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le lettere | 285 |
Un soffio primaverile muove le parole stillate e preziose; come se le perle fine diventassero gocciole di guazza, tremanti in cima in cima ai fili dell’erba lustra. Non le vogliamo scrollare con le mani grosse.
Quella stessa virtù espressiva, che in fondo è il carattere immutato di D’Annunzio;1 la potenza di realizzare tutti gli effetti nella parola, con una rotondità di armonia e una precisione implacabile di rilievo, che ci è riuscita qualche volta odiosa nella sua freddezza, oggi, adoperandosi in modo sciolto e quasi per gioco, ci sembra più schietta; ci sono dei momenti in cui la qualità dell’artista appare liquida, senz’altro interesse che la cosa da dire, come un dono puro e melodioso.
È un D’Annunzio felice, come nei giorni più belli della giovinezza e delle Laudi di Alcione; con certi risentimenti di personalità più nervosa quasi diremmo e più nuova.
La beatitudine lirica diffusa e scorrente nelle sue pagine ha in qualche punto delle rotture: abbiamo notato nelle Faville e più ancora nella Leda dei principii di periodo nuovi, sottratti a quell’armonia che è quasi una schiavitù dello scrittore; abbiamo sentito nella sua voce un accento non soltanto ritmico, ma di attenzione quasi
- ↑ Immutato. Anche In quanto egli oggi possa usare indifferentemente l’italiano e il francese, e magari l’inglese domani, come lingua letteraria. Indifferentemente e freddamente. Chi abbia solo un poco d’intelligenza del mestiere sa bene che nel problema come D’A. abbia potuto comporre il San Sebastiano e la Pisanella, con parole francesi perfette e staccate come tessere di mosaico, senza periodo vero e senza musica, (tanto che conservano il loro ufficio nella versione), si trova il segreto di tutto un carattere dei lavoro artistico dannunziano.