa, di tutte l’età, d’ogni nazione. Or ritornando al Petrarca fa concluso a pieni voti doversi tenere per gran poeta, e dargli luogo fra i classici primi, e maestri. Ma fu stabilito al tempo stesso un tribunale, che ne togliesse il vizioso, il freddo, l’inutile, e le ballate, e le sestine, e le frottole, e il resto troncasse, che all’onor del Petrarca, e all’utile de’ leggitori e al lor diletto fa danno. Gran gioia comparve sul volto degl’italiani, che ritrovammo di là partendo, ansiosi della nostra giudicatura, i quai conobbero non per alcuna passione, od invidia dar noi sentenza, ma il vero valore, ed il merito de’ poeti non men che il vantaggio, e la gloria della nostra patria promuovere veracemente.