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284 | scritti di renato serra |
sioni della vanità non ancor stanca, riusciva la più ricca forse e la più schietta delle sue opere, piena di gioventù nuova e di poesia.
D’Annunzio non è vecchio, e non scrive con intenzione le sue memorie. Ma anche in lui c’è, per questo diario, una sorta di rinnovamento.
Non di materia; di animo.
Poiché tutti sanno che l’opera di D’Annunzio fin dal principio non è altro, in un certo senso, che una lunga e minuziosa autobiografia; una esibizione e descrizione della sua persona dei suoi amori dei viaggi delle letture; delle mutazioni e sopra tutto delle presunzioni.
Ma c’era in questo qualche cosa di falso; la rigidezza monotona di un idolo portato in processione da dei sacerdoti fastosi e senza fede; piuttosto che l’interesse di una persona viva, si sentiva la curiosità delle pose e delle fogge; l’interesse dello snobismo, che è stato del resto uno dei principii della fortuna di D’Annunzio.
E poi tutti gli episodi e i particolari esatti, materialmente veri, diventavano la materia indifferente delle costruzioni arbitrarie, delle falsificazioni tragiche estetiche eroiche, di cui il tedio e la meraviglia ci pesa ancora.
Non diremo che in codesti fogli del suo giornale D’Annunzio si sia trasformato; è sempre lui; parla di sè, con la sua bocca d’oro.
Ma egli non si propone nessuno scopo grande; ha una cosa da dire; quella sola. E la, pagina ne acquista un non so che di vero, una individualità, una realtà, che ci prende il cuore come mai non era accaduto.
Invece della vanità e del tedio, sentiamo qualche cosa di nuovo; una freschezza e insieme un tepore di vita.