gistrati, in qual confusione sia tutto il nostro pacifico regno poetico. Orazio, Catullo, Properzio, e gli altri miei vecchj compagni latini, e greci, che non han meco tentato per calmar questa insania? Ma peggio abbiam fatto. Costor ci trattano con disprezzo, non fan conto di greci, nè di latini, e dicono apertamente di voler oscurare la nostra fama, e scuotere il giogo dell’antichità per tanti secoli, e da tante nazioni portato. Giunse talun di loro a rimproverarci l’ignoranza del linguaggio italiano, per la quale non possiam noi giudicare, essi dicono, della moderna poesia. Mi son dunque applicato con esso gli amici a conoscere la vostra lingua, nè difficile è stato a noi l’impararla poichè in gran parte è la stessa, che noi parlammo, vivendo in mezzo a Roma con gli schiavi, col popolo, e con le femminette. A voi non è ignoto, che oltre alla lingua latina più nobile, e più corretta, che gli scrittori, e i patrizj usavano, un’altra era in uso tra ’l volgo, che popolare dicevasi, come legger potete in Cicerone, e molti de’ vostri dotti han mostrato, se il ver mi dis-